Questo è un libro che ti coinvolge maledettamente o ti risulta ostico o noioso. Insomma, o lo si odia o lo sia ama. Un po' come la matematica: o la capisci o è una noia mortale studiarla. In realtà, a volte si può fare un po' di fatica e insistere un pochino di più nelle cose per poi comprenderne meglio la loro essenza. Non sto qui a raccontarvi la trama, anche perchè la trama non esiste. Compratelo e leggetelo, o prendetelo a prestito in biblioteca. Ne vale la pena: può essere che non vi piaccia, ma non è lungo, per cui la sofferenza sarà breve. Se invece vi dovesse piacere, lo riterrete uno dei libri più misteriosi mai letti. In ogni caso, lo apro e ne leggo una pagina: una città a caso oppure il dialogo finale di Kubla Kahn e Marco Polo: fenomenale! A parte che, davvero, su quei due lì ci fantastichi eccome.
Cinquantacinque gemme sfaccettate da una scrittura aerea e metafisica. Città come palcoscenici della nostra ricerca interiore, sospese sul vuoto, come Ottavia, o sottorranee, fino a non distinguere più le consuetudini dei vivi da quelle dei morti, il disegno urbanistico e quello del cosmo, riflesse come in uno specchio che duplica le immagini a perdita d'occhio o racchiuse come in un pugno all'interno di altre estensioni, di altri insiemi di costruzioni, di spazio, di tempo. Un libro emozionante, fondato su repentini rovesciamenti che lasciano stupefatto chi legge.
Lo finisci con la netta sensazione di essere stata tradita, dal momento che ne vorresti di più e di più e di più, e invece non ti viene dato. Lo finisci con la sensazione di aver viaggiato per anni e di essere ormai vecchia, stremata. Soprattutto, se come me, lo stai leggendo in viaggio, di notte, da sola, su un trenino cigolante, in un vagone in cui la luce va a intermittenza. Arrivi alla tua stazione come Marco Polo e ti dispiace di non incontrare nessun Khan.
Un libro pieno di sogni, viaggi, spiriti e creature incantate. E non te ne frega proprio niente del fatto che sia una metafora della scrittura: lo finisci e vorresti un altro treno. Un mercantile. Un veliero. Un aereo. Qualunque cosa per coprire la distanza tra te e quello che non vedrai mai.
Cinquantacinque gemme sfaccettate da una scrittura aerea e metafisica. Città come palcoscenici della nostra ricerca interiore, sospese sul vuoto, come Ottavia, o sottorranee, fino a non distinguere più le consuetudini dei vivi da quelle dei morti, il disegno urbanistico e quello del cosmo, riflesse come in uno specchio che duplica le immagini a perdita d'occhio o racchiuse come in un pugno all'interno di altre estensioni, di altri insiemi di costruzioni, di spazio, di tempo. Un libro emozionante, fondato su repentini rovesciamenti che lasciano stupefatto chi legge.
Lo finisci con la netta sensazione di essere stata tradita, dal momento che ne vorresti di più e di più e di più, e invece non ti viene dato. Lo finisci con la sensazione di aver viaggiato per anni e di essere ormai vecchia, stremata. Soprattutto, se come me, lo stai leggendo in viaggio, di notte, da sola, su un trenino cigolante, in un vagone in cui la luce va a intermittenza. Arrivi alla tua stazione come Marco Polo e ti dispiace di non incontrare nessun Khan.
Un libro pieno di sogni, viaggi, spiriti e creature incantate. E non te ne frega proprio niente del fatto che sia una metafora della scrittura: lo finisci e vorresti un altro treno. Un mercantile. Un veliero. Un aereo. Qualunque cosa per coprire la distanza tra te e quello che non vedrai mai.
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