Bufalino, Gesualdo - Diceria dell'untore

Non dubitavo, mio caro Sergio, che ti sarebbe piaciuto. Ti conosco così bene da capire quando, al di là di virtuosismi linguistici e ambiguità, un testo o un autore possano interessarti, capacità dovuta alla tua virtù di leggere “oltre”.
Tu domandi: Di cosa si è Untori nella diceria?
Ed individui quello che nessuno aveva azzardato: di se stessi.
Ecco che apri una finestra – e mi mostri il fantastico che è in te – e guardo il morire che muore e la vita che vive.
Miracolo interpretativo – potremmo dire – ma si tratta del mio amato realismo magico che tu riesci a vedere.
Gesto di estremo coraggio è il riuscire ad essere in sé nella malattia che, quale veicolo di emozioni contrastanti, viene vissuta seguendo un istinto primordiale.
E ai primordi c’è la nostra nascita, il nostro vivere che, contaminandosi, torna ad essere vita arcaica.
Quindi “si è sani quando si è malati” perché è nella naturale decomposizione del proprio corpo che siamo parte di una natura che ci vuole tesi verso il fine, verso il morire.
Mi viene in mente il Magro, rabbioso, dotto: il cerusico sano che morirà.
Al contrario del protagonista che, arreso alla malattia, sopravvivrà.
Segno naturale dei trascorsi.

Lascio aperta la finestra, Sergio caro, ché altre tue immagini possono arrivare.
 

lillo

Remember
Letto in montagna dopo essere stato li' in libreria per qualche anno.
Hai ragione, Julia: mi e' piaciuto, l'ho trovato un libro di spessore.
Concordo con quanto dici: va' al di la' dello stile ( un pretesto, un gioco, un vezzo?).
Ad ogni modo lascio questo quesito, che poco m'interessa, senza risposta.
Quello che conta per me e' altro: di cosa si e' Untori nella diceria?
Io direi proprio quello che non si sospetterebbe mai:se stessi.
La frase chiave del libro e' una, detta da Marta: " non riesco ad immaginare cosa piu' importante nella storia, della mia morte"
In queste parole si nasconde tutto il senso del libro: nella vita non c'e' attimo piu' " individuale" dell'ammalarsi per morire.
Se la vita sana e' la dispersione dei toni e dei colori esistenziali ( il suo flusso veloce, nell'io, nel tu, nel noi, nel loro...), la morte e' l'annullamento totale di ogni percezione di questa possibile dispersione.
C'e' una distonia d'intervallo: quando si e', se non si e' nalla vita e nella morte?
Probabilmente quando ci si ammala seriamente.
Jaspers sosteneva che le due situazioni limiti della vita sono: nascita e morte. Le uniche due che paradossalmente , seppur cosi' intime, mai noi potremmo viverle. Non abbiamo coscienza di nascere e nemmeno coscienza dell'ultimo fatale secondo, una frazione piu' in la'. Noi possiamo soltanto vedere gli " altri" a morire ma mai noi stessi.
E dunque la malattia e' quell'attimo di raccoglimento piu' vicino ad una di queste situazioni limite. Nella malattia ci "raccogliamo" in noi stessi perche' percepiamo oltre che alla paura e all'ineluttabilita' dell'evento, il momento che piu' di ogni altro ci convoca nudi e soli ad essere quello che noi siamo fuori dalla dispersione vitale, perche' la convocazione e' sempre solitaria ed infine non ci saremo in quel preciso istante.
La malattia e' " anticipazione", esorcismo, ritualita', e' una condizione profondamente umana ed esistenziale. La malattia e' " individuale".
Si e' sani quando si e' malati, forse?

Un libro che ho letto con questa chiave di lettura. In molti passi ho trovato questa allusione sottaciuta.

