Stanotte ho sognato il tempo; era una libreria, una sorta di corridoio ospitale, come quello degli hôtel, i passi filtrati da moquette rosse, illuminato nei varî locali che si disponevano asimmetricamente rispetto alla perpendicolare del passaggio da finestre che lasciavano entrare pudicamente una luce pomeridiana, ma l’interno del corridoio non aveva aperture, bensì lampade che sbucavano dalle pareti —, luce calda e anonima. I libri erano smilzi, smagriti, insipidi come i depliant delle agenzie di viaggio o come il partito repubblicano degli Stati Uniti d’America, che non valeva neanche la pena sfogliare. Gli altri esseri umani presenti sedevano sui divani come quando si attende allegramente qualcosa, o conversavano tra loro senza fare rumore; discorsi inavvertibili, che non occorreva cogliere; pure formalità, scambi di cortesie.
Ricordo che ci sono entrato da una sorta di botola, porta in legno di mogano, che si apriva diagonalmente, che non era possibile spalancare del tutto; era possibile passarci per entrare, ma lo spazio che lasciava diveniva una sorta di triangolo scaleno se tentavi di uscire. Non c’erano gradini, né una scala. La botola era più una sorta di seminterrato presente in una hall dalle pareti bianche e dal marmo grigiochiaro, silenziosa come un mattino; in tutto il sogno, così angolare, non vi erano ombre né bujo né angoli oscuri.