X Concorso Letterario di Forumlibri: i racconti

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alessandra

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Buonasera...mi è sembrato di vedere le vostre faccine risvegliarsi appena mi sono collegata :mrgreen: Ora vediamo se riesco a pubblicarli :mrgreen:

Abbiamo 11 racconti (spero di non averne dimenticato nessuno) in ordine alfabetico in base al nick:
Attrazione fatale di Adriano Linetti
Prima di incontrarti di Akoko
Profumo di zagara di Bibbidi Bobbidi Boom
Rinascita di Carlo Scribacchini
Telefonata di mezzanotte di Giulio
Radio Give-me-Five di Jo Living
Checco ed io di Lunapop
Macigni di Masemino
L'amore è un così di MoltoBigCalamaro
Una famiglia colorata di Rainbow
Dove ho visto te di Sogno-o-son-desta

Partecipanti:
ayuthaya
Carcarlo
Dory
estersable88
francesca
Germano Dalcielo
malafi
Ondine
Pathurnia
qweedy
Roberto89
 
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alessandra

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Attrazione fatale di Adriano Linetti

Aggiungo la versione word per tutti coloro che hanno trovato difficoltà a leggere il pdf, però chi può farlo legga quella del link, è più comprensibile e ordinata.

ATTRAZIONE FATALE di Adriano Linetti

Three months earlier

Le due donne doloranti, ormai esauste ed avvinghiate l’una ai capelli dell’altra lungo le scale di servizio della Smith Tower, si guardarono negli occhi, si avvicinarono fino a sfiorarsi e capirono. Ne valeva la pena? Era quello che volevano? Lasciarono la presa, si sedettero sui gradini e presero un lungo respiro.

Sunday morning, 9.00 am

Il torpore della domenica mattina. Quel dolce e graduale passaggio dal sonno alla veglia, sapendo che nulla e nessuno potrà rovinare l’atmosfera di una giornata di pace. Perché il sabato non è così. C’è l’adrenalina della settimana ancora in circolo. C’è sempre qualcosa da fare, da sistemare, da cancellare dalla to do list per avere, finalmente, la domenica tutta per sè. Questo stato di benessere e relax non è ancora scalfito dall’idea del domani, del lunedì in cui tutto ricomincia. Oggi è domenica, ed almeno fino al sonnellino pomeridiano sarà ancora e sempre domenica. Solo dopo ci prenderà quel senso di ansia mista a nostalgia del weekend che sta terminando, che ci proietta verso la nuova settimana. Ma adesso è domenica mattina.

E lei è lì di fianco a lui, ancora avvolta dalle braccia di Morfeo e profuma di sonno. Lui si gode il momento ancora un po’, poi allunga il piede verso di lei fino a sfiorare la sua pelle vellutata. Prima il piede, poi il polpaccio, poi la coscia. È il loro modo di darsi il buongiorno la domenica mattina. Ma lei dorme ancora sul fianco sinistro. Il piede si muove allora lungo la sua gamba, sale ancora fino ad incontrare le prime rotondità, le segue, si insinua. Si accorge che non indossa le mutandine. La cosa lo turba e lo eccita: non era sua abitudine dormire senza.

Ma poi qualcosa lo blocca. Dalla porta socchiusa filtra una lama di luce e comincia a diffondersi l’aroma di caffè, quell’inconfondibile aroma di caffè che ha tanto il sapore della domenica mattina. Perché gli altri giorni il caffè se lo preparano in fretta tra un vestito e l’altro, il trucco e la barba. La domenica mattina invece è un rito da gustare insieme. Ma qualcosa non torna. Lei è lì nel letto: chi sta preparando il caffè? Forse si era già alzata, l’aveva preparato e si era infilata di nuovo sotto le coperte fingendo di dormire? Senza le mutandine? Ma cosa aveva in mente sua moglie quella mattina?

Sunday morning, 4.00 am

Puoi venire, ormai dorme da due ore e non si sveglia di sicuro

04.02



Ok, ti mando whatsapp quando sono sotto da te


04.03



Aprimi, sono qui sotto

04.28

Sunday morning, 4.30 pm

“Ciao amore, dammi un bacio”

“Dai dai sbrigati ed entra, non è il momento ora, domani è il nostro giorno”

Sunday morning, 9.10 am

Lui allora allunga la mano, la infila sotto la camicia da notte, comincia ad accarezzarle le gambe e sale piano piano, mentre la sua eccitazione è ormai evidente ed anche il respiro di lei si fa più affannoso.

“Ciao tesoro, buona domenica” dice lei con voce squillante, spalancando la porta col vassoio del caffè in mano. Apre le tende oscuranti col telecomando e lui la vede lì, in piedi sulla porta, col vassoio su cui sono posate tre tazzine di caffè.

Lui non capisce, guarda lei accanto alla porta, guarda lei nel letto, poi di nuovo lei dalla porta. E poi realizza. Prende le lenzuola, le strappa dal letto e di fianco a lui c’è lei. Cioè l’altra, la sua amante.

“Ciao tesoro, buona domenica” dice lei tutta allegra, svegliandosi da quel finto sonno. Ma capisce subito che non è rivolto a lui. Lei si alza dal letto, va verso la moglie, le prende il vassoio, lo appoggia sul tavolo e comincia a baciarla appassionatamente. Si spogliano a vicenda, si buttano sul letto di fianco a lui. Lui le guarda inebetito, mentre loro si strusciano ed emettono mugolii che forse sono di scherno.

Sunday morning, 9.20 am

Sono tutte e tre sul divano. Lui incredulo. Loro su di giri che ridono ancora.

“Secondo te cosa avremmo dovuto fare, dopo che ci hai preso in giro per tre anni? Ucciderti? Prenderti a pugni?”

Lui riesce solo a chiedere come si fossero conosciute.

“Hai presente la tua frase preferita? Io non ho niente da nascondere e puoi aprire in due il mio cellulare e non troverai mai niente. Ebbene l’ho fatto”

Lui le guarda sconsolato e l’altra prosegue:

“Eravamo molto attenti, mai messaggi whatsapp se non eravamo sicuri di poterli cancellare, perché tu mi avevi giurato che l’avresti detto a tua moglie nel modo giusto e non volevi che lo sapesse così. Ma alcune volte è successo. Come quel sabato sera. Io credevo che lei fosse da sua madre, invece poi all’ultimo momento aveva deciso di non andare”.

“Di certo tu manco lo ricordi” dice la moglie.

Invece se lo ricordava eccome. Avevano appena finito di vedere un film e lui era andato in bagno un minuto e l’aveva sentito, il plin plin maledetto. Aveva fatto più in fretta che poteva ed appena tornato in soggiorno si era diretto verso il tavolo per prendere il telefono. “Chi è tesoro a quest’ora del sabato sera?” aveva detto lei con noncuranza, “Niente, era Tom che domani non può venire a vedere la partita dei Sonics”.

“Non avevi fatto in tempo. In 5 secondi avevo fatto una foto al contatto ed il giorno dopo ho cominciato a scriverle. Facendo finta di essere un ammiratore segreto, l’ho convinta a vederci dopo aver flirtato un po’ via Whatsapp”.

“Ci siamo date appuntamento in un luogo affollato, sulla terrazza panoramica della Smith Tower. Lei si aspettava di incontrare un uomo, ma quando mi ha visto ha capito subito”.

“E certo che ho capito subito. Mi si è avvicinata una furia che con fare minaccioso mi dice che la farà pagare a me e a quello stronzo del mio amante. Io allora sono scappata giù per le scale di servizio, ma lei si è sfilata le scarpe col tacco ed in pochi piani mi ha raggiunto. Ci siamo prese a male parole, a sberle e sputi”.

“Ma poi, agitate, incazzate e tutte sudate, avvinghiate per i capelli con le labbra che si sfioravano ci siamo fermate, ci siamo guardate negli occhi, abbiamo avvicinato le labbra ed ora eccoci qui”.

Lui ancora non capisce; cioè capisce che l’ha fatta grossa, capisce che nulla sarà mai più come prima, ma ancora gli sfugge un particolare.

“Cioè … voi siete gay?”

“Chiamaci come vuoi tesoro, lesbiche, bisex, amanti, fedifraghe. O forse solo deluse ed accomunate da un uomo stronzo”.

Poi la moglie prende due valigie già piene di vestiti, la borsa del computer, le appoggia alla porta di casa e dice: “Ecco, te ne puoi andare. E non tornare più”.

The end

“Non mi è piaciuto questo film”.

“Per forza, a te piacciono i film romantici dove alla fine lui ama lei e tutti vivono felici e contenti”.

“No, è che a me di sabato sera sul divano con te piace vedere dei film più rilassati e da innamorati. E comunque chi l’ha detto che lei e lei non vivono felici e contente?”

“Bah, secondo me è inverosimile che lui lasci in giro il telefonino incustodito e queste due si scoprano lesbiche a 35 anni”.

“ E chi lo dice?”, sussurra Joanna con voce sensuale. E slacciandosi i bottoni della camicetta attira Mike verso di lei col ditino, gli cinge le braccia intorno al collo e comincia a mordicchiargli le labbra .

“Un attimo che vado a fare una doccia prima di infilarmi sotto le lenzuola con te, tu sei tutta bella profumata ed invece io …. Fatti trovare pronta che arrivo.”

E mentre Joanna si infila un completino di raso nero praticamente invisibile, lo sente.

Plin plin

Che fare, leggere o non leggere il messaggio arrivato sul telefonino che Mike ha lasciato sul divano?

Il messaggio è di Ben.

Ciao, domani non posso andare allo stadio. Vuoi il mio abbonamento?

23.15


“Scema scema scema. Ed io che per un minuto ho dubitato.” E si butta tra le lenzuola in attesa che arrivi lui, fresco di doccia, l’asciugamani in vita ed i capelli ancora sgocciolanti ed accordellati, proprio come piace a lei.

Plin Plin

Con le mani ancora sgocciolanti Mike prende il telefono dalla tasca dell’accappatoio.

Allora sei solo? Vieni da me?

23.17



No no, è rimasta a casa, ci vediamo lunedì


23.18

Grande idea gli aveva dato Ben di tenere due telefoni, uno sempre in vista, l’altro rigidamente nascosto all’insaputa di Joanna e sempre silenzioso. Chissà poi perché stavolta ha suonato al messaggio di Donna, visto che le notifiche sono disattivate? Deve stare più attento, forse le deve reimpostare dopo l‘ultimo aggiornamento di whatsapp.

Il suono della notifica è giunto anche a Joanna oltre la porta del bagno, attutito ma inconfondibile. Per un attimo pensa di precipitarsi in bagno e capire da dove sia venuto, visto che il telefonino di Mike è ancora sul divano, muto come un pesce dopo il messaggio di Ben.

Ma poi indugia, si guarda allo specchio e vede una donna bella e seducente. Ancora po’ scossa ed eccitata dal film e dall’immagine di sé nello specchio, si ridistende sul letto e delicatamente comincia ad accarezzarsi attraverso la stoffa di raso liscia come la seta. Prima piano, poi si porta l’altra mano sulla bocca trattenendosi a stento, mentre le passano davanti le ultime scene del film.

Mike la trova nel letto che dorme già e non osa svegliarla. Pazienza, pensa, domani abbiamo la giornata tutta per noi ed è già pronta, agghindata proprio come piace a me.

Joanna lo sente infilarsi nel letto, ma finge di dormire. Per un attimo, non ancora del tutto sazia, è tentata dalla vicinanza di lui. Ma poi decide che no, non è il momento: adesso deve elaborare un piano. La vendetta è un piatto da consumare freddo, ma non troppo.
 