In barba al sig. Bufalino che nega, l'influenza della Montagna incantata del Mann, si fa eccome sentire. Il tema malattia come vita vera ci sta' in entrambi. Eccome!
Libro fantastico e fantasmatico, divorato più che letto.
La malattia come metafora e preparazione all'attimo della morte, momento di completa solitudine e di ricerca della propria individualità. La malattia rappresenta il momento in cui ci troviamo di fronte alla transitorietà della vita. La vita e la salute sono due momenti precari, legati al caso e ce ne rendiamo conto solo nella malattia. Ma è quest'ultima che ci porta ad apprezzare di più la vita ed ad allontanarci dai falsi miti che si è creati. Sono daccordo con te probabilmente la verà sanità si ha quando si è malati .... duro da dire da parte mia, ma le cose migliori di alcuni le ho viste durante la malattia.
Il legame con La montagna incantata lo trovo inscindibile.
 

sergio Rufo

New member
Non dubitavo, mio caro Sergio, che ti sarebbe piaciuto. Ti conosco così bene da capire quando, al di là di virtuosismi linguistici e ambiguità, un testo o un autore possano interessarti, capacità dovuta alla tua virtù di leggere “oltre”.
Tu domandi: Di cosa si è Untori nella diceria?
Ed individui quello che nessuno aveva azzardato: di se stessi.
Ecco che apri una finestra – e mi mostri il fantastico che è in te – e guardo il morire che muore e la vita che vive.
Miracolo interpretativo – potremmo dire – ma si tratta del mio amato realismo magico che tu riesci a vedere.
Gesto di estremo coraggio è il riuscire ad essere in sé nella malattia che, quale veicolo di emozioni contrastanti, viene vissuta seguendo un istinto primordiale.
E ai primordi c’è la nostra nascita, il nostro vivere che, contaminandosi, torna ad essere vita arcaica.
Quindi “si è sani quando si è malati” perché è nella naturale decomposizione del proprio corpo che siamo parte di una natura che ci vuole tesi verso il fine, verso il morire.
Mi viene in mente il Magro, rabbioso, dotto: il cerusico sano che morirà.
Al contrario del protagonista che, arreso alla malattia, sopravvivrà.
Segno naturale dei trascorsi.

Lascio aperta la finestra, Sergio caro, ché altre tue immagini possono arrivare.

Beh, julia, se non conosci tu i miei gusti letterari, mia cara, chi vuoi che li conosca? :)
Sai bene che detesto quegli esercizi di puro stile talmente didattici da diventare compitini. Ma questo, come dicevi tu, non e' solo esercizio di scrittura o di linguistica: e' molto di piu'.
E' un libro profondo, emotivamente vicino a noi: direi che e' un libro invocativo perche' c'invoca a ricordare che la morte ci appartiene come cosa nostra, ineluttabilmente.
E' un libro dedicato a tutti.
La malattia ne esce come redenzione ad un certo punto ( Mann?): ci redime dalla dispersione e ci fa ritrovare il nostro intimo io. Io di fronte a me stesso che sto morendo: quale specchio piu' profondo ci puo' riflettere? e' scevro datuto il resto.
Indicativa la nudita' della malattia: il richiamo del sangue, del corpo, della sessualita', rimangono i richiami piu' forti. Bufalino aveva visto giusto...perche' spoglia il malato persino delle contraddizioni spirituali ma non li nega la fedelta' a se stesso.
E' un malato sano, colui che si salva, non tanto perche' continua a vivere ma perche' nella malattia e' stato e rimasto se stesso.

"Mi viene in mente il Magro, rabbioso, dotto: il cerusico sano che morirà.
Al contrario del protagonista che, arreso alla malattia, sopravvivrà.
Segno naturale dei trascorsi."

Direi che queste tue parole fotografano benissimo la vicenda: il rancore da una parte, l'accettazione e l'amen dall'altra.
C' qualcosa di dionisiaco nel secondo.
 

sergio Rufo

New member
Libro fantastico e fantasmatico, divorato più che letto.
La malattia come metafora e preparazione all'attimo della morte, momento di completa solitudine e di ricerca della propria individualità. La malattia rappresenta il momento in cui ci troviamo di fronte alla transitorietà della vita. La vita e la salute sono due momenti precari, legati al caso e ce ne rendiamo conto solo nella malattia. Ma è quest'ultima che ci porta ad apprezzare di più la vita ed ad allontanarci dai falsi miti che si è creati. Sono daccordo con te probabilmente la verà sanità si ha quando si è malati .... duro da dire da parte mia, ma le cose migliori di alcuni le ho viste durante la malattia.
Il legame con La montagna incantata lo trovo inscindibile.


