Pellico, Silvio - Le mie prigioni

Meri

Viôt di viodi
Le mie prigioni è il titolo di un libro di memorie scritto da Silvio Pellico.
Si articola in un arco di tempo che va dal 13 ottobre 1820, data in cui l'autore venne arrestato a Milano per la sua adesione ai moti carbonari, al 17 settembre 1830, giorno del suo ritorno a casa.
In esso Pellico descrive la sua esperienza di detenzione prima ai Piombi di Venezia e poi nel carcere dello Spielberg accomunata a quella dell'amico Piero Maroncelli in seguito alla commutazione della condanna a morte ricevuta a detenzione in carcere duro. ( Da homespace)

Un classico che non poteva mancare nella nostra biblioteca. Letto moto tempo fa ricordo la chiarezza dello stile, ma anche la serenità dell'autore che traspariva dalle sue memorie.
 

maurizio mos

New member
Libro definito, nel Risorgimento, più importante per l'Austria di una battaglia persa, mi lascia qualche perplessità, almeno per quel che ricordo (ma l'età potrebbe giocarmi qualche scherzo).
Mi spiego: Pellico, Marroncelli & C. sono condannati a morte per tradimento e cospirazione, condanna che rientra negli standard dell'epoca (Garibaldi e Mazzini avevano avuto lo stesso trattamento dal Piemonte). Prima ancora di arrivare a Venezia la sentenza è commutata nel carcere a vita e poi ridotta ancora a vent'anni di carcere duro di cui i due e gli altri scontano solo la metà, essendo la seconda parte condonata, motu proprio, da Cecco Beppe (più o meno in quel periodo i soldati piemontesi mettono a ferro e fuoco Genova, colpevole di aver manifestato, come si direbbe oggi, contro il governo).
Al suo arrivo allo Spilberg Pellico viene accolto dal buon carceriere Shiller che, trovandolo ammalato, gli assicura che il mattino dopo verrà visitato dal medico della prigione.
Ricordo poi un brano dove Pellico descrive una domenica mattina come tante, nel corso della quale lui e gli altri cospiratori vanno liberamente a messa nella chiesetta del villaggio sottostante, dovendo rispettare solo l'orario delle donne detenute in apposita ala della fortezza prigione. E, presumo, il rientro in carcere, finita la messa.
Infine ricordo il brano nel quale Pellico e gli altri ricevono la notizia della liberazione: la notizia li sorprende, mi pare, nella cella di Pellico, dove erano solito riunirsi per parlare di politica, leggere i libri della fornita biblioteca messa su con gli annie quando vengono convocati nell'ufficio del direttore pensano si tratti di qualche noiosa pratica interna come "...l'esenzione dalla noja di qualche turno d'aria o di lavoro..."
Sarà perché sto finendo Le cinque giornate di Radetzky, basato su autentici documenti dell'epoca, di Carlo Cattaneo ad esempio, della Polizia austriaca (gestita da italiani) dello stesso Radetzky, ma mi pare che questi "mangiacrauti" come li chiamavano allora e vater Radetzky non fossero poi così cattivi.
 

elisa

Motherator
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Nel 1832 viene dato alle stampe presso l'editore Bocca di Torino Le mie prigioni, scritto da Pellico l'anno prima su consiglio del suo confessore. i Applaudito scrittore di tragedie fino al 1832, a partire da quella data Pellico inizia a essere fischiato a ogni sua apparizione pubblica. La ragione di questa diffidenza, se non di aperta ostilità, è da cercarsi nella pubblicazione de Le mie prigioni, il libro che "recò più danno all'Austria che una battaglia perduta o cento mazziniani frenetici". Tra il sospetto dei politici e il timore dei benpensanti, era nata questa raccolta di memorie, che si rivelerà decisiva per la formazione della coscienza civile degli italiani. Quella coscienza che tenterà con alterne fortune di fondere passioni civili e pietà religiosa, illuminismo e cristianesimo, e che non può mancare di riconoscere in Pellico il suo glorioso inizio.

Un libro difficile da commentare per la sua complessità religiosa e civile, vale la pena di leggerlo per comprendere come erano gli uomini coraggiosi del passato e come affrontavano le avversità e come portavano avanti il proprio pensiero con coraggio e semplicità.
 

velvet

Well-known member
Un libro che merita di essere letto sicuramente come testimonianza storica ma anche per la profondità dei sentimenti dell'autore.
Pellico ma anche molti dei suoi amici e compagni di sorte riescono ad affrontare la prigionia, l'ingiustizia, i trattamenti disumani con una calma, serenità e benevolenza incredibili e credo difficilmente osservabili ai giorni nostri. Pellico è un fervente religioso e lo diventa ancor di più durante la prigionia, ma al di là della fede cattolica, che comunque accompagna tutte le sue memorie, vi è una bendisposizione d'animo in lui, un non volersi arrendere all'odio, alla condanna degli altri nè ai lamenti e all'autocommiserazione che sono testimonianze di una grandezza d'animo non comune e anche secondo me di una forte convinzione nella giustizia dei propri principi, quelli cattolici senz'altro ma anche quelli politici risorgimentali che lo hanno portato a perdere la libertà.

più importante per l'Austria di una battaglia persa, mi lascia qualche perplessità, almeno per quel che ricordo
mi pare che questi "mangiacrauti" come li chiamavano allora e vater Radetzky non fossero poi così cattivi.

@mauriziomos: mi sa che in effetti non ricordi bene... il carcere duro allo Spielberg era duro veramente... Incatenati e vestiti di iuta, mangiavano pochissimo, non gli era permesso leggere libri e di parlare con nessuno, avevano un'oria d'aria al giorno e per alcuni periodi a giorni alterni, solo dopo tanti anni ebbero il permesso di assistere alla messa da dietro a delle grate per non parlare tra loro. Molti di loro morirono in carcere e tutti si ammalarono gravemente...
Emerge invece la bontà d'animo di diversi carcerieri (secondini, soprintendenti) che soffrivano nel vederli soffrire ma che non potevano non svolgere i loro compiti con rigore secondo quanto imposto dall'alto.
 
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