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alessandra

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Prima di incontrarti

di Akoko


Prima di incontrarti, ti ho visto più volte entrare nell'aula di fianco alla mia, fiero, orgoglioso e vestito all'africana. Forse temevi che non ti si notasse abbastanza! Dopo aver frequentato l'Università per stranieri di Perugia per imparare l'italiano, ad anno scolastico inoltrato hai frequentato per pochi mesi la classe quinta della mia scuola, per dare l'esame di maturità e poter poi iscriverti all'università. Evidentemente i tuoi titoli di studio non erano riconosciuti qui. Avevamo gli stessi insegnanti, ci hanno parlato di te. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto insegnare l'italiano a qualcuno.

Prima di incontrarti, eri vicino a me sull'autobus affollatissimo, eravamo in piedi uno accanto all'altra, accostati, ti ho notato e ho pensato: "che strano, non ho voglia di spostarmi." Di norma avrei cercato di crearmi più spazio intorno, per quanto possibile, invece non mi dava fastidio la vicinanza e il contatto con questo sconosciuto con la valigetta in mano. Quando sei sceso dall'autobus, mi sono stupita di me stessa perché mi sono voltata per vedere in che direzione andavi e ti ho seguito con lo sguardo finché ho potuto. Mai fatto più con nessuno, ovviamente. Mi aveva meravigliato la mia reazione, era proprio insolita, con qualunque altro sconosciuto avrei cercato di spostarmi, invece non ne sentivo la necessità, stavo bene così. E poi voltarmi per vedere da che parte stavi andando non era proprio da me, la mia reazione inaspettata mi ha davvero sorpreso.

Quando ti ho conosciuto, i nostri primi incontri erano già avvenuti.

La prima domanda che mi hai fatto era se sapevo dove fosse la Nigeria. Per fortuna lo ricordavo! Indossavi un maglione verde fatto a mano, ero incuriosita da te. Era facile parlarti, era come se ci conoscessimo da sempre.

Quella domenica l'atmosfera era festosa, ma pervasa da una sottile inquietudine. Il tuo amico John, che stava frequentando un corso di regia e contemporaneamente manteneva moglie e figlioletta lavorando come operaio in fabbrica, sperava che la festa in casa sua andasse bene.

I due ospiti di rango, ufficiali di alto grado dell'esercito nigeriano, erano venuti per trattare l'acquisto di una partita d'armi per conto del loro governo. Grandi e grossi, dall'aspetto prepotente, erano ospiti del loro connazionale per un pomeriggio domenicale in compagnia.

Queen, tua sorella, era dirigente di una compagnia aerea nigeriana e frequentemente faceva viaggi di lavoro a Londra. Piccolina di statura, era una ragazza in carriera, abituata a comandare, estremamente sicura di sé e molto determinata. Prima di andare a Londra per il corso di aggiornamento, era passata in Italia per farti visita, e con sé aveva portato una sua impiegata, una ragazza che sembrava impaurita da tutto. Tanto risoluta appariva Queen, tanto spaventata e atterrita pareva la sua compagna.

Nei giorni successivi tu avresti accompagnato i due militari alla fabbrica d'armi per fare loro da guida e da traduttore. Era una calda domenica pomeriggio, ma pareva che un filo di apprensione serpeggiasse tra i presenti.

Con la musica che invitava a danzare, uno dei due militari mi si è avvicinato, serrandomi i polsi tra i suoi, per invitarmi a ballare. Io non amo ballare e dopo una veloce occhiata al tuo viso rimasto impassibile, ho risposto nel mio scarno inglese che non mi piace ballare e non ne sono neppure capace. Ho detto no, mentre intorno a me nessuno fiatava.

I polsi poi mi hanno fatto male per diversi giorni, tanto forte era stata la sua presa.

Queen e l'altra ragazza hanno ballato con i due militari, John con sua moglie e tu mi ha fatto ballare un lento. Parlavate tra voi in Yoruba, e pur non capendo nulla all'improvviso mi rendo conto che la tensione era aumentata. Il militare che ballava con l'impiegata di Queen ha chiesto a John dove fosse la camera da letto, e John gliel'ha indicata, mentre la ragazza appariva terrorizzata.

Ti ho chiesto cosa stesse succedendo, e tu, sorpreso che avessi capito, mi hai chiesto se potevo portare via le due ragazze, e accompagnarle a casa. Così abbiamo fatto, abbandonando velocemente la festa, mentre tu e John vi sareste preoccupati di portare i due militari in qualche posto adatto a far calmare i loro bollenti spiriti. Non oso pensare alle poverette cui sarebbe toccato l'ingrato compito...
 
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alessandra

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PROFUMO DI ZAGARA

Di Bibbidi Bobbidi Boom


"È impossibile pensare ai siciliani senza vedere per riflesso l'aria mediterranea che li avvolge, la sagoma dei fichi d'India e delle piante tropicali, senza sentire quasi il profumo delle zagare, che d'estate addormentano i sensi in un nirvana senza risvegli. Nel silenzio solatio delle campagne squallide, nella costa rocciosa e scabra, in questo suolo che per lunghe distanze ignora la presenza di persona viva, possiamo scorgere lo scenario più adatto, o piuttosto l'unico scenario plausibile, delle passioni incomposte dell'isolano e della tragedia insita nella sua esistenza". Per Gabriella fu impossibile, nel leggere quelle parole, non sentirsi trafitta, scoperta, nuda nell'intimo dei sentimenti. Di scatto sollevò il mento dalle pagine e posò il libro incriminato, a faccia in giù, sul tavolino che le stava davanti come a voler allontanare alla vista quelle parole brucianti, col rischio di travolgere il bicchiere di limonata fresca che Mario le aveva appena servito. Era sempre stata grata al marito per le sue attenzioni costanti, ma in quei giorni stava accadendo qualcosa di strano e per certi versi pauroso: lui si mostrava premuroso fin quasi a indurre il sospetto, mentre lei mal tollerava quelle sue premure, quasi che sapesse e cercasse di condizionarla, di farla sentire in colpa per i suoi pensieri. Si sentiva confusa, scombussolata dalle troppe emozioni. Dopo trent'anni, proprio la settimana prima, mentre festeggiava il suo pensionamento in un ristorante del centro di Messina con i suoi colleghi, aveva rivisto Enzo, l'uomo che trent'anni prima aveva lasciato ad aspettarla sull'altare. Erano belli insieme allora, lei dipendente comunale già da qualche tempo, lui fresco di specializzazione in chirurgia… eppure proprio i versi e le serenate di quel Mario, quel professore di lettere bello e dannato dagli occhi nero profondo le avevano rapito il cuore e fatto fare quel salto nel vuoto, all'avventura. Le era dispiaciuto per Enzo, per la stabilità sfiorata, per ciò che avrebbe potuto essere e non era stato, ma in fondo felice di potersi ribellare a se stessa e ad un futuro invitante, ma già scritto e prevedibile. Lui l'aveva presa male, comprensibilmente, si era disperato, le aveva scritto lunghe lettere cadute nel vuoto e nell'ultima, lasciata sul suo zerbino prima di partirsene per il continente, le aveva promesso che l'avrebbe aspettata e che non l'avrebbe mai dimenticata. Negli anni più volte l'aveva pensato, aveva immaginato di scrivergli, nei momenti più bui con Mario – quando i figli non arrivavano ed il tedio e i problemi parevano insuperabili – aveva sognato di raggiungerlo, di cercarlo, ma poi il richiamo della realtà, il senso di colpa, la pigrizia avevano prevalso. Ed ora, dopo una vita, era tornato. Non sapeva perché, non sapeva come fosse stata la sua vita, non sapeva cosa fosse diventato ma in quell'attimo in cui, la settimana prima, i loro sguardi si erano incontrati, zaffiro contro smeraldo, il riconoscimento reciproco era stato istantaneo e lei aveva saputo: qualcosa bruciava ancora nel cuore di entrambi. Era stato un attimo, l'attenzione di lui era stata richiamata da un cameriere troppo presente e lei aveva dovuto prestare attenzione ai colleghi e dissimulare la sorpresa allo sguardo attento di Mario che le era accanto, ma quell'attimo era stato sufficiente a destabilizzarla come un'adolescente qualunque. Era stata una settimana difficile, vuota e nebulosa, la prima senza lavoro dopo una vita di giorni tutti uguali, e per giunta con il chiodo fisso di Enzo, di dove fosse, di perché fosse lì. Era arrivata a vagare per interi pomeriggi nei pressi di quel ristorante nella speranza segreta di incontrarlo, ma non era servito a niente: un'apparizione fugace e poi il nulla. Ed ora, mentre cercava di affogare i pensieri tra le pagine, seduta in veranda nella calura di un pomeriggio di maggio, inebriata dalle zagare del suo giardino, in quella villa in periferia costruita a suon di sacrifici, affacciata sulla costa scabra richiamata dal libro, la sua mente non le dava scampo. Il suono del campanello le giunse attutito dall'altra parte della casa, e ben presto si stupì di sentire due paia di passi in avvicinamento. Non ebbe il tempo di allarmarsi che la porta si aprì e le si parò davanti una scena degna di un film di quart'ordine o di un romanzo di Jane Austen. Enzo, elegante, distinto e con un'emozione traboccante negli occhi verdissimi, era lì, in casa sua. Appena dietro c'era Mario, imperturbabile, quasi rilassato. In preda a confusione e panico crescente, Gabriella non capiva, ma le parole calme, inattese e sconvolgenti di Mario giunsero a chiarire: "Lella… so che tutto questo ti pare inverosimile, ma credimi, è tutto spiegabile. Siamo stati felici insieme, ma c'è un'altra donna nella mia vita, ne sono innamorato e voglio vivere gli anni che mi restano con lei. Non è un'infatuazione, stiamo insieme da anni ed abbiamo una figlia, una bellissima ragazza che quest'anno compie diciott'anni. Ti prego, non odiarmi e non chiedermi dettagli. Ti giuro che tutto avrei voluto tranne che ferirti, ma sai quanto abbia sempre desiderato essere padre".

Gabriella, attonita e completamente disorientata, non parlava. Divenne consapevole, poco a poco, del proprio respiro affannato, del corpo accaldato, del giardino, del mare poco lontano, dell'ombra gettata su cose e persone dalla villa alle sue spalle, dei due uomini di fronte a lei. Poi Mario continuò: "So che, anche se siamo stati felici insieme, il tuo pensiero è corso spesso alla vita che stavi costruendo prima che ci incontrassimo. Così ho scritto ad Enzo, non è stato difficile, anch'io ho pensato spesso alla sua sofferenza e, anche se non l'hai mai saputo, leggevo tutte le lettere che ti scriveva nei primi anni del nostro matrimonio, perciò so cosa ti ha promesso. Ho fatto un tentativo, mi sono aperto con lui – è davvero un'ottima persona – e… ed eccoci qui. Spero che mi perdonerai e che tutti noi potremo essere felici". Man mano che Mario parlava, un dolore profondo e crescente attanagliò il ventre di Gabriella. La recriminazione del marito alla sua mancata, ma tanto desiderata maternità la colpì in pieno petto, inattesa e devastante, perché proveniente dall'uomo con cui credeva di aver condiviso e superato il dolore per l'aridità del suo ventre. Ora trovavano un senso i "no" reiterati all'adozione. Ora avevano senso gli ammanchi sul conto condiviso, le assenze per gite scolastiche in periodi inconsueti, le cene con i colleghi tre o quattro volte a settimana anche nei weekend…

