Marìas, Javier - Domani nella battaglia pensa a me

Grantenca

Well-known member
domani nella battaglia pensa a me

Non si può dire che sia una lettura "piacevole" nel senso più lieve del termine, ma una lettura che richiede attenzione e riflessione. Effettivamente, fatto già segnalato da un altro lettore, anch'io trovo che ci sia qualcosa di pirandelliano nella libro. Bisogna però ammirare l'originaltà della storia, lo stile l'eleganza e la precisione della scrittura, la profondità dei pensieri e delle sensazioni estrernate da tutti i protagonisti, l'intreccio davvero singolare della fatti. In tempi in cui vanno per la maggiore autori di "noir" con fatti sensazionali e protagonisti invincibili, riterngo, che questo sia tra i maggiori autori letterari moderni che merita di essere letto e conosciuto. Quest'opera, da semplice lettore, penso che meriti il voto massimo.
 

pigreco

Mathematician Member
Ecco un romanzo in cui c'è tutto: un'idea interessante di partenza, uno svolgimento accattivante, riflessioni profonde e una narrazione sublime. Ho poco da aggiungere, un romanzo splendido che catalizza l'attenzione del lettore e lo arricchisce pagina dopo pagina. Numerose le citazioni letterarie e cinematografiche. Splendidi gli intrecci tra i protagonisti e gli avvenimenti, tra quel che è successo e quel che poteva succedere. Un romanzo che è anche un saggio sulla vita e sulla morte, sulla menzogna e sulla verità.

Se ce ne fosse ulteriore bisogno uno schiaffo possente a tutte le teorie secondo le quali i grandi romanzi e i capolavori non possono essere contemporanei...

Nella mia edizione c'è anche uno strepitoso epilogo con le parole che l'autore ha detto durante una premiazione letteraria: riflessioni a tutto tondo sul romanzo e sullo scrivere (e quindi anche sul leggere).
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
a pagina 100 l'ho abbandonato, lettura massacrante a dir poco, sarà pur bravo ma per me illeggibile :MUCCA
 

ayuthaya

Moderator
Membro dello Staff
È difficile scrivere qualcosa su questo libro dopo che tutti (o quasi) ne hanno già tessuto le meritate lodi, per cui comincio con la cosa più scontata, e cioè che Domani nella battaglia pensa a me entra a pieno diritto fra i miei romanzi contemporanei preferiti.
Un libro perfetto, scritto in modo impeccabile e soprattutto “compiuto”: dopo averlo concluso, si ha l'impressione (paradossale, ma il perchè di questo si capirà dopo) che tutto sia tornato al proprio posto... e viene quasi voglia di rileggerlo, perchè - alla luce delle rivelazioni contenute nelle ultime pagine – anche ciò che è venuto prima acquista un nuovo significato.
Ed è proprio qui, in questo senso perduto e poi ritrovato (ma pur sempre fittizio), che risiede la chiave di tutto (faccio i miei complimenti a Spilla e soprattutto a Dayan'el per aver colto questo aspetto e averlo espresso in modo molto efficace): a ben vedere quest'opera è tutta un ragionare sulle possibilità e i limiti della coscienza di dare un senso a una realtà altrimenti impenetrabile.

Siamo frammenti alla ricerca di un'integrità che ci è negata, tessere di un mosaico di cui non riusciamo a percepire il disegno complessivo, ma non solo... il vero dramma è che questo senso, questa “verità compiuta”, disperatamente anelata e mai raggiunta, in realtà non esiste: non abbiamo significato al di fuori di noi stessi, di ogni nostra singola parte, e se un significato c'è, è perchè noi stessi ce lo siamo attribuito - non importa se in modo arbitrario - per sfuggire al nichilismo assoluto che ci dissolverebbe...

