«È possibile cancellare il passato e liberarci della persona che siamo stati?»
Mara Paladini ci sta provando da tredici anni, dopo aver scontato una pena in una struttura psichiatrico-giudiziaria per il tentato omicidio del marito e dei due figli. Il nome di quella donna, affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura – una patologia che porta a far ammalare le persone che si amano per poi curarle e prendersi il merito della loro guarigione – era Mariele Pirovano, ma quel nome Mara lo deve dimenticare, perché quella persona non esiste più. Almeno questo è ciò di cui tutti vogliono convincerla. Lei però non ci crede e nella sua nuova vita in una grande città, a centinaia di chilometri dal proprio passato, ha costruito una quotidianità che la tiene lontano dal mondo, che le impedisce di nuocere ancora: non esce quasi mai e della casa procurata dai servizi sociali ha fatto una prigione di scatoloni e memorie, dove seppellire per sempre Mariele. Un giorno però nella sua torre d’avorio si apre una breccia. Comincia tutto con una piccola macchia di umidità sul soffitto, che la costringe ad andare al piano di sopra per avvertire il vicino. Potrebbe essere cosa da nulla, invece la scena che le si presenta è un uomo morto, con i segni dell’avvelenamento sul corpo. Mara potrebbe non riconoscerli, quei segni; Mariele invece non ha dubbi, perché così ha quasi ucciso le tre persone che amava di più. Ora Mara sa che è stato tutto inutile, che il suo passato l’ha riagguantata: ora Mara sa che l’unica possibilità è la fuga, da chi vorrà incolparla di quell’omicidio e da chi invece lo ha commesso per incastrarla.
Devo ammettere che non mi risulta affatto facile recensire questo ultimo thriller di Paola Barbato. Non perché non mi sia piaciuto – anzi! – ma perché si tratta di un romanzo complesso, sfaccettato, denso di microtematiche tutte importanti, ma che forse non so – o non voglio saper – esaminare. Quella raccontata in più di quattrocento pagine di thriller è la storia di Mara Paladini, una donna che da anni vive in quello che sarebbe un più che dignitoso appartamento a Milano, ma che lei ha trasformato in un bozzolo – o forse in un loculo – riempiendo tutti gli spazi disponibili con una miriade di scatole bianche, tutte diligentemente catalogate, contenenti la sua vita di prima. Questa torre bianca, d'avorio, che l'avvolge e la sovrasta le ricorda ogni momento perché si trova lì, sola, auto-reclusa, con uscite rarissime e contatti umani ancor più radi: ha cercato di avvelenare la sua famiglia, le tre persone che abbia mai davvero amato; è stata giudicata affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura, è stata rinchiusa in una struttura riabilitativa e poi ne è uscita una volta giudicata "guarita". Ma Mara non pensa di essere guarita… e forse, inaspettatamente, c'è qualcun altro che la pensa allo stesso modo. Quando una perdita d'acqua costringe Mara a salire al piano di sopra ad interpellare il vicino, scopre che l'uomo è morto: è stato ucciso proprio con lo stesso veleno usato da lei anni prima, nel tentativo evidente di addossarle la colpa. Così la donna precipita in un incubo che la costringe a scappare, ad intraprendere un viaggio di salvezza i cui esiti sono quantomai ignoti, nonché a rivolgersi alle uniche persone che possano, in qualche modo, capirla: le stesse che hanno condiviso con lei quegli anni in struttura, le stesse che, come lei, sono state – o avrebbero dovuto essere – reinserite in società. Dove la porterà questa fuga forsennata? Da dove arriva la minaccia?
"La torre d'avorio", come tutti i romanzi di Paola Barbato, non ha una trama lineare, uno sviluppo prevedibile, una storia da passeggiatina fra i cespugli in fiore… e che gusto ci sarebbe? I suoi sono romanzi vivi, d'azione, spesso di viaggio e questo non fa eccezione: lunghi percorsi in macchina, cambi di ambientazione, case diverse in cui ambientarsi in fretta ed in situazioni affatto idilliache… e poi donne, donne coraggiose, spregiudicate, trasformiste, pronte a tutto. E i valori della famiglia, dell'amicizia, il dolore di lasciar andare cose, persone, pezzi di strada fatta insieme… Tutto questo troviamo in "La torre d'avorio", un romanzo un po' thriller, un po' noir, un po' tutto e niente, bellissimo e difficilissimo da etichettare. Un romanzo da leggere, è ovvio, come tutti quelli di Paola Barbato.