Il torto, l'ingiustizia, la vergogna, l'umiliazione la travolsero. La vista di Enzo, anziché darle forza, la irritò di più. Il dolore alla bocca dello stomaco divenne intollerabile, ma non appena ebbe preso la sua decisione sparì. Ancora incapace di parlare, la donna si alzò, sorprendentemente stabile sulle gambe nonostante l'emozione improvvisa. Una rabbia sorda che le era sbocciata dentro man mano che diveniva consapevole del significato profondo delle parole e dell'azione del marito le trasfigurò il viso. A passi cadenzati ma decisi, scansò il tavolino con il libro dimenticato e la limonata intatta, passò accanto ai due uomini muti e guardinghi – l'uno con cui aveva diviso una vita senza immaginarne abitudini e temperamento e l'altro segretamente rimpianto, ma forse mai davvero conosciuto - ed entrò in casa. L'improvvisa frescura le sgombrò la mente e fu un toccasana per la sua determinazione: aumentò l'andatura e si diresse in camera da letto. Dal grande armadio a sei ante tirò fuori pochi abiti e qualche paio di scarpe; passò poi in bagno, radunò in un beauty il necessario per l'igiene quotidiana e lo portò accanto ai vestiti adagiati sul letto che per trent'anni aveva condiviso con il marito. Si avvicinò al mobile all'ingresso, ignorò il cellulare che le ammiccava speranzoso, si chinò e da un cassetto prese la sacca da viaggio che aveva usato due weekend prima per una gita a Siracusa. Vi stipò dentro ciò che aveva preparato e, con fare spiccio e determinato, chiuse dentro tutto, comprese le immagini spensierate e luminose di quel fine settimana con Mario e gli amici, compresa la vita di menzogne che credeva un'esistenza tutto sommato felice. Prese la giacca, la borsa da passeggio, controllò velocemente di avere con sé i documenti e la carta di credito personale e, dopo un ultimo sguardo d'insieme a quella casa che aveva amato, uscì. Fece in tempo a cogliere lo sguardo incredulo del marito che, dalla porta della cucina, la guardava andar via. Era troppo scosso dalla sua reazione per fermarla. Forse si era aspettato strepiti, recriminazioni, lacrime, magari persino gratitudine per quella "bella sorpresa", ma non immaginava che se ne sarebbe andata così, senza proferire parola e soprattutto senza voltarsi indietro. Enzo invece non lo vide. Pensava che ne avrebbe percepito la presenza, invece nulla, niente, il che confermò la sua determinazione. Aveva agito d'istinto, ma sapeva che stava facendo la cosa giusta per sé. Non aveva idea di dove sarebbe andata, ma di certo lontano da chi credeva di poter ridisegnare a piacere la sua vita, da chi la pensava scambiabile come una figurina, pronta a piegarsi, bisognosa di protezione, incapace di stare da sola. I suoi passi risuonarono sicuri nella via silenziosa mentre si allontanava da quella che era stata la sua città. Sola, sì, e libera. Mentre saliva sul traghetto, fissava lo stretto con sguardo limpido. Tante volte aveva sognato di attraversarlo per ritrovare Enzo, ora invece se lo lasciava indietro insieme a tutta la sua vita. Le venne da ridere. Il destino era davvero un mazziere imprevedibile: per tutt'altro motivo, ma alla fine, sul continente, ci stava andando davvero.
 
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alessandra

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Rinascita, di Carlo Scribacchini​


Non era stata una buona idea. Rimasi accasciato sul sedile del treno per una buona mezz'ora, ascoltando distrattamente i discorsi delle altre persone. Solo tre ore prima avevo preso un biglietto per andare a trovare mio fratello, a qualche centinaio di chilometri di distanza. Non ci parlavamo da anni, da quando mamma e papà si erano separati. Lui era andato a vivere con papà e io, che ancora frequentavo le scuole medie, rimasi con mamma. Entrambi non facevano che colpevolizzarsi a vicenda, quelle poche volte in cui si parlavano, e io e mio fratello cominciammo a fare lo stesso. Io difendevo mamma, rimasta sola a lottare contro la sua depressione e costretta a provvedere a tutto il necessario per farmi avere un futuro. Giorgio, da parte sua, sosteneva che lei non si fosse mai davvero impegnata a superare la sua malattia, e che questo aveva costretto papà a separarsi da lei.

In realtà i nostri litigi durarono poco. Per anni avevamo avuto un buon rapporto, ci eravamo scambiati consigli, sostenuti a vicenda in momenti difficili, anche presi a botte qualche volta, ma eravamo sempre stati molto uniti. Ma dopo la separazione lui smise di cercarmi e io, che già parlavo poco, non riuscii a fare altro che provare a chiamarlo, quando mamma non c'era, nella speranza che rispondesse. Non lo fece mai. Venne da noi al posto di papà un paio di volte, nei primi mesi, per prendere qualcosa che lui aveva dimenticato, e invece di parlare finivamo sempre per litigare. Io allora lasciavo che lui scaricasse tutta la sua rabbia su di me, incapace di controbattere, sentendomi in colpa per lui e per ciò che stava affrontando. Solo dopo pensavo a cosa avrei potuto dire.

Sono fatto così. Chi mi conosce sa che, se vengo attaccato, non faccio altro che chiudermi in me stesso, lasciandomi annientare da chi ho davanti. Persino un bambino può mettermi in ginocchio. Lo so, è strano. A scuola è sempre stato un problema per me. Finché tutto è calmo riesco a comportarmi come una persona normale, anche se sono un po' taciturno e me ne sto sulle mie. Ma se per qualche motivo l'aria si fa tesa allora smetto di muovermi, di parlare, a volte persino di pensare. È come se qualcuno prendesse il controllo del mio corpo, qualcuno le cui paure diventano le mie, e io rimango lì a guardare.

Avevo mandato un messaggio a mio fratello. "Sto venendo a trovarti. Non m'importa se litigheremo, ho bisogno di vederti." Papà si era risposato, Giorgio ora viveva con la sua ragazza in una casa in affitto. Non avevo idea di come avrebbe reagito, ma sapevo che non sarei tornato indietro prima di riuscire a incontrarlo; e allora avrei accettato qualunque cosa fosse successa. Avevo bisogno di vederlo, non potevo farci niente. Da giorni non riuscivo più a chiudere occhio, d'un tratto la vita sembrava aver perso ogni senso per me. Non sapevo perché, ma sentivo che dovevo andare da lui, provare a parlargli, o non sarei più riuscito a vivere.

Il treno iniziò a rallentare, la prima fermata nel viaggio verso casa. Guardai fuori dal finestrino, un posto in cui non ero mai stato, con persone che non conoscevo e che probabilmente non avrei mai incontrato. Sentivo due giovani fidanzati davanti a me parlare dei loro sogni per il futuro. Io avevo avuto solo una storia che potessi definire seria, andavo ancora a scuola. Durò poco, soprattutto per colpa mia. Non ero, e non sono tuttora, il tipo di persona che una ragazza vuole frequentare; mi piace stare da solo, fare le cose a modo mio, parlare poco. Sono stato con varie ragazze d'altra parte, e sono sicuro che molte di loro mi avrebbero anche rivisto, se non fosse stato per il mio carattere. Tutto il contrario di mio fratello, lui ci ha sempre saputo fare, circondato dalle ragazze più belle pronte a farsi fare la corte da lui.



L'incontro con Giorgio era stato un vero fallimento. Arrivato davanti a casa sua suonai e mi rispose la sua ragazza.

"Giorgio è uscito, non so quando torna."

Pensai che potesse essere anche dentro, magari mi stava guardando da una finestra. O malediceva il giorno in cui avevo deciso di restare con mamma. In ogni caso ero certo che le avesse parlato della mia visita e che lei fosse pronta a rispondermi in modo da scoraggiarmi. Ma cos'altro avrei potuto fare? Se fossi arrivato lì senza avvisarlo ero certo che mi avrebbe trattato come un ladro colto in flagrante, magari peggio. Così invece avrebbe potuto sbollire un po' della rabbia che aveva nei miei confronti mentre aspettava il mio arrivo, e forse avrei avuto un'occasione di parlargli.

"Aspetterò che ritorni."

Un attimo di silenzio, poi la risposta. "Non penso sia una buona idea, non puoi restare là fuori."

Oh, sì che potevo. E prima o poi lui sarebbe entrato, o uscito, e io l'avrei incontrato. Così rimasi lì nei paraggi a lungo, sicuro che lei l'aveva già avvisato. Camminavo avanti e indietro per un po', poi mi sedevo sul bordo del marciapiede, poi riprendevo a camminare avanti e indietro. Dopo due ore e mezza sentii il portone aprirsi. Era lui. Indossava una camicia azzurra e dei pantaloni scuri, scarpe alla moda. Probabilmente doveva uscire, e io l'avevo costretto ad aspettare fino all'ultimo minuto nella speranza che potesse liberarsi di me. Ma aveva solo un modo per farlo.

"Che diavolo ci fai qui?" chiese, con l'aria di chi non si aspetta nemmeno una risposta.

"Avevo bisogno di vederti."

"Beh, io no." Fece per andarsene.

Lo presi per un braccio, e solo allora lui si fermò a guardarmi. Doveva aver notato che ero dimagrito, perché la sua espressione cambiò subito da rabbia a preoccupazione; ma durò poco.

"Ho fretta" disse, conciso.

Potevi scendere prima. Pensai di dirlo, ma era meglio andare al sodo. Già, ma cos'era che volevo dirgli? Non ci avevo pensato minimamente per tutto il viaggio, né durante l'attesa.

"Non so cosa mi stia succedendo" dissi. "Da un po' sento il bisogno di vederti, e non c'è modo che io resista. Non riesco a dormire, non ho voglia di mangiare. Dovevo vederti."

Lui rimase in silenzio. Mi diede un'altra rapida occhiata, poi guardò l'orologio. La sua auto doveva essere lì vicino, ma non avevo idea di quale fosse. Mi resi conto di quanto fossi ridicolo in quel momento. Vedendo che io non mi decidevo a parlare prese lui la parola.

"Cosa vuoi che ti dica? Forse è il senso di colpa."

Ironico, ma non credevo affatto che fosse questo. Mi ero sentito in colpa dal primo giorno in cui le nostre vite si erano separate, e non mi era mai passato. Forse mi aspettavo che anche lui avesse provato le stesse cose, ma era evidente che non era così.

"Non so cosa mi succede" ripetei. "So solo che qualcosa mi ha spinto a venire qui."

"Certo... e ora che mi hai visto stai meglio?"

"No, non credo."

"Allora hai solo perso tempo." Si girò e andò verso la sua auto. Lo seguii con lo sguardo mentre partiva e si allontanava, incapace di dire o fare qualcosa per fermarlo.
 
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alessandra

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Segue Rinascita, di Carlo Scribacchini

Durante il viaggio di ritorno mi sentii sempre più confuso. Il vuoto che sentivo dentro di me non accennava a passare; avevo rivisto mio fratello, ma ero stato incapace di dirgli come mi sentivo. E a differenza di me lui sembrava stare bene, era la prima volta da anni che lo vedevo, e a differenza di me lui era felice. Mi chiesi perché ero andato a turbarlo facendo tornare a galla il rancore che forse aveva sepolto a fatica.

Non passò molto che il treno si fermò a un'altra stazione. Era ancora la seconda, io mi sentivo sempre peggio. Guardavo le persone indaffarate fuori del treno. C'erano molti giovani, immersi nei loro smartphone; uno di loro, con le cuffie alle orecchie, non aveva più altro contatto col mondo esterno che gli occhi. Forse aspettava un altro treno.

Sentii qualcuno parlarmi. Mi voltai, era un vecchio dall'aria allegra. Rimase in attesa di una mia risposta, ma io non avevo idea di cosa mi avesse chiesto.

"È libero il posto?" ripeté, come se mi avesse letto nel pensiero.

Mi guardai attorno, c'erano una miriade di posti liberi. Perché doveva scegliere proprio il mio?

"Sì, ma..." Provai ad obiettare, ma lui si era già seduto, appoggiando sul sedile a fianco una piccola valigia più vecchia di lui. Desiderai avergli risposto di no, ma era troppo tardi. Chissà per quanto tempo avrei dovuto sopportarmelo.

"Il viaggio è lungo, e un po' di compagnia non guasta in questi casi."

Lo guardai bene, anche se mi vergognavo un po'. Aveva capelli e barba bianchi, lunghi e un po' incolti. Gliene mancavano un po' sulla testa. La faccia era rossiccia, ma non sembrava ubriaco. Però sorrideva, e notai che aveva ancora tutti i denti, anche se un po' ingialliti. Indossava una vecchia giacca a tinta unita, pantaloni scuri e trasandati.

