Ho rimandato di proposito di qualche giorno perché avevo bisogno di riordinare un po' le idee su questo libro gigantesco. (avverto: ci sono qui e lì sparsi degli spoiler)
Parto levandomi di torno i difetti (anzi, uno solo) ho fatto una fatica incredibile a finire le ultime due parti. I personaggi sono veramente approfonditi, ma sul finale mi sembrava che paradossalmente non avessero più niente da darmi, quindi non mi sentivo motivata a finirlo (e ci sono stata due settimane). In alcune parti è veramente prolisso: i dieci capitoli su "Lévin e Stiva vanno a caccia" sono stati un trauma.
E veniamo al dunque.
Il titolo, Anna Karenina, è fuorviante. In realtà la storia è imperniata sullo sviluppo in una geometria perfetta di due storie: Lévin e Kitty, Anna e Vronskij. Da un lato l'amore retto e felice, dall'altro l'amore passione infelice. La geometria è perfetta anche nello sviluppo delle due storie: dalla felicità all'infelicità assoluta Anna e Vronskij; da un'infelicità per alcuni versi piuttosto banale e usuale alla felicità coniugale perfetta Lévin e Kitty.
Nessuna delle due storie avrebbe ragion d'essere senza l'altra che fa da contrappeso. È in questa simmetria che il romanzo trova la sua perfezione.
Ai due protagonisti (di fondo, Anna e Lévin) si affianca una schiera infinita di personaggi, ognuno importante nella misura in cui questo si relaziona all'amore e all'istituzione del matrimonio: dal fratellastro di Lévin (Sergej Ivanovic), che rimane scapolo per fedeltà a un'ex fidanzata morta, al donnaiolo Stiva, la moglie fedele e sciupata Dolly.
E poi c'è Karenin, il marito di Anna. La crudele omonimia con Vronskij (Aleksei) segna invece le distanze con l'amante. Uno è un uomo troppo morale, l'altro è impulsivo e passionale. Lévin, che incrocia entrambi di sfuggita, segna esattamente l'equilibrio perfetto fra l'uomo freddo e l'irrazionale/passionale. Lévin è forse l'unico personaggio veramente positivo del romanzo, nonostante sia lacerato dai dubbi (che, però, risolve sul finale), nonostante l'iniziale infelicità con Kitty. La storia di Anna è invece divisa fra i due eccessi. Al tempo stesso Kitty è il suo contrappeso. La prima è una donna affermata in società che decade fino al suicidio. Kitty dall'immaturità più banale diventa una moglie saggia e matura.
E ancora, da un lato l'amore di Lévin e Kitty è il raggiungimento di una felicità equilibrata, è un percorso di costruzione. Quello di Anna è un percorso di distruzione. È un tentativo di ribellione all'istituzione del matrimonio inteso in quel modo, a favore di un amore sincero, ma che si muove inevitabilmente verso l'autodistruzione. Anna non sopporta il peso di aver lasciato tutta se stessa in mano al solo Vronskij. Di dipendere solo da Vronskij. I capitoli sul suicidio erano fra le parti più belle del libro, quasi non pareva scritto prima del '900.
Tolstoj non giudica mai Anna. Eppure a me è parso che per Anna avesse anche lui un timore reverenziale. Lévin (così simile a lui!) gli stava indubbiamente più vicino.
L'incontro fra i due protagonisti, la "cattiva" Anna e il "buono" Lévin, è incredibilmente pessimista. Non è il buon Lévin a redimere Anna, ma è lei a "corrompere" l'uomo buono, nonostante la cosa si limiti a una chiacchierata. Allo stesso modo la campagna, il luogo della laboriosità, il luogo di Lévin, si oppone continuamente alla città, il luogo di Anna, dove l'ozio è inutile e nocivo.
Che poi, detta così, sembrerebbe che la storia di Anna sia la parte più interessante del libro.
E io devo ammettere: mi ha un po' stancata, per me la metà-Lévin è stata di gran lunga più interessante. E solo un genio della scrittura poteva far sì che il "buono" fosse il più interessante.