Anch'io Lillo ho trovato molte assonanze. In un'intervista a Bufalino di Sciascia l'autore nega, ma e' evidente che stia mentendo. Rivendica l'indipendenza dal grande romanzo di Mann ( piu' profondo del suo)
La malattia: se tu ricordi Giovanni Castorp (?) e' il personaggio chiave della Montagna incantata ( uno dei grandissimi romanzi del 900).Secolo che nasceva nel segno dell'opulenza, del benessere, della finzione, dell'artificio: come se tutto fosse immortale e alla merce' degli uomini.
La morte vista come nemico; persino disconosciuta. Mann, e ilsuo Giovanni non la penseranno cosi'. Anzi a fondamento della vita ( abgrund, forse?) dove gli altri, la gnosi comune e scientifica vogliono comprendere il grande " perche'" con la negazione stessa del morire , loro ci mettono altro: il fondamento e' la comprensione stessa del morire. Soltanto cosi' - dunque - " anticipando" sia nella sanita', e ancor piu' nella malattia il proprio dovere e addirittura il proprio " volere" morire, si potra' amare la vita e cio' che offre la vita. Vi e' velato pure un'altro senso: non si rinnega parte della propria esistenza, ovvero la fine: in questo modo e' come se noi volessimo "scegliere" una cosa buona per scartarne una cattiva mentre la catena della nostra esistenza inevitabilmente trascina un anello dietro l'altro. Se tu accetti il primo " dovresti " accettare anche l'ultimo. Quando si chiude il " cerchio", solo allora, tu hai vissuto.
La malattia e' una festa per Giovanni, come era una festa per un Nietzsche, ma si sa: noi siamo solo uomini per comprendere l'abisso di questo pensiero.
Ah! umani, troppo umani
 
Scritto da Bufalino in Appendice:

I PERSONAGGI

Il protagonista, colui che dice Io: perplesso fra una morte sublime e una salvezza mediocre. Sensuale, ipocrita, retore. Dopotutto un commovente ragazzo...
Controfigura mentale dell'autore, uno stuntman o cascatore, cioè, che rischia in vece sua, ma gli somiglia solo di spalle. L'autore se ne serve ora come braccio secolare, ora come amanuense; altre volte lo plagia, lo invade, lo manda allo sbaraglio. I loro rapporti sono insomma burrascosi e amorosi.

Il Magro: un mediocre mago d'Atlante, un passabile Mefistofele. Però anche un cerusico e ciarlatano hoffmaniano, con le palandrane e la logorrea che la parte comporta.

Marta: klimtiana, se dovessi visualizzarla. Forse a me premeva installare al centro di un'estate di zolfi mediterranei una diversa mitologia, longobarda o mitteleuropea, e stare a vedere che succedeva. Del resto, mi accorgo ora, nessuno dei personaggi principali è siciliano, lo stesso Magro è di origini spagnolesche e ha studiato a Vienna. In quanto al protagonista ha letto troppo per poter essere etnicamente accertabile.

Padre Vittorio: un'improbabile e cara ombra. Mi piacerebbe incontrarlo, prenderlo a braccetto...

Diceria dell'untore - Gesualdo Bufalino, Ed. Tascabili Bompiani, pag. 181


"In quanto al protagonista ha letto troppo per poter essere etnicamente accertabile".


Splendido!
 

sergio Rufo

New member
Il protagonista, colui che dice Io:

ecco, come la intendevo.
E' chiarissimo: la malattia rende fortemente " individuale", ci restituisce un forte " io".
Ci si raccoglie.

Non ho al tua edizione Bompiani e tutte queste note non le ho lette.

Comunque meno male che ho ascoltato il tuo consiglio: un libro veramente meritevole di essere lettoe forse rilettoa distanza di qualche anno.
 

lillo

Remember
Il protagonista, colui che dice Io:

ecco, come la intendevo.
E' chiarissimo: la malattia rende fortemente " individuale", ci restituisce un forte " io".
Ci si raccoglie.
Bellissima citazione, assolutamente vera per alcuni (sono i migliori) e nella mia memoria c'è sempre un posto per loro; per altri (e sono i peggiori) la paura della malattia li rende petulanti, incredibilmenti deboli ed asfissianti.
Ho pianto per i primi e sospirato di noia per i secondi.
 

Dayan'el

Σκιᾶς ὄν&#945
E' chiarissimo: la malattia rende fortemente " individuale", ci restituisce un forte " io".