Il treno ripartì quasi subito. Il vecchio continuava a sorridere, guardandosi intorno. Restammo in silenzio a lungo, ma io non riuscivo più a pensare ai fatti miei. C'era qualcosa di strano in lui, non nell'aspetto, ma nella sua stessa persona. Era come se lo conoscessi, anche se ero certo di non averlo mai incontrato. Un tipo così non lo dimentichi.

"Vieni da molto lontano, vero?"

Non sapevo se rispondergli o ignorarlo. Lo guardai, feci un cenno con la testa per dire che avevo capito.

"E quando si affronta un lungo viaggio è bene non restare soli."

Il vecchio continuava a fissarmi; pensai che forse non parlava con qualcuno da tempo. Che mi costava accontentarlo?

"Io non viaggio molto."

"Oh, ma io non parlo di treni."

"E di cosa allora?" feci io, incuriosito.

"Quei viaggi puoi benissimo farli da solo, se vuoi. Ma questo viaggio no, non è bene che tu lo faccia in solitudine."

Cominciai a temere che avesse qualche rotella fuori posto. Eppure una parte di me mi invitava ad ascoltare.

"Si potrebbe non arrivare mai a destinazione."

"Scusi, lei sta parlando di un viaggio simbolico, a quanto capisco."

"Oh, puoi darmi del tu, non mi offendo mica." Si grattò la punta del naso.

"Come fa a dire che sono partito per un viaggio?"

"Questo è evidente. Non a tutti, sia chiaro. Ma per me lo è."

"E che viaggio sarebbe?"

Non rispose. Bella trovata, mettersi a fare il profeta e poi ignorarmi prima di entrare nei particolari. Lo fissai per qualche istante, e lui fissava me, sempre con il suo sorriso, finché io mi voltai verso il finestrino, ignorandolo.

"Cos'è più importante" chiese dopo un po', "la destinazione o riuscire ad arrivarci?"

"Dipende" dissi io, pensandoci un po'.

"Già, dipende." Non capivo più se quelle domande fossero per me o per lui.

"Perché mi fa queste domande?"

Rise. Era una risata fragorosa; mi sentii a disagio, ma nessuno si voltò verso di noi. I due fidanzati davanti a noi discutevano ancora.

"Perché ride?" gli chiesi.

"Io sono solo un interprete. Questo è il mio scopo, e lo faccio meglio che posso."

Un interprete, ripetei nella mente. Era forse pazzo?

"E cosa fa esattamente, se posso chiederglielo?"

"Io leggo nelle persone. Non tutte, intendiamoci. Solo in quelle che ne hanno bisogno."

"E io ne avrei bisogno?"

Non rispose. Forse è uno di quelli che fingono di saper leggere la mente, o roba simile, pensai.

Mi faceva arrabbiare quel suo rimanere in silenzio.

"Non penso di aver bisogno di lei" dissi, schietto.

"Ascolta il rumore delle foglie che cadono, e tutto avrà un senso."

"Non capisco. E gradirei che smettesse di fare l'indovino con me."

Un'altra risata, più forte della prima. Stranamente nessuno si voltò verso di noi.

"Capirai quando sarà il momento di capire."

Stavo per obiettare, ma lui prese la sua piccola valigia, si alzò e proseguì oltre. Lo osservai mentre passava nell'altro vagone, chiedendomi cosa poteva aver voluto dire. Sentivo ancora che c'era qualcosa di strano in lui, qualcosa che mi attirava, anche se non era più lì con me.



Arrivai a casa poche ore dopo. Mi sentivo ancora come quand'ero partito, né più né meno. Ma continuavano a girarmi in testa le parole del vecchio, intervallate dalle sue risate.

"Forse capirò quando sarà il momento" dissi a me stesso, ripetendo le sue parole. Mi spogliai per fare una doccia, dimenticandomi completamente di lui. Mi misi a letto, stanco per il viaggio. Mentre prendevo sonno riprese a riecheggiarmi in testa una voce, la voce del vecchio. Sognai di essere di nuovo sul treno, soltanto io e lui. Sentivo il vecchio continuare a ridere, eppure ero io che ridevo. Mi svegliai che era ancora l'alba e per la prima volta mi sentivo libero, ma anche in qualche modo vuoto. Era una sensazione nuova, ma era qualcosa che non mi dispiaceva.
 
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alessandra

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Telefonata di mezzanotte

di Giulio

Ciao Melania, sono Giulio, ti ho per caso svegliata? Lo so che è mezzanotte e non è un’ora opportuna per telefonare ma non riuscivo a dormire pensando alla nostra ultima telefonata, ti ricordi quello che ci siamo detti? No anzi, non dire nulla, fammi parlare altrimenti non trovo più il coraggio di dirti quello che mi ha spinto a telefonarti.

L’ultima volta che ci siamo sentiti al telefono io ti ho detto che ti amavo, tu mi hai risposto che volevi rimanessimo amici e che ci saremmo potuti telefonare ogni tanto.

Ora, dopo aver aspettato per giorni una tua telefonata ho deciso di telefonarti io perché mi chiedevo come mai tu non mi avessi ancora telefonato dopo avermi detto che ci saremmo potuti telefonare; mi sono risposto che forse stavi aspettando che ti telefonassi io prima di telefonarmi tu.

Preciso che una telefonata comunque non è nulla di impegnativo per cui voglio tranquillizzarti dicendoti di non avere tu nessun timore nel telefonarmi, se temi con questo che io possa fraintendere una tua telefonata.

Tutte le volte che in passato io ti telefonavo tu mi dicevi che eri occupata e mi chiedevi se potevo telefonarti più tardi, io allora ti ritelefonavo e tu mi dicevi che non potevi stare molto tempo al telefono e che mi avresti telefonato, ma dopo non mi telefonavi più.

Una volta ti ho telefonato - dopo che ti avevo telefonato e che non mi avevi risposto - per sapere come mai non avessi risposto alla mia telefonata e tu mi hai detto che avevi visto la mia telefonata e che mi avevi poi ritelefonato ma io veramente non ho visto nessuna tua telefonata.

Ecco, dopo tutto questo, ti ho telefonato per dirti che se mi vuoi telefonare sei libera di telefonarmi ma che se non mi telefonerai più almeno avvisami un’ultima volta per telefono che non dovrò aspettare nessun’altra tua telefonata.

Scusami se prima di questa mia telefonata non ti ho telefonato per dirti che ti avrei telefonato, una volta mi hai detto che preferisci essere avvisata per telefono prima che io ti telefoni, ma la mia è stata una telefonata spinta dal desiderio improvviso di telefonarti.

Telefonami e se dovessi trovare il mio telefono occupato è perché sto provando a telefonarti per vedere se tu mi stai telefonando, ma tanto tu non mi telefoni mai quando io sto aspettando che tu mi telefoni.

Ora che ti ho telefonato spero che mi telefonerai.

Buonanotte.

 
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alessandra

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Radio Give-Me-Five di Jo Living

“Grazie a Elisa da Imperia che ci ha fatto ascoltare questo pezzo meraviglioso di Cyndi Lauper. Ma prima di passare al prossimo brano, scelto da Marco da Badalucco, gli aggiornamenti sul traffico – State ascoltando Radio Give-Me-Five, la musica che t…”

Abbassò il volume dell’autoradio e si grattò appena sopra il ginocchio, sollevando un po’ la gonna che prudeva nonostante i collant. Pessima scelta, troppo pesante per la giornata insolitamente calda, quasi estiva anche se era Marzo. D’altra parte non è che avesse molto tra cui scegliere. Aprì il finestrino che strideva leggermente, il rumore del traffico inondò l’angusto abitacolo. Richiuse subito, espirando con impazienza mentre premeva di fretta il piede sul freno per fermarsi al semaforo. Un po’ di musica, di quella buona, sarebbe stata di grande aiuto, ma su quella maledetta radio la durata delle chiacchiere superava di gran lunga quella delle canzoni. Non che la preoccupazione fosse eccessiva, non ancora. Non poteva permettersi neppure un minuto di ritardo; gliel’avevano ripetuto più volte, alla clinica, a voce troppo alta e scandendo le sillabe come se stessero parlando con una vecchia rimbambita, o con uno dei loro pazienti, qualcuno di quelli un po’ duri d’orecchi, o non del tutto lucidi: la partenza era alle 10:00 in punto, il pullman non avrebbe atteso i ritardatari.

Il traffico per il momento era scorrevole; se solo avesse potuto canticchiare qualche motivetto sarebbe stato ancora meglio, avrebbe sicuramente allentato la tensione. Ma non c’era verso di trovare un canale che trasmettesse musica per più di cinque minuti, solo lunghe sequele di chiacchiere, radiogiornali, pubblicità. Come se non bastasse, la radio iniziò a frusciare e singhiozzare proprio mentre scattava il verde. Provò a cambiare stazione ma non riuscì a trovarne una che si sentisse distintamente prima che una cacofonia di clacson saturasse l’aria circostante.

Ripartì maledicendosi per non aver preso un’auto nuova, almeno avrebbe avuto l’aria condizionata, e magari anche un lettore CD, ma preferiva non dare nell’occhio, non si sa mai. Appena poté, ricominciò ad armeggiare con la radio: CLIC pubblicità; CLIC chiacchiere; CLIC pubblicità; CLIC “Radio Give-me-five – informazioni sul traf…” CLIC; “…grati rubano il lavoro, gli italiani rubano il parcheggio, in ufficio il mi…” (Per carità); CLIC “…d my hand, everything will be ok… I heard from the…” (Top Gun non mi piaceva neanche il primo… questa canzone è una noia mortale… ci vorrebbe una italiana, una bella canzone italiana degli anni ’70); CLIC “rapina in banca, la polizia ha messo posti di blocco in tutta la città, un poliziotto è rimasto fer…” (Buono a sapersi); CLIC “And you look for a place to hide? Did someone break yo… frrrscccc frrrsscc… in ruins… One, twenty one gu…. Frrrrsccc frsssscc” (Ventuno che? gulls? Gabbiani? Ahah); CLIC “Quaaando il sole torneràaaaa, eeee nel sooole io…” (Oh! Finalmente!).

Intonò la canzone a squarciagola, ma la radio ricominciò a gracchiare e frusciare. CLIC “Radio Give-me-five, pubblicità” (Ancora!). Cambiò varie stazioni; pareva che questa Radio Give-me-five fosse l’unica che si sentisse, ma non aveva nessuna voglia di sorbirsi altra pubblicità. Spense con un gesto stizzito, soffiando nervosamente dal naso. In più, la fila di auto davanti si era fermata. Probabilmente erano incappati in uno di quei posti di blocco. Si guardò intorno per decidere il da farsi. Più avanti un paio di auto stavano svoltando sulla destra, in quella che ricordava essere via dell’Oleandro. Aveva percorso quella zona palmo a palmo varie volte. Visualizzò mentalmente una strada alternativa mentre si apprestava a svoltare. Purtroppo il sollievo durò meno della ricezione di quell’inutile autoradio. Metà della carreggiata era sbarrata da transenne con il cartello “Lavori in corso”. Operai su camion e gru erano affaccendati nella potatura dei filari di pini che costeggiavano la strada. Purtroppo non aveva scelta, doveva proseguire da quella parte. Un colpo sordo riverberò quando sbatté la mano sul volante, l’auto che sbandava leggermente (Perché mai si chiama via dell’Oleandro se è piena di pini!). I minuti passavano. Riaccese e spense la radio più volte ma la ricezione continuava ad essere disturbata. Su Radio Give-me-five parlavano di un sondaggio: “Belle bugie o brutte verità?” (Puah, ma chissenefrega, vivi e lascia vivere, il bisogno fa l’uomo ladro, eccetera). Spense. Dovette procedere lentamente per diverse centinaia di metri, tra rumori di seghe a motore, schiocchi e fruscii di rami spezzati, grida di operai. Guardò con insistenza l’orologio sul cruscotto, quasi come se, così facendo, avesse potuto fermare il tempo.

