Sono ancora ipnotizzata da questo film: un capolavoro assoluto, una vetta irraggiungibile, meraviglioso e perfetto fino all'ultimo fotogramma.
Fellini è un puro genio. E poi è anche una questione di affinità: un'opera che entra così a fondo nell'animo umano non posso che adorarla! Mi viene anche difficile recensirlo, perché, insomma, il genio intimorisce e incute timore e stavolta credo veramente di non essere in grado - non alla prima visione del film come non credo lo sarò alla centesima - di coglierne tutte le sfumature.
La genialità è in ogni singolo fotogramma. Il protagonista, doppio di Fellini stesso, è in realtà un doppio di chiunque sia infelice, forse perché il motivo di questa sua infelicità non è razionale, è un'infelicità molto più profonda. Accanto a lui si muovono decine di personaggi: l'amante volgarotta, la moglie frustrata, attrici, produttori, l'intellettuale (il "falcaccio"!) che pedantemente boccia qualsiasi idea del regista, fino alle fugaci apparizioni di Claudia Cardinale (che sia, anche sul finale, tutto nella testa del protagonista?). C'è sul fuoco tutto il possibile: dal rimpianto, ai pochi secondi in cui il bacio con la madre diventa il bacio con la moglie, il ritorno all'infanzia, il rapporto fra il protagonista e le donne, l'opprimente peso della religione, il peso dell'intellettuale vero e la presa in giro a intellettuali falsi. Il tutto a svantaggio della dimensione razionale: visioni, sogni e realtà si fondono insieme, il confine diventa labile eppure non potrei pensare a un modo più geniale di filmare l'animo umano.
Accanto alla dimensione esistenziale si muove la dimensione metacinematografica, in cui il film in realizzazione diventa specchio dell'interiorità del protagonista, concludendo tutto in quel disincantato "non c'è niente di niente da nessuna parte" che Guido pronuncia dopo essere stato quasi smascherato da Claudia, che ripetendo tre volte la stessa frase, sfiora in pochi secondi la radice del problema (e, ancora qui, a me non appare chiaro: è nella sua testa o è veramente una delle sue attrici?).
La genialità consiste anche nel lasciare lo spettatore con il dubbio che si tratti di un film felice oppure di un film triste. È la storia di un'infelicità, contornata di sbeffeggiamenti satirici in ogni dove. E, insieme, anche il finale ha la sua duplice lettura. In due occasioni, infatti, Guido torna bambino: nel rifugiarsi sotto al tavolo durante la conferenza stampa e rinuncia al film puntandosi una rivoltella alla testa e quando, al termine della conferenza stampa, finalmente da regista quale egli è, dirige un girotondo che non potrebbe essere più allegro e vitale. "Uccide" metaforicamente il film, il "niente di niente", ma il girotondo si apre alzando un sipario. Ma, ripeto, qui c'è troppo perché io possa azzardare opinioni sensate, e troppe chiavi di lettura per poter dire che ce ne sia anche una sola giusta.
Unica cosina che mi ha fatto storcere il naso è quella sottile visione maschilista che permea un po' il film e soprattutto la parte nell'harem, una concezione della donna che a me, da donna, non può piacere, ma che a un genio si perdona e che va contestualizzata nel film.
E, infine, la mia personale antipatia per il plurilinguismo tanto in voga negli anni '60 ma a cui si sacrifica in qualche scena la comprensibilità. La sequenza in cui Guido si rivede bambino, girata tutta in un dialetto a me sconosciuto, mi è rimasta del tutto oscura.