E come non convenire con Sergio? Io però la metterei su un piano forse più generale, comprendente la malattia. L'esperienza del dolore è tale - se è vero che si conosce solo tramite esperienza -, da non ammettere alcuna sostituibilità, ridà ognuno a se stesso nella sua forma più autentica, talvolta, come in Bufalino, resa lirica. La cognizione del dolore, l'esperirlo, conferisce il senso del limite, rimarca la finitudine, è, in questo senso, esperienza di morte. Ed ancora una volta Sergio coglie nel segno, quando ragiona con Epicuro sulla nostra estraneità verso il momento della morte: questa è da noi conoscibile solo mediante anticipazione, dolore o malattia, appunto. Dacché la sofferenza limita il campo vitale, riduce le possibilità, costringe lo spazio di esplicazione ad un diametro minore. Eppure questo ridursi delle risorse abbiamo imparato a temerlo, o meglio abbiamo imparato a temere l'indefinito, paura senza oggetto, angoscia; il timore, per dirla con Heidegger, della possibilità dell'impossibile. A questo proposito è valevole l'antica radice alig, in quanto il dolore infine vincola, ci restituisce a noi stessi, al nostro io, e dunque è un intus-legere, intelligere, riflessione intorno alla sofferenza od alla afflizione. Legame poi tramutantesi, sulla direttrice ontico-ontologica, in maschere, od in grammatica a rendere l'esperienza di una determinazione, comunicabile, condivisibile, e pertanto universale. E Bufalino non fa nulla di diverso esorcizzando l'angoscia della morte attraverso un linguaggio ricercato, flessuoso, ed ancor di più, a mio vedere, pone una sua grammatica della sofferenza interpretandola come dramma, teatro, laddove scrive

[...]non potevo esimermi di titubare di fronte all'impegno nuovo che mi attendeva e m'imponeva di recidere il mio comodo cordone ombelicale col sublime: non sarebbe stato facile, d'ora innanzi, trasgredire i precetti di questo recente apprendistato di morte e al posto di una parte di prim'attore, già scritta, improvvisare le battute di una comparsa.

Perché una volta esperito profondamente il senso del limite, la percezione della individualità, al punto di essere protagonista, proprio in quanto malato, non dev'essere poi facile tornare indietro, mischiarsi ancora una volta al flusso dell'esperienza comune, ritornare semplice comparsa del mondo. E di questo ancora una volta ci educe il Nostro

Come quindi mi sembravano ora intempestive la sicurezza e la salute di cui m'ero cinicamente gonfiato il petto sulla spiaggia [...] [di se stesso] un ectoplasma elusivo che avevo imparato ad amare, e che avrei dovuto lasciarmi in pegno per le spalle, come il giovinetto evangelico il suo mantello agli sgherri. Così sulle soglie dell'improrogabile epilogo, il mio spirito dubitava, in altalena fra delusione e speranza, senza che mai cessasse di considerare nel medesimo tempo, la guarigione una caduta e la morte uno scandalo.

Per poi concludere con parole risolute

Uscire mi toccava dalla cruna dell'individuo per essere uno dei tanti della strada, che amministrano umanamente la loro piccina saviezza d'alito e d'anni.
 

isola74

Lonely member
Lo confermo: questo libro è un continuo esercizio di stile, voluto o spontaneo non so... ma c'è dell'altro.....
L'ho trovato molto bello, non di facilissima lettura - questo è vero- (non mi vergogno ad ammettere che ho cercato un paio di parole sul vocabolario), ma bella la storia... il cognome di Marta scoperto alla fine è come l'ultima tessera di un puzzle... bello anche il messaggio... la diceria... che secondo me è racchiusa qui:
Abituarsi a guardare la vita come una cosa d'altri, rubata per scherzo,
da restituire domani.



E Bufalino è bravissimo a trovare espressioni meravigliose....

Certo oscilla fra contrattempi e incastri senza numero il gioc'a tombola della nostra vita.
Non si conosce mai chi si vuole, ma chi si deve o chi càpita, secondo che una mano sleale ci rimescoli, accozzi e sparigli,
disponendo o cassando a suo grado gli appuntamenti sui canovacci dei suoi millenni.

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ma fra noi vivi che ci scriviamo, le parole servono forse di più?Ed è poi sicuro che sia suono la vita e silenzio la morte, e non invece il contrario?