Superato quel tratto, poté finalmente proseguire a velocità più sostenuta, la strada era sgombra. Dopo un paio di svolte si ritrovò sul percorso prestabilito con solo cinque minuti di ritardo. Doveva solo fare quella breve sosta, poi tutto sarebbe andato bene, ormai era quasi fuori città. Un po’ più avanti sulla destra scorse la fila di bidoni che cercava; su uno di essi era appollaiato un gabbiano. Non poté fare a meno di seguirlo con lo sguardo mentre accostava l’auto al marciapiede.

Un gabbiano in città non si era mai visto. Anzi, a dirla tutta, mai aveva visto un gabbiano così da vicino. Mentre scendeva dall’auto continuò a tenerlo d’occhio. Si mosse lentamente per non farlo scappare. Aprì il bagagliaio, conteneva una valigia e alcuni sacchi della spazzatura; ne prese un paio e si diresse verso il bidone della raccolta dei vestiti usati, proprio dov’era il volatile. Da quell’angolazione poteva osservarne tutto il profilo, dalla punta della coda a quella del becco, con quel suo occhio tondo e giallo, vagamente inquietante e ipnotico, che sembrava poter scrutare in fondo alla sua anima. Si stupì che non fosse volato via subito al suo avvicinarsi; se ne stava lì, immobile. Si fermò poco distante ad osservarlo, poi improvvisamente quello fece qualche passettino di lato e volò via. Dopo aver gettato i due bustoni, alzò la testa: il gabbiano volteggiava in lontananza nel cielo sgombro di nuvole. Lo guardò ancora rimpicciolire fino a diventare un piccolo punto nero, finché non sparì.

L’incontro era stato piuttosto inquietante. Non riusciva a smettere di pensare alla canzone che aveva sentito alla radio, a quel “gulls” apparso dal nulla nella sua mente, per poi avere quello strano incontro ravvicinato. Non sapeva se considerarlo una fortunata coincidenza o un presagio di sventura.

Quando rientrò nell’auto si accorse con sgomento che era trascorso quasi un quarto d’ora. Ma com’era possibile? Non poteva essere passato così tanto tempo, non sembravano altro che un paio di minuti! Ripartì in fretta, pigiando sull’acceleratore. Riaccese la radio. Cambiò varie stazioni, ma ancora solo una si sentiva distintamente, sempre la stessa. In quel momento stava trasmettendo musica classica. Era L’Eroica di Beethoven, nel punto in cui violini e violoncelli volano in un crescendo; sembrava quasi fatto apposta per spronare l’auto ad andare più veloce.

Il telefono prese a squillare e dovette spegnere. Ma che diamine, proprio ora che aveva trovato una musica che gli piacesse. Lesse il nome sul display e si schiarì la gola, poi rispose attivando il vivavoce. Prima che potesse dire alcunché, si udirono delle grida e parecchio trambusto. “Non le voglio le maledette noci, se le può pure mettere su per il…” la voce proveniva da una certa distanza ma si percepiva forte e chiara. Poi venne sovrastata da una più vicina:

“Signora, sono l’inf… - Carla, tienilo fermo… un sedativo… sì sì, aspetta… - scusi, sono l’infermiera della casa di riposo. Volevo sapere se può essere qui un po’ prima della partenza, non siamo riusciti a far mangiare suo fratello stamattina.”

“Non saprei, c’è molto traffico, avete provato con delle noci? Le adora, gli ricordano quando eravamo piccoli” Urla e trambusto continuavano in sottofondo.

“Sì, abbiamo provato, dice che le odia, non ha sentito? Era lui che gridava. E dice anche di non avere sorelle”

“Eppure la settimana scorsa sembrava ricordarsi di me. Come le avevo detto, ho vissuto tanti anni all’estero”.

“Cerchi di fare il prima possibile, la partenza è prevista per le dieci. Non possiamo tardare, se non arriva in tempo non potremo aspettarla signora”

“Non manca molto, dovrei essere lì tra una ventina di minuti”

“Bene, a tra poco, allora”

“Certo”, borbottò a denti stretti riagganciando. Ci mancava solo il gabbiano. Alberi, uccelli, cos’altro? Era una dannata città quella, mica una giungla!



 

alessandra

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Segue Radio Give-me-Five di Jo Living

Riaccese la radio. L’Eroica era ancora lì: i violini procedevano piano, adagio, ma ben presto ripresero a crescere e crescere, e il suo cuore a martellare e il piede a premere sull’acceleratore. Marciapiedi, negozi, case, poi campi e alberi, sfrecciavano via veloci intorno all’auto che proseguiva spedita. Alzò il volume al massimo, testa e spalle leggermente protese in avanti; la strada era libera, non mancava molto. Ormai si sentiva un tutt’uno con l’orchestra, anche il tempo pareva scorrere a ritmo di musica. Una musica che sembrava non finire mai.

Fu per questo che non si accorse dell’auto di pattuglia seminascosta tra la vegetazione a bordo strada. Non se ne accorse neppure quando sventolarono la paletta rossa, talmente era la concentrazione verso la mèta. Poi la sirena sovrastò la musica, i poliziotti superarono l’auto stringendola verso bordo strada e costringendola a fermarsi. Mentre uno di loro faceva scendere il guidatore, l’altro si accorse di qualcosa sul sedile posteriore e fece il giro per aprire il bagagliaio. Lo sentirono frugare, i toni bassi dei corni dell’Eroica di sottofondo. Poi tornò indietro, tirò fuori la pistola e la puntò verso il guidatore: “Lei è in arresto, ha il diritto di rimanere in silenzio…”. E quella che, in effetti, appariva come un’anziana signora, alzò le mani e fece per voltarsi. Come in trance e con le orecchie che ronzavano, sollevò appena la testa proprio mentre un pullman stava passando in direzione opposta. Una serie di volti grigi e grinzosi incollati ai finestrini osservavano la scena incuriositi. Chiuse gli occhi. Il suo pullman. Tutta colpa di quel dannato gabbiano.

“Radio Give-Me-Five Flash News - Questo pomeriggio la polizia ha arrestato il rapinatore che si era travestito da anziana signora. Tutta la refurtiva è stata recuperata; era nascosta nel bagagliaio dentro una valigia. L’uomo, che per diverse settimane si era recato in visita alla Clinica Campi Azzurri, spacciandosi per la sorella di uno degli ospiti della struttura, intendeva unirsi al gruppo di anziani in partenza per una gita a Lourdes. Recuperati da un cassonetto gli indumenti usati durante la rapina. – Radio Give-Me-Five, la musica che ti cattura”.
 

alessandra

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Checco ed io


di Lunapop


Era un’estate di tanti anni fa, di quelle che vedi nei film in bianco e nero, con gli uomini seduti al tavolo di un bar in canottiera a mostrare le braccia flaccide, le donne coi grembiuli traboccanti di anni di pastasciutte al sugo, ragazzini vocianti, bambine frignanti, FIAT 600, tutti che fumavano anche al chiuso e un ventilatore che girava lento senza spostare né il caldo né le mosche dalle brioches.

Se uno aveva 50 lire si comprava qualcosa e scappava via; se no scappava via senza essersi comprato nulla e non si sa come, pedalare per ore sotto il sole di Giarre senza fermarsi, senza bere, senza un berrettino, solo per il piacere di andare via e fare tante sciocchezze lontani dagli sguardi degli adulti sempre pronti a riprenderci.

Poi ci si stufava di fare giochi e dispetti, e ci si buttava in mare dagli scogli e si nuotava leggiadri.

Avevamo le facce di un film di Salvatores: chi il caschetto, chi i riccioli mori, chi rasato, chi non si capiva perché fosse biondo, uno il più forte di tutti, un altro il più piccolo della comitiva…e Checco: magro, dinoccolato, con una testa assurda di ricci e un naso che sembrava un becco.



Checco veniva con noi, ma a volte si appartava e io per curiosità, con lui.

Si parlava. Si parlava di un sacco di cose. Cose a caso.

- Chissà come sarà la Turchia? – domandava lui fissando l’infinito.
- La Turchia? –
- Sì, la Turchia…
- Sarà piena di turchi – supponevo io.
- E Leningrado? –
- Dov’è? –
- In Russia. Un tempo si chiamava San Pietroburgo. –
- Sarà piena di russi – mi sembrava logico concludere.

- A Leningrado c’è un fiume, la Neva, Nevskij in Russo, che dicono essere bellissimo –
- Sarà… -
Poi, a volte invece, attaccava con la Bulgaria.

- So solo che è piena di zingari – dicevo io – zingari, spie e ci fanno lo yogurt: un posto di merda. –
- Ci sarà pieno di danzatori. –
- Ma… - espiravo dubbioso – anche fosse? – mi domandavo.
Io lo ascoltavo, un po’ per curiosità, un po’ perché se ne stava all’ombra e di tutto quel sole non ne potevo più, un po’ perché tra amici ci si prendeva in giro.

Poi mi faceva leggere le sue poesie che non capivo bene, perché mica c’era un soggetto e un predicato chiaro e semplice come a leggere Collodi, ma suonavano bene, strane, un po’ come il rock and roll, ma diverse; strane ma diverse dalle altre stranezze.


Poi una volta mi fece leggere la sua prima canzone.

Io iniziai a leggere e diceva qualcosa del tipo ti proteggerò da tutte le tue malattie immaginarie.

- Che inizio è? –
- Perché? Cosa c’è che non va? –
- Non so: mi sembra strano. –
Poi andava avanti che l’avrebbe protetta dalle sue turbe, gli inganni dell’epoca…

- Ma che vuol dire? –
- Vai avanti: poi si capisce. –
Ti proteggerò dai pasticci che per la tua natura combinerai, i tuoi dolori, le tue paturnie che ti fan sballare, le tue manie…

- Ma che c’ha? Ti sei innamorato di una pazza? –
- No, è che sono così. –
- Chi? –
- Le donne. –
Io alzai lo sguardo dal foglio e lo fissai.

- Per riuscire a far ballare una, devo fare tante di quelle storie e salamelecchi che levati. E tu le diresti una cosa così? Se solo ci provo io, prendo uno schiaffo. –
- E’ che non glielo devi dire. –
- Appunto.
- E’ che glielo devi cantare. –
- Che sono più lunatiche delle gatte? –
- Sì, ma non davanti a tutti, perché è una cosa intima. –
- Non capisco… -
Poi feci silenzio e tornai a leggere.

Oltrepasserò l’atmosfera terrestre, viaggerò alla velocità della luce per non farti invecchiare e ti guarirò…

- E dagli con le malattie! Ma adesso la fai anche sentire vecchia? Questa non te la perdonano. E poi, cosa c’entra che voli come Nembo Kid? –

Vagavo per le risaie vercellesi; come c’ero arrivato, chissà!

- Ma dai: questo proprio non si può leggere –
- Volevo dare l’idea dello sconfinato niente –
- Ok, ma mettici un luogo un po’ più esotico; che ne so, prova con le piantagioni di tabacco della Carolina del Sud, i campi di cotone dell’Alabama, il deserto del Nevada… -
- … i campi del Tennessee? –
- Bravo! Quello del Jack Daniels! –

Porgimi fiori bianchi…i miei sogni come i falchi attraversano il mare…

OK, questo può andare bene… -


porterò silenzio e pazienza…

- Di nuovo? Ma sei già saltato al 20 anniversario di matrimonio che o uno dei due tace e pazienta o salta tutto per aria? –

andremo insieme per mano verso l’essenza… la bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi…

- Questa è bella, te lo riconosco. –

spazio e luce se no invecchi …

- E dagli! È una fissa la tua. Più che una canzone, sembra che vuoi venderle un anti-rughe. –

e avrò cura di te, avrò cura di te…

- Non capisco: l’hai dedicata a una ragazza o a tua nonna? –

Lui rise.

