E questo cosa significa? Non la si può pensare diversamente?
Naturlich. Ma il fatto che molti, anche tra i critici, abbiano trovato il romanzo efficace e coinvolgente significa perlomeno che non è tanto male. Non ti pare?
che tutte le allegorie ed ironie non siano ben rese; che il tutto paia artificioso...
uno sfondo costruito ‘male’, artato, artificioso, banalmente impostato.
Per me, per così dire, si toccavano con mano i ferri del mestiere: come se si scorgessero ingranaggi e costumi dietro le quinte.
Per non parlare dello stile ostentatamente piano e semplice
Qui il discorso si fa interessante secondo me; andiamo a toccare proprio i “gusti” e la cosa non è facile.
In questo romanzo Buzzati adotta uno stile semplice e sfrutta ampiamente i “ferri del mestiere” perché vuol creare un’atmosfera in certa misura “fiabesca”, come in molti dei suoi racconti.
Tu dici che qui ha esagerato, che il suo gioco è troppo scoperto, “artificioso”. In parte sono d’accordo, tanto che non ho voglia di rileggerlo. Ci sono capitoli lenti, altri dove lo stile non ha alcun sussulto e a Buzzati pare importi solo della trama (la visita di Drogo alla sua vecchia fiamma). La prosa non è scintillante d’ironia come in
Lolita, non c’è la “polifonia” dei
Promessi Sposi, né la straordinaria inventiva di
Gulliver. Insomma, non è un capolavoro.
Però la gran parte dei particolari, anche se non eccezionale, è comunque intonata all’atmosfera generale, e soprattutto ci sono delle parti assai belle. Quando Drogo e un altro ufficiale, emozionatissimi, scorgono nel deserto vaghi indizi della presenza del nemico mi pare che Buzzati riesca a renderci partecipi delle loro speranze ed illusioni, a far emergere dai soli fatti, con ironia potente e amara, tutta la loro fragilità umana, il loro nascondere dietro sogni di gloria la paura di affrontare la vita vera. O quando un altro ufficiale muore in una missione la cosa ci tocca, perché è stato capace, contrariamente a Drogo, di prendere risolutamente in mano il suo destino.
In genere la storia di Drogo scende in profondità nel cuore umano, perché svela quel malinconico e incessante lavorio con cui la nostra coscienza cerca di trovare un senso alla vita o, in questo caso, ammanta con dei pretesti le nostre incapacità. Così direi che questo romanzo, almeno alla prima lettura, emoziona, e fa riflettere.
Poi, a riprenderlo in mano, credo sconti in parte la sua atmosfera “fiabesca”, lo stile piano, la caduta della suspense ora che uno sa come va a finire, e che insomma siano da preferire alcuni dei
Racconti. Ma che sia un’opera scadente proprio no.
Kafka avrebbe potuto ambientare il tutto in una provincia meridionale della boemia dove il retaggio del diritto romano era ancora (più) forte. Così sarebbe stato banale.
Veramente nel romanzo non c’è il nome della città. Non è detto che sia Praga. Nulla vieta che sia, per esempio, proprio una città della Boemia meridionale. Né sono troppo convinto che scrivendo un romanzo così onirico Kafka avesse l’occhio a cose come “la differenza di retaggio del diritto romano tra Alta e Bassa Boemia”.
Ma io volevo dire che non si può giudicare la scelta dell’ambientazione di un’opera da sola, perché è un elemento legato a tutto il resto: così facendo quasi tutte le “location” apparirebbero banali.
Cappuccetto Rosso, come una miriade di altre fiabe, si svolge in un bosco: è un difetto questo? E’ l’insieme che va giudicato, il come l’autore riesce a rendere interessante quello scenario. Perciò ti ho chiesto di fare qualche esempio, di citare i difetti di costruzione del romanzo.
E’ banale ambientare una storia di solitudine ed alienazione in un deserto? No, se l’autore è riuscito a rendere questi sentimenti anche attraverso tale ambientazione.
Meno male che almeno su Manzoni siamo d’accordo