Pubblicato nel 1961 un anno prima del conferimento del premio Nobel e ultimo romanzo di Steinbeck, L’inverno del nostro scontento narra delle vicissitudini di Ethan Hawley.
Ultimo discendente di antica famiglia di balenieri, caduti in disgrazia per un investimento sbagliato e probabilmente perché truffati e ingannati da coloro dei quali si fidavano, il protagonista incarna lo stereotipo dell’americano medio.
Di tutto il patrimonio di famiglia gli è rimasta la tipica casa americana, di assi di legno verniciate di bianco e circondate dal tipico giardinetto, dove vive con la sua tipica famiglia americana, moglie casalinga con tempo e testa per rimpiangere una condizione migliore di vita, figli adolescenti ribelli e incomprensibili. Intorno la tipica cittadina di provincia americana dove tutti si conoscono e dove tutti si puntellano a vicenda nei loro ruoli tipici: così c’è il poliziotto che fa la guardia al paese, l’ubriacone che rappresenta la spina nel fianco e il senso di colpa del protagonista, la vamp filosofa, psicologa, strega che trastulla gli uomini sposati del paese, gli arrivisti senza scrupoli, il terrone italiano, a suo modo onesto e corretto, lo scapolone spiritoso e arguto, i fantasmi saggi e burberi antenati di famiglia.
In questa sagra di stereotipi, colpisce l’originalità di tutto il libro, che alterna dialoghi ben strutturati e vivaci a descrizioni brevi e precise tutto legato dal flusso di coscienza continuo del protagonista; è questo fiume di pensieri che ci permette di seguire puntualmente la sua trasformazione da americano fallito ad americano in cerca di riscatto spinto da coloro che lo circondano e che lo vogliono come lui, ad americano che piega le proprie convinzioni morali per ottenere questo riscatto, ad americano che si arricchisce ma alla fine capisce il prezzo di quello che ha dovuto pagare per farlo. Il completo degrado morale gli viene risparmiato quasi per un colpo di fortuna, per qualcosa di ormai indipendente dalla sua volontà.
Impossibile non immedesimarsi, impossibile non rimanere colpiti dalle domande esistenziali che ogni pagina del libro con naturalità suscita nel lettore. Impossibile anche non tifare per Ethan. Anche perché l’ordito della trama del suo gioco è così sottile che rimane sempre il dubbio della sua buona fede: la razionalità, la consequenzialità dei suoi ragionamenti quasi convincono anche noi della legittimità del suo agire, del fatto che le decisioni e le scelte nascano quasi da sole e siano ineluttabili e incoscienti. Ma quando le stesse dinamiche del comportamento di Ethan vengono riflesse come in un gioco di specchi nel comportamento del figlio, tutta l’impalcatura crolla, non solo per il protagonista, ma anche per il lettore.
Non avevo mai letto niente di questo autore, sono rimasta piacevolmente colpita dallo stile semplice e sobrio, ma estremamente efficace.
Un libro che interroga con fare garbato e “pulito” la parte più profonda di noi in cui nascono le pulsioni più meschine.
E ci lascia con una grande inquietudine addosso perché ci fa capire quanto poco conosciamo questa parte di noi e quanto poco ne siamo padroni.
Ultimo discendente di antica famiglia di balenieri, caduti in disgrazia per un investimento sbagliato e probabilmente perché truffati e ingannati da coloro dei quali si fidavano, il protagonista incarna lo stereotipo dell’americano medio.
Di tutto il patrimonio di famiglia gli è rimasta la tipica casa americana, di assi di legno verniciate di bianco e circondate dal tipico giardinetto, dove vive con la sua tipica famiglia americana, moglie casalinga con tempo e testa per rimpiangere una condizione migliore di vita, figli adolescenti ribelli e incomprensibili. Intorno la tipica cittadina di provincia americana dove tutti si conoscono e dove tutti si puntellano a vicenda nei loro ruoli tipici: così c’è il poliziotto che fa la guardia al paese, l’ubriacone che rappresenta la spina nel fianco e il senso di colpa del protagonista, la vamp filosofa, psicologa, strega che trastulla gli uomini sposati del paese, gli arrivisti senza scrupoli, il terrone italiano, a suo modo onesto e corretto, lo scapolone spiritoso e arguto, i fantasmi saggi e burberi antenati di famiglia.
In questa sagra di stereotipi, colpisce l’originalità di tutto il libro, che alterna dialoghi ben strutturati e vivaci a descrizioni brevi e precise tutto legato dal flusso di coscienza continuo del protagonista; è questo fiume di pensieri che ci permette di seguire puntualmente la sua trasformazione da americano fallito ad americano in cerca di riscatto spinto da coloro che lo circondano e che lo vogliono come lui, ad americano che piega le proprie convinzioni morali per ottenere questo riscatto, ad americano che si arricchisce ma alla fine capisce il prezzo di quello che ha dovuto pagare per farlo. Il completo degrado morale gli viene risparmiato quasi per un colpo di fortuna, per qualcosa di ormai indipendente dalla sua volontà.
Impossibile non immedesimarsi, impossibile non rimanere colpiti dalle domande esistenziali che ogni pagina del libro con naturalità suscita nel lettore. Impossibile anche non tifare per Ethan. Anche perché l’ordito della trama del suo gioco è così sottile che rimane sempre il dubbio della sua buona fede: la razionalità, la consequenzialità dei suoi ragionamenti quasi convincono anche noi della legittimità del suo agire, del fatto che le decisioni e le scelte nascano quasi da sole e siano ineluttabili e incoscienti. Ma quando le stesse dinamiche del comportamento di Ethan vengono riflesse come in un gioco di specchi nel comportamento del figlio, tutta l’impalcatura crolla, non solo per il protagonista, ma anche per il lettore.
Non avevo mai letto niente di questo autore, sono rimasta piacevolmente colpita dallo stile semplice e sobrio, ma estremamente efficace.
Un libro che interroga con fare garbato e “pulito” la parte più profonda di noi in cui nascono le pulsioni più meschine.
E ci lascia con una grande inquietudine addosso perché ci fa capire quanto poco conosciamo questa parte di noi e quanto poco ne siamo padroni.