- Non c’è da ridere. Ripeto: se vado da una e le consegno questa canzone, alla seconda strofa accartoccia tutto e me la tira. Stai dando delle matte alle donne! –
- Non è quello. –
- Ah no? –
- È che loro sono consce delle loro debolezze e sotto sotto hanno dei timori. –
- Sarà, non dico di no, ma già è difficile parlare con loro del più o del meno, figurati parlare dei loro timori, paura d’invecchiare, paturnie varie… perché insomma, a una che davvero è così non le lasci nemmeno guidare l’ascensore! –
- Devi fare come un funambolo: tenere l’equilibrio tra quello che sono e quello che si sentono. –
- Ma non facciamo già abbastanza i funamboli quando le invitiamo a ballare davanti al padre, alla madre, ai fratelli, agli zii, alle zie, ai nonni…? –
- Ma vogliono che lo fai anche con loro il funambolo, non solo col parentado. –
- Ma se non riesci nemmeno a parlarci! –
- Perché ci devi cantare. –
- Eeeehhh, ma come la fai difficile! Sfido io che non cucchi mai! Non che io sia un casanova, ma la pazienza ha un limite anche con loro. –
- Appunto, è quello che vogliono capire. –
- Cosa? –
- Quanta pazienza avresti con loro: la pazienza è un’unità di misura dell’amore a lungo termine. –
Restammo in silenzio ma poi aggiunse:

Vedi: se tu dici una cosa, la gente la sente, gli arriva nel cervello, ci ragiona sopra e magari scopre che proprio perché vera si offende; se invece la canti, la gente la sente, gli arriva nel cuore e… non si fa tante domande: gli piace e basta.

La cosa mi sembrava oltre modo complicata, perciò dopo un po’, per rompere il silenzio aggiunsi

- Boh! Se lo dici tu. Ma se riesci a cuccare con quella canzone, me lo dici che ne ho già una in tasca io –
- Sarebbe? –
- Senti: io ti aiuterò… a posteggiare in retromarcia; io ti aiuterò… a leggere la cartina stradale; io ti sosterrò…il trapano elettrico…–
E mi misi a ridere.

- Scemo! – gridò ridendo pure lui, e ci tuffammo in mare!



Passarono gli anni e ci perdemmo di vista.

So che nessuno lo chiamava più Checco, ma solo Franco; che ritoccò la sua canzone un po’ qui e un po’ là, ma il senso restò sempre lo stesso: ed ebbe un grande successo! Ma solo nella musica, non con le donne, almeno che io sappia.

Anche io ebbi successo con la mia canzone: non vendetti nemmeno un disco ma alla fine cuccai e ci sposammo: da allora in centro città che bisogna posteggiare guido solo io, certi lavoretti in casa solo io, alle riunioni condominiali solo io…

Comunque, alla fine, entrambi fummo soddisfatti della nostra vita.
 

alessandra

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MACIGNI di MASEMINO

Masemino era uno sferocita, un globulo rosso più piccolo degli altri ma decisamente più cicciottello. Non era colpa sua, la natura – o meglio, la malattia dell’umano in cui era nato – lo aveva fatto gonfiare a causa di un difetto fisiologico alla sua membrana. Masemino soffriva molto per questa condizione. Avrebbe voluto essere un bel dischetto sottile e biconcavo come la maggior parte dei suoi simili, ma la vita aveva deciso diversamente.

Quando trasportava l’ossigeno assieme agli altri gli veniva spesso il fiatone e arrivava sempre ultimo. Una volta a causa della sua rotondità non riuscì a infilarsi in un capillare sottile e i suoi compagni, passati dall’altra parte senza problemi, lo lasciarono indietro intonando “Bidòn bidòn bidibidòn bidibidòn”, prendendolo in giro per le sue forme abbondanti. Masemino ci rimase malissimo ma cercò di non darlo a vedere, si girò e tornò mogio mogio al suo lavoro di globulo rosso.

Con l’andare dei giorni le prese in giro aumentarono e anche se lui cercava in tutti i modi di non incrociare i suoi compagni cattivi, a volte capitava di trovarsi nello stesso vaso sanguigno e allora partivano i “cicciabomba!”, “grassone!” oppure “palla di lardo!” che tanto male facevano a Masemino. Non riusciva a capire perché umiliarlo in quel modo li facesse ridere a crepapelle. Lui non ci avrebbe trovato niente da ridere nel far soffrire un suo simile. Si vergognava del suo aspetto, così deforme rispetto ai normociti, ma che loro rimarcassero la sua diversità lo faceva vergognare ancora di più.

Un giorno, mentre portava l’ossigeno fuori dai polmoni incrociò il gruppo di bulletti che veniva dalla direzione opposta. Masemino cercò di tirare indietro la pancia il più possibile per sembrare dimagrito, ma il capobranco, un globulo rosso dalla forma perfetta, gli urlò: «Oltre alla pancia e al culone adesso hai pure le tette? Ahhahaha!». Masemino corse via più veloce che poté, si rifugiò in una vena secondaria che non conosceva praticamente nessuno e scoppiò a piangere. La cosa che gli faceva più male non erano le risa sguaiate, ma quella sensazione di essere brutto, sbagliato, che gli avevano inculcato e che non riusciva più a scrollarsi di dosso. Era come una macchia ignominiosa con cui lo avevano sporcato, per sempre. Masemino si chiese se i bulli prendessero in giro anche gli echinociti per le loro protuberanze a forma di spina o i dacriociti per il loro fisico “a pera”. Perché ridono di come siamo fatti?, si domandava senza riuscire a darsi una risposta. Che cosa c’è di divertente nel farmi stare male?

I giorni seguenti Masemino chiese consiglio in giro su come dimagrire, voleva assolutamente diventare normale e sottile come gli altri, così i bulli non avrebbero più potuto prendersi gioco di lui. Finalmente una mattina, un vecchio globulo rosso di quasi centodieci giorni, rinomato per la sua vasta cultura e profonda saggezza, gli parlò dell’osmosi: Masemino avrebbe dovuto immergersi in dell’acqua salata, così i sali sarebbero entrati dentro di lui e l’acqua, per ristabilire l’equilibrio osmotico, sarebbe uscita. «Però devi fare molta attenzione – si raccomandò il vecchio – la disidratazione eccessiva può esserti fatale.»

Eccitatissimo per aver trovato la soluzione ai suoi problemi, Masemino lo ringraziò in tutta fretta e si mise subito alla spasmodica ricerca di acqua salata. Non vedeva l’ora di vedere il liquido fuoriuscire dalla sua membrana, il pancione e il sedere si sarebbero appiattiti e lui sarebbe diventato un globulo snello e perfetto! Finalmente i bulli non avrebbero avuto più motivo di prenderlo in giro.

Un giorno trovò dell’acqua di mare mentre tornava al polmone destro – all’umano era andata di traverso mentre nuotava – ci si immerse tutto contento e… purtroppo lo scambio osmotico dei sali in entrata e della sua acqua in uscita non fu abbastanza equilibrato e lui cominciò a raggrinzirsi fino a perdere ogni capacità vitale. Fluttuò inerte nel sangue fino alla milza, dove venne fagocitato e infine distrutto.

Quando i bulletti chiesero in giro che fine avesse fatto quel “ciccione di uno sferocita” che incontravano quasi ogni giorno nell’ultima settimana, non si mostrarono dispiaciuti all’udire che era morto né tantomeno pentiti per averlo tormentato e indotto a quel gesto estremo, ma commentarono con un laconico “Oltre che ciccione era pure idiota!”. Si fecero una grassa risata e ripresero a correre più veloci e scattanti di prima, quasi fossero più leggeri senza il peso dei macigni usciti dalle loro bocche.
 

alessandra

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L’AMORE È UN COSI’ di MoltoBigCalamaro


"Ieri sera non ci sei stata a ballare al Merry?"

"Sì che ci sono stata, ma poco, ho...ho fatto la buona"

"Dai, TU la buona? Stavi male?

"No, è che…niente, oggi c'era compito in classe e allora..."

"Ah, ecco. Volevo dire!" L. da dietro la porta del bagno dove si è rifugiata per sfuggire all'interrogazione di chimica, ascolta le S.A. che fumano e si confidano. "Fare la buona" vuol dire niente sesso, rinuncia rarissima per le SA, cioè le Stronze per Antonomasia, dette anche Sex Addiction, cioè Sara e Antonella, autodefinitesi le Uniche Vere Donne di tutto il plesso scolastico.

L. resta zitta dietro la porta. Le SA finiscono di fumare e ne vanno. Tanto non l'avrebbero vista comunque.

<<Dovrei tornare in classe. Nitrato avrà finito di interrogare ora sarà immersa in un'altra redox alla lavagna, stechiometria polvere di gesso starnuti ed elettroni che volano da una parte all'altra…bilanciamento ma che vuoi bilanciare che qui è una vita tutta sbilanciata vedi quelle due che hanno tutti i maschi che vogliono mentre io continuo a star dietro a quel disastrato di Rinaldo lui continua a dire che si suicida stasera io lo convinco che la vita è bella lui si lascia salvare e domani punto a capo sarà disperato io lo salverò ma a chiedermi di uscire non ci pensa nemmeno. Perdo tempo perdo tempo ho già sedici anni e sono ancora vergine sono bloccata devo fare qualcosa. Adesso. >>





In classe L. fa appena in tempo a sedersi che le arriva un whatsapp da Gessica: "Stasera scegliamo le foto per Tinder. Niente ripensamenti. Ti spiego tutto io."

La sera Gessica elenca i trucchi per un profilo di successo. Scollata ma non troppo, sorridente ma senza esagerare, circondata da amici amiche cani gatti carina allegra misteriosa. Misteriosa, come cavolo si fa l'espressione misteriosa, dai non preoccuparti abbassa le palpebre lascia le labbra semichiuse deve sembrare che stai afferrando un'idea, ma quale idea poi ti dico io cosa sembra, no scema non fare la faccia pensierosa che li spaventi…)

OK. Fatto. No aspetta se mi confondo, se faccio swipe a sinistra a uno che mi piace perdo l'occasione della mia vita? e poi cosa succede se tutti e due facciamo swipe a destra, ah sì MATCH! Dopo il match, la conversazione. Meglio se inizia lui. Si usa così.

Dai, è andata. Oh, è andata davvero. È andata! Si chiama Marcello ed è bellissimo.

<< Meno male che mi sono ricordata, al primo incontro bacetti sulle guance come cuginetti, il tutto deve sembrare affettuoso e spontaneo, e fin qui ce l'ho fatta. Però lo stronzetto si è photoshoppato le foto del profilo, quando gli ho dato i bacetti mi sono accorta che ha l'acne, e si è anche messo una crema leggermente colorata. Uhm. Allora non è così sicuro di sé, così macho e disinvolto. Un punto per me. Chissà se ha portato i cosi. Ci abbiamo quasi litigato, con Gessica. Io li volevo comprare alle macchinette della farmacia, Gessica ha detto che solo le puttane se li portano appresso, con le ragazze ci devono pensare i maschietti.>>

L. e Marcello sono riusciti a sgattaiolare tra i bungalow del Sun City, in questa stagione i bagnanti non ci sono ancora. C'è un angolo che sembra una nicchia al riparo di una siepe.







Si acquattano, si baciano con determinazione. Come nei film si liberano in fretta dei vestiti e si aggrovigliano. L. pensa alla sua rivincita, a Sara e Antonella che non saranno più le sole Donne Vere, pensa a Gessica che le ha insegnato il know how della vita però nemmeno lei lo ha provato davvero.

Ora il ritmo degli abbracci rallenta, Marcello si ferma, si scosta lievemente.

"Che c'è"

Lui è imbarazzato. "Non voglio mica diventare papà". Poi prende le sigarette.