Mara Paladini ci sta provando da tredici anni, dopo aver scontato una pena in una struttura psichiatrico-giudiziaria per il tentato omicidio del marito e dei due figli. Il nome di quella donna, affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura – una patologia che porta a far ammalare le persone che si amano per poi curarle e prendersi il merito della loro guarigione – era Mariele Pirovano, ma quel nome Mara lo deve dimenticare, perché quella persona non esiste più. Almeno questo è ciò di cui tutti vogliono convincerla. Lei però non ci crede e nella sua nuova vita in una grande città, a centinaia di chilometri dal proprio passato, ha costruito una quotidianità che la tiene lontano dal mondo, che le impedisce di nuocere ancora: non esce quasi mai e della casa procurata dai servizi sociali ha fatto una prigione di scatoloni e memorie, dove seppellire per sempre Mariele. Un giorno però nella sua torre d’avorio si apre una breccia. Comincia tutto con una piccola macchia di umidità sul soffitto, che la costringe ad andare al piano di sopra per avvertire il vicino. Potrebbe essere cosa da nulla, invece la scena che le si presenta è un uomo morto, con i segni dell’avvelenamento sul corpo. Mara potrebbe non riconoscerli, quei segni; Mariele invece non ha dubbi, perché così ha quasi ucciso le tre persone che amava di più. Ora Mara sa che è stato tutto inutile, che il suo passato l’ha riagguantata: ora Mara sa che l’unica possibilità è la fuga, da chi vorrà incolparla di quell’omicidio e da chi invece lo ha commesso per incastrarla.
Devo ammettere che non mi risulta affatto facile recensire questo ultimo thriller di Paola Barbato. Non perché non mi sia piaciuto – anzi! – ma perché si tratta di un romanzo complesso, sfaccettato, denso di microtematiche tutte importanti, ma che forse non so – o non voglio saper – esaminare. Quella raccontata in più di quattrocento pagine di thriller è la storia di Mara Paladini, una donna che da anni vive in quello che sarebbe un più che dignitoso appartamento a Milano, ma che lei ha trasformato in un bozzolo – o forse in un loculo – riempiendo tutti gli spazi disponibili con una miriade di scatole bianche, tutte diligentemente catalogate, contenenti la sua vita di prima. Questa torre bianca, d'avorio, che l'avvolge e la sovrasta le ricorda ogni momento perché si trova lì, sola, auto-reclusa, con uscite rarissime e contatti umani ancor più radi: ha cercato di avvelenare la sua famiglia, le tre persone che abbia mai davvero amato; è stata giudicata affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura, è stata rinchiusa in una struttura riabilitativa e poi ne è uscita una volta giudicata "guarita". Ma Mara non pensa di essere guarita… e forse, inaspettatamente, c'è qualcun altro che la pensa allo stesso modo. Quando una perdita d'acqua costringe Mara a salire al piano di sopra ad interpellare il vicino, scopre che l'uomo è morto: è stato ucciso proprio con lo stesso veleno usato da lei anni prima, nel tentativo evidente di addossarle la colpa. Così la donna precipita in un incubo che la costringe a scappare, ad intraprendere un viaggio di salvezza i cui esiti sono quantomai ignoti, nonché a rivolgersi alle uniche persone che possano, in qualche modo, capirla: le stesse che hanno condiviso con lei quegli anni in struttura, le stesse che, come lei, sono state – o avrebbero dovuto essere – reinserite in società. Dove la porterà questa fuga forsennata? Da dove arriva la minaccia?
"La torre d'avorio", come tutti i romanzi di Paola Barbato, non ha una trama lineare, uno sviluppo prevedibile, una storia da passeggiatina fra i cespugli in fiore… e che gusto ci sarebbe? I suoi sono romanzi vivi, d'azione, spesso di viaggio e questo non fa eccezione: lunghi percorsi in macchina, cambi di ambientazione, case diverse in cui ambientarsi in fretta ed in situazioni affatto idilliache… e poi donne, donne coraggiose, spregiudicate, trasformiste, pronte a tutto. E i valori della famiglia, dell'amicizia, il dolore di lasciar andare cose, persone, pezzi di strada fatta insieme… Tutto questo troviamo in "La torre d'avorio", un romanzo un po' thriller, un po' noir, un po' tutto e niente, bellissimo e difficilissimo da etichettare. Un romanzo da leggere, è ovvio, come tutti quelli di Paola Barbato.