Provare a scrivere qualcosa, a libro finito, un po’ mi dispiace; sembra quasi di chiudere un cerchio che fa piacere lasciare aperto, di separarsi per sempre da un mondo magico in cui i sogni e l’immaginazione entrano in contatto diretto con la realtà, un mondo di spiriti viventi, di uomini che parlano la lingua dei gatti, di pietre dotate di enormi responsabilità, di metafore e di misteri. Per me, stupendo. Capisco che non può piacere a tutti, è un libro decisamente singolare. Affascinante, ipnotizzante l’idea di un legame soprannaturale tra fatti apparentemente indipendenti opersone che nemmeno si conoscono; l’idea (ma è solo un esempio) di una pietra che può cambiare la vita di persone lontane, collegare, in parte unire, il mondo dei vivi e quello dei morti, segnare il passaggio o meglio il mescolarsi del mondo dei sogni con quello reale. Reale, sì: perché qui, paradossalmente, tra sogni premonitori, omicidi a distanza, fantasmi sui generis, tutto si svolge su uno sfondo squisitamente “terreno”, come se capitasse qui e ora. Il concatenarsi degli eventi passati e presenti, reali e immaginari, crea un cerchio surreale, che alla fine, ovviamente in maniera adeguata al contesto, si chiude riportando ogni cosa al posto giusto, pur senza dare una vera spiegazione su come ciò è avvenuto. Sta a noi riflettere, o forse sentire. Ancora adesso, a distanza di giorni, continuo a pormi mille domande…mille cose continuano a sfuggirmi, ma è quasi piacevole vederle fuggire, è come una conferma dell’immaterialità di questa storia e del fatto che il cerchio che include me e il libro non si chiuderà mai, che me lo porterò sempre dentro.
La cultura orientale si respira nelle pagine permeate di un senso di calma ineluttabilità, assorbe e avvolge il lettore in un mondo dove tutto è possibile, nel bene e nel male. Molta importanza viene data agli spostamenti, forse intesi come crescita, e ai luoghi, quali testimoni di esperienze reali e oniriche: la foresta, il ponte, e soprattutto la biblioteca Komura, in cui avviene la formazione di Kafka. Perché questo è, forse soprattutto, un romanzo di formazione, seppur decisamente sui generis.
Notevoli, sebbene più velati che in Norwegian wood, i riferimenti alla competitività e alla spietatezza della società giapponese, soprattutto riguardo alla vita dei giovani. “Tu devi essere il quindicenne più tosto del mondo”, dice a Kafka il suo alter ego, il ragazzo chiamato Corvo.
Anche la cultura dell’autore si respira piacevolmente e arricchisce leggere i dialoghi, profondi e intelligenti, per esempio quelli tra Kafka e Oshima, sulla musica, la diversità, la vita, percepire la totale assenza di giudizio morale. Sono d’accordo con la recensione di velmez per quanto riguarda la scarsa differenza tra i modi di parlare dei vari personaggi. Kafka è decisamente troppo intelligente e parla troppo bene per la sua età, così come Nakata non sembra proprio un analfabeta. Però, leggendo, Kafka ero io, e Nakata pure.
E’ un libro che mette addosso il desiderio di scrivere lasciando libera la mente e la voce dell’inconscio che alberga in ciascuno di noi.
Scritto con uno stile semplice, raffinato, scarno e ricco allo stesso tempo.
L’opera di un genio dotato di lucida follia.
Inquietante, avvolgente, onirico, surreale, vero. Catalizzante. Non credo che lo scorderò facilmente.