<<Quando vedo Gessica l'ammazzo, quanto è vero Iddio giuro che l'ammazzo>>

Marcello ha acceso la sigaretta. Vuoi fumare? Sì. Vieni qui, prendi il fumo dalla mia bocca. Come? Così. Senti…? Prima…Sì? cosa ti piaceva? Mi piaceva... così. Prende la sua mano, se l'accosta alla pelle. È la pelle ora ad insegnare i gesti, non ci sono più le scene dei film.

E adesso? Così. Sì, no, non così, come prima, quello che hai fatto prima, così. Senza fretta. Non è ancora tenerezza ma un poco le somiglia.

<< vaffanculo Gessica, Sara, Antonella, Rinaldo, non sapete proprio niente voi..>>

Si è fatto tardi, accendono l'ultima sigaretta. Nel tirare fuori il pacchetto, Marcello fa cadere dalla tasca un oggettino rettangolare.

L. lo guarda stralunata. "Ma allora, scusa… perché…?"

Marcello sorride timido e risponde: "Così'.





















 

alessandra

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Una famiglia colorata di Rainbow



Io ho due mamme. Per me è ok, ma stamani in giardino, a scuola, stavamo giocando con Matilde e Delia a genitori e figli ed è arrivato Mirko della IV E che voleva giocare con noi. Gli abbiamo spiegato a cosa stavamo giocando e lui ha detto: “allora io faccio il papà”. Ma non volevamo un papà, perché io e Matilde eravamo le mamme e Delia la figlia. Ha detto: “non è possibile, ci vuole sempre un papà”. Gliel’ho spiegato che non è vero, perché io ho mamma Silvia e mamma Anna e nessun papà. Non sembrava convinto, ha alzato le spalle e poi è andato a giocare a pallone con Duccio e Matteo. A quel punto Delia si era stufata e ha detto che voleva fare il cavallo, così abbiamo giocato alle mamme che hanno un cavallo.

Ci ho pensato dopo: mamma Silvia e mamma Anna un cane non me lo vogliono comprare. Ma magari potremmo prendere un cavallo. Secondo me in giardino ci sta. Io me ne prenderei cura…chissà se le convinco.



Stamani in giardino ho dato la bella notizia a Matilde e Delia: presto mi arriverà un fratellino!!!

Volevo chiedergli se sanno se lo porta il tizio di Amazon, e se c’è una scatola speciale per i bambini. Però è arrivato Mirko della IV E e voleva sapere cosa stavamo dicendo. Gli abbiamo detto che era un segreto. Allora ci ha detto che sapeva un segreto anche lui e che se gli dicevamo il nostro, ci diceva il suo.

Ci abbiamo pensato un po’. Io e Matilde eravamo troppo curiose, Delia si era stufata ed era andata a giocare a salta la corda. Così abbiamo detto: ok, ma dicci prima il tuo.

Che poi, non era nemmeno un granché come segreto, e secondo me non è nemmeno vero. Dice che lui sa che Maria della III C un giorno si è fatta la cacca addosso, gliel’ha detto Roberto che sentivano un gran puzzo in classe, e che la maestra Luigia si è avvicinata a Maria e l’ha accompagnata fuori e mentre usciva si vedeva benissimo che aveva un pallotto nelle mutande.

Va beh, a quel punto ho dovuto dirgli il mio segreto: mi arriverà un fratellino!!!

Allora lui ha detto: vedi che c’è un papà?

E dagli con questo papà!!!

Ci ha detto che per forza ci vuole un papà perché lui sa che per fare i bambini, un papà dà un seme alla mamma: glielo mette nella passerina, da lì arriva nella pancia e poi inizia a germogliare e diventa un bambino.

Matilde non ne sapeva niente, però ha detto che anche lei sa che i bambini arrivano nella pancia delle mamme e poi escono da lì perché una volta è andata da sua zia Clara e lei aveva un pancione enorme e sua mamma le ha detto: “lì c’è il tuo cuginetto”. Poi dopo qualche giorno è tornata dalla zia che aveva meno pancia (comunque sempre un bel po’) e lì fuori c’era suo cugino Sandro che dormiva con gli occhi strizzi strizzi.

Non lo so, questa storia non mi convince. Io pensavo che il fratellino me lo portasse il tizio di Amazon e che mamma Silvia e mamma Anna l’avessero scelto sul pc.



Ieri sono andata al supermercato con mamma Anna e ho guardato attentamente nello scaffale dove ci sono tutte le bustine dei semi, quello dove mamma Anna compra sempre i semi dei pomodori, che mamma Silvia dice: “ma che li compri a fare, tanto non nasce mai niente” ed ha anche ragione.

Insomma, ho guardato tutte le bustine e anche quelle specie di cipolle che mamma Anna mi ha detto si chiamano bulbi, ma non c’era nessuna busta di semi di bambini.

Secondo me Mirko dice un sacco di balle.



Stamani mentre dicevo a Delia e Matilde che al supermercato non ci sono le bustine di semi di bambini, è arrivato il solito Mirko IV E, tutto felice, e ha detto che adesso lui lo sa come stanno le cose perché suo fratello Mario gli ha spiegato tutto. Ha detto che mia mamma Silvia e mia mamma Anna sono “cesbiche” o una cosa del genere, perché quando due donne si piacciono e vivono insieme si dice così, mentre se sono due uomini si dice “omo” qualcosa. Gli ho detto che era un bugiardo, che le mie mamme non sono quella cosa e nemmeno mia nonna Giuseppina e mia zia Giulia che vivono insieme anche loro dopo che è morto lo zio Marco (però non so se si piacciono, perché litigano sempre). Mirko ha detto anche che per avere un bambino due mamme possono comprare il seme in una banca e metterselo in una delle pance, mentre due papà non possono farlo, perché nella pancia dei papà i bambini non crescono. Io mi sono messa a piangere e Mirko se n’è andato a giocare a soldatini con Pietro della II B. È rimasta solo Matilde a consolarmi, perché Delia a quel punto si era stufata ed era andata a guardare i cartelloni sulla primavera che hanno fatto quelli di V.


Oggi mamma Silvia e mamma Anna mi hanno spiegato tutto. E adesso sono contenta e non vedo l’ora di vedere Matilde, Delia e Mirko per dirglielo!!!! Il mio fratellino è nella pancia della mamma Anna, mentre io sono stata nella pancia della mamma Silvia; ma non importa di chi è la pancia, né se c’è o no un papà, ma solo che ci vogliamo tutti bene e che ne vogliamo anche al fratellino.


Stamani alla ricreazione con Matilde e Delia siamo andati a cercare Mirko della IV E per spiegargli tutto. Era a giocare a figurine e gli abbiamo detto che sapevamo tutto e ora glielo spiegavamo. Ma siccome io l’avevo già spiegato a Matilde e Delia per essere sicura che mi riuscisse, Delia ha detto che lei già lo sapeva e si stufava a sentirlo un’altra volta ed è andata a giocare a principesse con quelle delle III. Che mi sa poi che il gioco non è andato tanto bene, perché hanno fatto piangere Maria, chiamandola la principessa della Cacca e la maestra Luigia si è arrabbiata e le ha messe tutte in castigo: era meglio se Delia rimaneva a sentire la mia storia anche la seconda volta.


Ecco la storia: è vero che per fare un bambino ci vuole un seme, ma non ci vuole un papà, perché il papà non è chi dà il seme, ma chi vuole bene al bambino, lo aiuta a crescere e se ne prende cura. Così non importa se c’è o no un papà, due mamme, una mamma e un papà o una mamma sola, come Cosimo di classe nostra che ha solo la mamma e la nonna che vengono tutti i giorni a prenderlo; non importa che papà e mamma vivono nella stessa casa, e infatti Giovanna della II A ha due papà, uno vive con la mamma e uno no e viene a prenderla tutti i martedì e i giovedì.

Mamma Anna e mamma Silvia e io ci vogliamo tanto bene, così tanto che ce ne avanzava e così hanno pensato che invece che buttarlo via, potevamo volere tanto bene ad un fratellino. Così sono andate in banca e hanno preso un seme. Però qui a casa nostra queste banche sono solo per chi è malato (questa cosa non l’ho capita bene). Quindi sono andate da un’altra parte a comprarlo, in Spagna o giù di lì.

Ma io, infatti, mi ricordo che mamma Anna e mamma Silvia mi avevano lasciato dalla nonna Giuseppina e dalla zia Giulia per mille giorni che non finivano più, dicendomi che dovevano andare a lavorare da un’altra parte. Sono state un po’ birichine, perché mi hanno detto una bugia, ma non volevano darmi un dispiacere se poi il semino non germogliava, come succede ai pomodori di mamma Anna.

Insomma, le famiglie sono di tutti i colori!!!

Mirko ha detto: ok e poi è andato a giocare a pallone.

Io penso che adesso è tutto chiaro e non ci sono problemi.

A pensarci anche di più, secondo me ci vogliamo così tanto bene che ne avanza anche se arriva il fratellino e quindi potremmo prendere un cavallo, perché un altro fratellino non ci sta a casa.




Oggi io con mamma Anna e mamma Silvia, zia Giulia e nonna Giuseppina siamo state ad una festa bellissima, in un prato enorme: si chiamava La festa delle famiglie arcobaleno, e c’erano tantissimi palloncini e gente che parlava ad un microfono, con tanti bambini e bandiere. C’erano patatine e aranciata e gelati per tutti.

Sono venuti anche lo zio Silvano, che è il fratello della mamma Silvia, con la zia Mara e i miei cugini Luca e Lucia.

Abbiamo giocato con tanti bambini, ed è vero che alcuno erano colorati. Zia Mara ci ha spiegato che alcuni bambini non hanno più una mamma o un papà e allora ne trovano altri che si prendono cura di loro. E secondo me è così che è successo anche a Argilia di classe mia, che è nera con i riccioli piccoli piccoli, mentre sua mamma è bionda e chiara e ha gli occhi azzurri.



Mentre tornavo a casa con un sacco di palloncini ho pensato che da grande anche io voglio fare una famiglia colorata, con Mirko che fa il papà e Matilde che fa la mamma. Non sono sicura di Delia; magari può fare il cavallo, ma secondo me si stufa subito e ci lascia senza.














 

alessandra

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Dove ho visto te di Sogno-o-son-desta



Perché lo stava facendo? Non lo sapeva neanche lei.

Non c'era alcuna ragione, neanche una, per la quale non dovesse odiarlo. Per la quale potesse non odiarlo. E allora perché lo stava facendo?

Le case e gli alberi scorrevano veloci davanti ai suoi occhi, fissi su un punto impreciso lungo l'orizzonte. Così nella sua mente scorrevano veloci le immagini di quegli ultimi mesi, confuse, insensate... come parole di una lingua babilonica, come frasi estratte da libri diversi che pretendessero da sole di dar vita a una storia.



“Volevo salutarti. Per sempre.”

“Credo tu sia una ragazza meravigliosa. Non per quello che possa pensare di ottenere da te, ma perché sei tu.”

“Non provo nulla per te e non sento la tua mancanza se non ci scriviamo. Se non capisci questo continuerai ogni volta a soffrire.”

“Fottitene della mia amicizia”

“Spero di fare un sogno romantico. Nel sogno tutto è concesso, nessuno verrà a dirmi che ho usato parole fuori luogo o che ho fatto quello che non dovevo.”

“Il problema è che se andiamo avanti così finirò per innamorarmi di te...”

“Non capisci che di te non mi interessa nulla? Che sei solo un gioco per me?"

“Sappi che ti stimo molto. Perché sei profonda, divertente, spontanea e hai dei solidi principi”

“Sei una bestia, come me. Per questo ti cerco... riconosco l'odore.”

“Ognuno di noi è unico e prezioso. Ricordatelo.”