Mi dispiace solo essermi quasi lasciata "sconfiggere" dalle parti più prolisse, è un romanzo meraviglioso.
Trovo la tua recensione davvero pessima, e ancor peggio completamente inopportuna da leggere, in quanto potrebbe scoraggiare un potenziale lettore, solo sulla base di false informazioni che tu fornisci.
1) I capitoli su Stiva e Levin a caccia non sono affatto prolissi. E' invece nel diverso approccio alle situazioni dei due che Tolstoj tratteggia meglio le differenze tra i personaggi, la pigrizia di Stiva e la pervicace tenacia di Levin, che poi è la sua ricerca di vita, che rischia di passare sopra le persone nella speranza di giungere a una verità assoluta. Più di tutto è importante notare come nel dialogo tra Levin e il guardiacaccia (o come si chiama) si trovano i prodromi delle conclusioni cui giungerà Levin alla fine del romanzo.
2) le storie di Levin e Anna poi, si reggono benissimo anche da sole, tanto sono approfonditi ognuno dei personaggi. Non dico che sarebbe stato meglio, ma non c'è certo bisogno di un raffronto per comprendere appieno la profondità psicologica dell'uno o dell'altro.
3) catalogare Levin come "il buono" e Anna come "la cattiva" poi, è una cialtroneria senza possibilità di appello, che fa ben capire quanto TU non abbia capito nulla dello spessore spirituale dei personaggi, non certo esegetica del romanzo.
Levin non è "buono", tra le speculazioni intellettuali che accumula nei primi capitoli, c'è pure quella secondo cui è giusto che taluni inividui siano servi di altri che sono i padroni, perché non abbastanza intelligenti, capaci, o volenterosi. Quando sono a caccia, di nuovo, per la sua foga di badare agli affari propri, non si fa problemi a cercare di abbandonare gli altri compagni di ventura. Pure col fratello malato non ha neanche metà delle premure che ha invece sua moglie, e solo per rispetto a una convenzione sociale, vorrebbe impedire che sua moglie e una prostituta, ancorchè umile e bisognosa di aiuto, soggiornino nella stessa stanza.
Levin è semplicemente "un uomo in cerca della verità", che può essere solo di origine divina ovvero no, ma in ogni caso alla fine scopre non esiste in senso assoluto, ma solo come continua domanda nel rapporto con le altre persone. Nel bene e anche nel male, come dimostra anche l'ultimo dialogo con Anna, che Tolstoj in cui Tolstoj magistralmente si spende per dimostrare come neppure lui, tanto alla ricerca di purezza, sia esente da debolezze. Per questo, dall'inizio alla fine, Levin è tutt'altro che "equilibrato".
Anna poi, non è certo una succube tentatrice, e neanche comincia "buona", semplicemente troppo educata alle buone maniere, ma completamente ineducata a porsi delle domande, sposatasi troppo giovane con un uomo ben più anziano di lei, dapprima vive del riflesso della moralità di lui. Quando incontra Vronskij quelle domande che non si era mai poste, perché aveva saltato la gioventù passando da ragazza a moglie-madre in un colpo solo, la colgono di sorpresa. E lei ormai non ha più gli strumenti emotivi necessari a maneggiarle. In questo senso si rivela ampiamente di nessun aiuto anche la modesta cognata.
Credo due sole cose tu abbia detto di giusto: intitolare il romanzo solo ad Anna è un'ingiustizia bella e buona, d'altronde credo risenta della scelta editoriale di richiamare i titoli degli struggenti romanzi d'amore francesi, tanto in voga a quei tempi.
La contrapposizione tra la campagna come luogo dellla laboriosità e la città madre di ogni vizio, come spesso anche Dostoevskij ricorda nelle sue opere additanto San Pietroburgo come sorgente di ogni corruzione, o Gogol parlando della campagna come sano ricettacolo di ogni bendidio.
Ciao, MadLuke.