Leggendo questo topic sulla Divina Commedia, mi sono venuti in mente i ricordi sul X canto dell’Inferno quello di Farinata e Cavalcante.
Dante incontra per primo Farinata degli Uberti che così si rivolge al poeta
O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto
Farinata per Dante è l’uomo politico a cui chiede notizie sulle sue origini e se guelfo o ghibellino.
La seconda figura che Dante incontra è Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido Cavalcanti, che così si rivolge al poeta:
piangendo disse: "Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov'è? e perché non è teco?".
E io a lui: "Da me stesso non vegno:
colui ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno".
Le sue parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
Di sùbito drizzato gridò: "Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?".
invece si preoccupa di avere notizie del figlio. Lui sa che nel passato il figlio è vivo, nel futuro è morto; ma nel presente?
Quando sente usare il verbo “ebbe” capisce che il figlio è morto ed allora pone le domande a Dante e soprattutto nella terza domanda “non fiere li occhi suoi lo dolce lume?” c’è tutta la tenerezza paterna di Cavalcante (Gramsci).
Devo dire che in questo canto La figura di Cavalcante è la più intima, la più vera ed in cui più mi immedesimo; lui oramai non si preoccupa più degli affari della città di Firenze; ma l’unica cosa che gli preme è di sapere come sta suo figlio. Fa un salto qualitativo rispetto a Farinata ancora legato agli affari terreni.
Secondo me a dimostrazione di come per Dante i legami affettivi siano più importanti delle questioni politiche.
Ottimo il commento che a questo canto fa Antonio Gramsci sui Quaderni del Carcere, in cui mette l’accento sulla figura paterna di Cavalcante e sul diverso animo dei due personaggi. Farinata al silenzio di Dante, che segue alle domande di Cavalcante, rimane pressoché impassibile, mentre Cavalcante “supin ricadde e più non parve fora”. In una Lettera dal Carcere scritta nel 1931 alla cognata Tatiana scrive: “Si capisce la differenza tra Cavalcante e Farinata. Farinata, sentendo parlare fiorentino ridiventa l'uomo di parte, l'eroe ghibellino; Cavalcante invece non pensa che a Guido e al sentir parlare fiorentino si solleva per sapere se Guido è vivo o è morto in quel momento”.
La cosa che mi ha colpito di questa analisi è che per alcuni critici, Gramsci stesso si sente come Farinata-Cavalcante e scrive queste righe, non tanto per aggiungere il suo parere a quello di tanti illustri critici ma piuttosto, per trasmettere un suo sentimento. Ai compagni che dall’esterno della prigione gli chiedono pareri sulla situazione politica attuale non sa rispondere, perché lui conosce il passato, sa che nel futuro ci sarà il ricongiungimento con il partito, ma non sa dare un giudizio sul presente.
Ma in Antonio Gramsci c’è soprattutto la figura di Cavalcante, quella dell’uomo preoccupato per la condizione dei suoi cari affetti.
Questa analisi su Gramsci – di cui ho riassunto una parte di un lungo articolo pubblicato alcuni anni fa e trovato su Internet – mi ha lasciato piacevolmente sorpreso, perché nel mio immaginario ero legato alla figura del rivoluzionario scientifico sempre pronto ad analizzare la situazione socio-politica e a dare indicazioni di lotta. Nelle Lettere dal Carcere mi aveva colpito la severità con la quale si rivolgeva ai figli spingendoli allo studio ed all’impegno; la poca affettività con cui si rivolgeva alla moglie; affetto che sembrava quasi esclusivamente rivolto alla cognata.
Sicuramente questa analisi mi avvicina ulteriormente a questo grande intellettuale del ‘900 a dimostrazione di come l’amore per i propri cari vada aldilà di qualsiasi impegno nella sfera sociale.