“Sai anche tu che dato che non riusciamo a fare a meno di amarci in questo modo dovremo smettere di sentirci e dimenticarci l'uno con l'altro"

"Tu catalizzi i miei pensieri"

“Non credo nelle amicizie virtuali. I miei scopi con te sono puramente ludici”

"IO-NON-TI-RESISTO. Per questo devo andare via"

“Voglio sparire del tutto dalla tua vita e vorrei che tu facessi lo stesso con me”




Per quanto si sforzasse di far combaciare i pezzi, c'era sempre qualcosa che non tornava. Eppure la spiegazione, come lui gliel'aveva data più volte, era di una semplicità sorprendente: nessun affetto, nessun interesse, neppure passeggero. Solo un mero passatempo, un diversivo per le lunghe giornate lavorative... E le frasi dolci, al limite della romanticheria? Le dimostrazioni di stima e di amicizia? “Ci stavano bene...” Il romanticismo alzava la posta in palio, rendeva tutto più verosimile, e quindi più eccitante.

Eppure, per quanto limpida e palese fosse questa spiegazione, qualcosa dentro di lei continuava a rifiutarsi di accettarla. Troppo crudele, troppo dolorosa. Come poteva non nascere un minimo di affetto, di complicità, fra due persone che avevano condiviso i propri pensieri più intimi e segreti? Doveva esserci un’altra spiegazione, un altro senso.

E se invece fosse stato lui a ingannarsi, prendendo in giro se stesso prima ancora che lei? “Il problema è che se andiamo avanti così finirò per innamorarmi di te...” Ogni tanto le piaceva cullarsi nell'illusione che lei davvero stesse diventando importante per lui e che per questa ragione avesse deciso di allontanarla in modo così brutale, ferendola con parole che non rispecchiavano il suo vero sentire. Per molti mesi si era aggrappata a questa convinzione, ma anche questa a poco a poco si era dissolta, lasciando dietro di sè solo una scia di amarezza. Le sembrava di impazzire.



Sorrise pensando che se lui avesse potuto leggerle nei pensieri l'avrebbe presa in giro, accusandola di essere troppo “cervellotica”... quante volte glielo aveva detto!

Non cercare sempre un perché. Lascia correre ciò che non ti torna.” No, non ci riusciva. Era fatta così: non riusciva ad accettare quello che non capiva. Nei libri, sì, le piaceva: amava i finali aperti, le questioni irrisolte, la capacità di una storia di andare oltre la parola fine. Ma nella vita no: i conti dovevano tornare.



Il sussulto del treno in partenza la fece riemergere: sprofondata nei propri pensieri, non si era resa conto del susseguirsi delle stazioni presso le quali si era fermata. Si voltò, riuscendo a scorgere la scritta “Brescia” prima che il treno abbandonasse definitivamente la stazione. La prossima sarebbe stata Milano.



Perché lo stava facendo? Se lo chiese ancora. Mille volte aveva sognato di conoscerlo, e ogni volta per un motivo diverso. C'era stato un periodo in cui, decisa a conquistare la sua amicizia, si era convinta che solo conoscendolo, solo rendendosi finalmente reale per lui (e lui per lei), sarebbero riusciti a rompere l'incantesimo che li imprigionava, a liberarsi dalla costrizione di sostenere sempre gli stessi ruoli. I fantasmi – pensava lei – si sconfiggono accendendo la luce. Arrivò persino a credere (e a sperare) che vedendola dal vivo e verificando di persona che non si trattava poi di questa gran bellezza, lui avrebbe smesso di considerarla “pericolosa” e avrebbe potuto vederla solo come un'amica.

Ma c'erano anche momenti in cui a bruciarle dentro era la voglia folle di guardarlo negli occhi... di toccarlo, di baciarlo. Di trasformare il sogno in realtà. Tuttavia nessuna di queste era la ragione per cui adesso si trovava lì: non cercava più un'amicizia che, ormai lo sapeva, non ci sarebbe mai stata, e tanto meno sperava di veder realizzato il repertorio del proprio vivace immaginario erotico.

Forse l'unica vera ragione che la stava conducendo lì, da lui, era il desiderio, semplice e terribile, di vederlo. Di vederlo muoversi, parlare... E il bisogno che lui vedesse lei, per una volta soltanto. Non erano due fantasmi, erano due persone.



(…)



La strada era larga e poco trafficata e questo le permetteva di tenere d'occhio l'ingresso pur ponendosi a una certa distanza dall'edificio. Passato circa un quarto d'ora, vide il portone aprirsi e uscirne un gruppetto di poche persone; trattenne il fiato. Lo riconobbe subito: bruno, con gli occhiali, un sorriso a illuminargli il volto.

Lo avrebbe mai notato se non fosse stato lui? Probabilmente no, ma in quel momento le sembrò di morire... lui esisteva! A furia di viverlo nelle proprie fantasie, era arrivata a credere che condividesse la stessa consistenza effimera dei sogni che le ispirava.

Seguì il gruppetto a debita distanza e, quando li vide entrare in una tavola fredda a poche decine di metri dal loro ufficio, aspettò qualche minuto prima di entrare a sua volta.



Quando si decise a varcare quella soglia, lui era già seduto accanto ai suoi colleghi e non dovette fare altro che girare appena la testa per guardarla: fu quella la prima volta in cui i loro occhi si incrociarono, e lei non seppe dire se l'avesse riconosciuta o meno.

Cercò rapidamente un posto strategico e scelse un tavolo poco distante da quello di lui, così da poter incrociare i suoi occhi in modo spontaneo, casuale. Ordinò un'insalata e iniziò a mangiare.

E ora? Cosa avrebbe fatto ora? Sarebbe dunque finito lì quel loro primo e ultimo incontro? Poteva darsi benissimo. Ma non fu così.



A un certo punto lui si alzò da tavola e si incamminò verso di lei, almeno così le parve. Lei smise di respirare. Lui la guardò e, per tutta la durata di quei pochi passi, tenne gli occhi fissi dentro ai suoi. Se mai lei avesse avuto ancora qualche dubbio, questo si sarebbe dissolto all'istante; quel suo sguardo intenso, penetrante, non poteva dire che questo: “So che sei tu. Lo so”. Per una frazione di secondo lei pensò addirittura che lui potesse fermarsi, salutarla e offrirle il famoso caffè... Ma che sciocchezze, non l'avrebbe mai fatto! Forse, in quel suo sguardo profondo, ma severo, c'era invece tutto il suo disprezzo, tutto l'odio di chi si era raccomandato: “Non insistere. Non voglio conoscerti e non ti conoscerò. Mai.” Ad ogni modo lui passò senza fermarsi, com'era ovvio che facesse, e raggiunse il bagno, che si trovava poco oltre il tavolo di lei. Lei non si volse: l'emozione le impediva di muovere anche un solo muscolo.

Ma quando sentì la porta richiudersi e i suoi passi sempre più vicini, quando percepì la sua presenza alle sue spalle e poi di fianco a lei, prima che lui la superasse del tutto per raggiungere nuovamente il suo tavolo, un impulso illogico e irrefrenabile prese il sopravvento e lei vi si arrese senza riserve: “Scusa? Posso chiederti che ore sono?



Quante cose si possono dire con un solo sguardo? Quanta vita può passare in un solo istante?

In quell'attimo, prima che lui rispondesse a quella stupida domanda (era particolarmente incline, lei, a condire i momenti perfetti di frasi stupide), passarono non solo quei dodici lunghi mesi trascorsi da quando si erano conosciuti (la maggior parte dei quali spesi in silenzi e tentativi di dimenticarsi l'uno con l'altra), ma anche tutto il tempo vissuto insieme nei recessi delle proprie menti, a dirsi parole e a fare cose che non si sarebbero mai realizzate, ma che ora inspiegabilmente si stavano materializzando davanti a loro, come evocazioni di ricordi regolarmente immagazzinati.

In quei pochi istanti si amarono, si odiarono, volevano fare tutto e non fecero niente. I più intimi estranei che potessero incontrarsi in una tavola fredda di una città come Milano.



Certo... è l'una e dieci”. Le sorrise. Anche lei gli sorrise. E capì che si stavano dicendo tutto quello che avevano da dirsi, capì che da quel momento in poi non si sarebbero odiati più. Non si sarebbero neanche più amati, forse, ma questo non aveva importanza. Ciò che contava era il ricordo che si sarebbero portati dietro: la fantasia trasformata per un istante in realtà, l'illecito che diventava possibile. Il suo “grazie” fu appena udibile mentre lui si girava nuovamente e raggiungeva i suoi colleghi.









 

alessandra

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Segue Dove ho visto te di Sogno-o-son-desta

Lei rimase immobile per un po', aspettando che il suo cuore riprendesse a battere regolarmente (quando sarebbe successo? non avrebbe saputo dirlo, proprio come tutto il resto). Sapeva che non ci sarebbero state altre parole, nè altri sguardi; lasciò l'insalata rimasta e si alzò per pagare. Andò via senza voltarsi, ma sentendosi addosso gli occhi di lui fino al momento in cui, uscita definitivamente dalla sua visuale, si fermò in mezzo alla strada, cercando nell'aria fredda un po' di sollievo. E fu più forte di lei: le lacrime cominciarono a sgorgare, sempre più copiose... “Devo andarmene di qui” pensò e raggiunse senza più fermarsi l'ingresso della metropolitana.



Di nuovo sul treno, di nuovo lo stesso paesaggio scorrerle veloce davanti agli occhi. Il ritorno ha sempre un sapore diverso... Difficile dire come si sentiva in quel momento: aveva finalmente realizzato il suo sogno di conoscerlo, ma questo incontro, apparentemente stupido, banale, aveva cambiato qualcosa? avrebbe cambiato qualcosa? Si erano visti, si erano parlati, si erano sorrisi... ma le risposte che lei cercava lui non le aveva e non le avrebbe avute mai, e lei stava andando via lasciandosi dietro l'unica occasione che il destino le aveva offerto di trovare un perché.



Ma è proprio necessario dare un senso alla vita per poterla vivere? Non poteva, una volta per tutte, rassegnarsi ad accettare quell'esistenza assurda, imprevedibile e incomprensibile senza necessariamente doverla confinare nella gabbia del “tutto torna”? Almeno per una volta, non poteva? All'improvviso le venne un'idea.

C'era un modo, un modo soltanto, per trovare il senso che non c'era, ma di cui sembrava non riuscire a fare a meno, e questo modo era... crearlo! Plasmarlo, come si plasma un'opera d'arte. Cos'altro era, lo scrivere, se non un modo per inventare un'altra realtà? più limpida, più ostica, più romantica, più volgare, ma comunque diversa da quella “vera”? Onnipotenza della letteratura, che è arte-finzione-verità-menzogna-salvezza.

Aveva dovuto fare tutti quei chilometri. Aspettare dodici mesi, fare tutti quei chilometri e trovarsi di fronte a lui in carne ed ossa, per arrivare a comprendere che solo nella materia del sogno (o della finzione letteraria, che poi è la stessa cosa), si sarebbero potuti appartenere. Ecco il senso che cercava e che non aveva mai trovato. Ecco l'unico senso possibile.



Ma alla vita vera, cosa sarebbe rimasto? Cosa sarebbe stato, di loro due?

Nei libri, sì, le piaceva: amava i finali aperti, le questioni irrisolte, la capacità di una storia di andare oltre la parola fine...

Se la realtà diventava letteratura, la letteratura poteva ben prendere il posto della realtà. Quanti e quali finali la letteratura avrebbe potuto scrivere per loro nel mondo reale? Lui sarebbe potuto tornare, magari dopo aver letto la sua storia, magari perché aveva deciso che valeva la pena conservare la sua amicizia. Oppure perché qualcosa in lui si era risvegliato, perché aveva ritrovato dentro di sè la traccia di quell'odore... O piuttosto, com'era probabile, non sarebbe successo nulla di tutto ciò ed entrambi avrebbero preso in prestito dalla finzione quel finale che faceva tornare ogni cosa, e non si sarebbero sentiti davvero più, mai più. Chi poteva dirlo? Tutto era possibile in quel racconto diventato vita, in quella vita diventata racconto.
 
Stato
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