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Dove ritrovare il me stesso ragazzo, come sanarlo di quell'infezione: l'ingresso dell'idea di morte nell'intimità di un cuore innocente?
Un peculio incalcolabile d'anni, se il medico non mentiva, si sarebbe aggiunto ai magri centesimi che finora stringevo nel pugno.
Ma non sapevo come spenderlo, ai nuovi ricchi succede.

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«Dove sei ora, Marta, dove cammini? In quale notte?
Con che nome mi chiami, con che nome devo chiamarti? Ci sono fiumi dove abiti ora? da varcare a nuoto?
su passerelle che tremano? E sei sola, siete tanti, ti ricordi ancora di me?
Tornami in sogno, Marta. Anche se l'aria duole sotto i tuoi piedi scalzi, e non trovi labbra per dirmi le parole che vuoi.
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
Romanzo complesso e di grande fascino perché tratta argomenti molto difficili quali la morte e la malattia. Il protagonista, l'io narrante, è lo scrittore, e proprio per questa adesione alla realtà il romanzo prende una piega quasi magica. la realtà e la fantasia come si compenetrano tra di loro in questa autobiografia che appare quasi sospesa in un mondo irreale? Bellissimo il linguaggio, a volte lineare e scarno ma molto più spesso barocco, ricercato, pregno di sostanza. Bello comunque come lo può essere il romanzo di un periodo di vita intenso e determinante per ognuno di noi.
 

Ondine

Logopedista nei sogni
Affascinata da questo romanzo breve ma ricco di citazioni letterarie (alcune a me sconosciute), termini ricercati ma che non ho trovato affatto pedanti ma che anzi ho trovato musicali, dando alla lettura un piacevole ed elegante ritmo, alternati nello stesso tempo a frasi e parole concise, dirette, in determinati momenti anche brusche.
Ho respirato, nonostante la tematica di dolore, un'atmosfera di sogno, come se l'intera storia venisse narrata su un palco di un teatro.
C'è il confronto tra due mondi apparentemente contrapposti, il mondo dei malati e il mondo dei sani, ma la linea di demarcazione è davvero così netta?
Al di là della storia personale del protagonista e di Marta, la malattia è motivo di distanza o di unione?
Insieme il protagonista e Marta danno un senso al loro dolore, quando il protagonista poi si ritrova da solo ecco sopraggiungere il senso di colpa.
La guarigione fisica guarisce le ferite dell'animo?
Nel romanzo c'è anche una disquisizione religiosa ma non mi voglio inoltrare in questo preferendo soffermarmi a riflettere sul significato psicologico.
Romanzo che sorprendentemente ho letto tutto d'un fiato e che forse, più in là, con una seconda lettura mi dirà ancora nuove cose, credo sia uno di quei romanzi che non finisce mai di parlare, da scoprire come un vaso di Pandora.
 

Grantenca

Well-known member
E’ il primo romanzo che leggo di questo scrittore siciliano. Una romanzo che ha avuto, giustamente, unanimi riconoscimenti. E’ un storia veramente molto interessante ed idonea per una narrazione coinvolgente dato il tema di cui tratta. La scrittura è di qualità elevatissima con il continuo ricorso a parole ed espressioni abbastanza inusuali per la lingua che parliamo correntemente, con inoltre continue citazioni che, personalmente, non sempre ho saputo cogliere.
Con tutto questo non è che il linguaggio sia disancorato dai fatti, questo proprio no, anche magari le espressioni un po’ più ostiche sono funzionali alla storia e soprattutto a quello che l’autore ci vuole trasmettere.
In primo luogo forse l’importanza e il peso dei rapporti, più coinvolgenti di quello che a lui può sembrare, che intrattiene con il mondo lo circonda e che lo segna profondamente, tanto da farlo sentire fuori posto nella casa paterna, ed, alla fine, anche il pesante senso di colpa e la difficoltà di vivere che resta nell’anima di un sopravvissuto ad un evento che non ha lasciato via di scampo a molti compagni d’avventura.
In definitiva è una narrazione di qualità elevatissima e proprio questo è forse anche il suo limite, nel senso che difficilmente potrà essere apprezzata completamente dal lettore medio (come ritengo di essere) proprio per carenze culturali.
Non posso quindi consigliarne la lettura a tutti (neanche a me stesso) ma lo consiglio vivamente a chi ha una preparazione culturale all’altezza dell’ opera di un autore che, forse, è più un poeta che un narratore.
 
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