C'è un passaggio molto bello che è un po' la chiave di svolta della vicenda: Marta sta morendo e il protagonista riflette non solo sulla caducità della vita, ma anche su tutto ciò che la vita, finendo, porta via con sè: i ricordi, le esperienze, il valore degli oggetti (“tutte le cose che mi appartengono diventano rigide, di colpo incapaci di rivelare il loro passato e la loro origine”).
Ma se ciò che eravamo lo eravamo solo in rapporto alla nostra coscienza, allora l'unico modo di sfuggire alla morte è la coscienza di qualcun altro, e qui Vìctor sente che è diventato vittima di un haunting, di un incantamento: è lui quel filo di continuità che permette a Marta (ma potrebbe essere chiunque) di dire "ancora no, ancora no" (ovvero: la mia vita non è ancora finita, ancora no)… È la responsabilità che ognuno ha nei propri confronti (ma anche nei confronti degli altri) di significare qualcosa malgrado l'assurdo dell'esistenza e il suo impietoso correre verso la fine di tutte le cose. Di riempire i vuoti, di rimettere insieme i pezzi, di lasciare una traccia.
E – ripeto – non ha alcuna importanza che questo sia o no il “significato giusto”: non ci sono metri di paragone, non esistono verità assolute. La realtà è ciò che è fuori ma anche ciò che è dentro di noi: celato dalla nostra vergogna, dalle nostre paure, dai nostri rimorsi, ma pur sempre lì, pur sempre... reale (“forse siamo fatti in egual misura di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere”).
Se quindi persino l’interpretazione che ognuno dà di se stesso è frammentaria, relativa, ingannevole, tanto più lo sarà l’idea che altri si faranno di noi... ma - e questo è il punto - è pur sempre lecita, perchè l'unica possibile. Lo sa bene Vìctor che ribadisce più volte “il mondo dipende dai suoi relatori” e ancora “sono io che racconto, quello che sta raccontando e consentirà che altri parlino”. Non importa se veniamo ingannati: “vivere nell'inganno è facile ed è la nostra condizione naturale, e in realtà questo non dovrebbe dolerci poi tanto”, ed è così, io credo che non ci debba essere amarezza in questa presa di coscienza (nel libro sicuramente non c'è), ma la serena consapevolezza che la vita, per sua natura, è già un racconto, è un “atto di interpretazione”. Forse può sembrarci poco, ma io credo sia sufficiente a offrirci quel senso che cerchiamo e di cui, nonostante tutto, non riusciamo a fare a meno.

Un libro sul valore della vita e della morte, del frammento e dell'interezza, della realtà e della finzione (letteraria e non), di ciò che viene rivelato e di ciò che serbiamo per sempre dentro di noi... un libro bellissimo.
 
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Yamanaka

Space's Skeleton
Finito ieri!
E' un romanzo molto intenso ed oscuro, dai caratteri fortemente ossessivi (anche grazie all'uso permanente del flusso di coscienza). Non riassumo la trama perchè la conoscete già dai commenti precedenti al mio e vado direttamente al succo. :)

La questione di fondo del libro è il problema dell'identità. Qual'è la "verità" di una persona, la sua totalità, si chiede l'autore (cosa che emerge molto chiaramente dal discorso della premiazione del romanzo inserito dopo il libro)?
La questione è affrontata tramite una sorta di reductio ad nihilum: ogni pensiero, ogni istante, ogni azione viene scomposto impietosamente nelle sue componenti fondamentali e nella contaminazione ineliminabile che sta alla base di ogni vissuto e ogni percezione, anche immediata.
Il protagonista Victor, si trova ad affrontare, improvvisamente, due eventi fortissimi che rompono la pellicola dello scorrere placido della vita: l'irruzione dell'assurdo e l'implosione di senso della morte.
L'incantamento, che ricorre come tema ossessivo, è proprio questo attaccamento alla necessità di ricomporre un ordine e un significato infranti irrimediabilmente.
Viktor ha, comunque, un certo gusto masochistico e schizoide nello sprofondare volontariamente nella frammentazione più totale, fino all'assurdo (l'episodio della prostituta Victoria e la visita all'ex moglie Clelia). Il processo di liquefazione investe tutto, dai lati più superficiali della vita fino a quelli più profondi (il nome).

Quello che vuole mostrare il libro è come sia impossibile ritrovare la totalità dalla semplice scomposizione ed analisi delle componenti della vita e dell'identità, infatti il libro è un sussegguirsi di inganni e parzialità: l'arte è insufficiente a cogliere la verità dell'uomo, come esemplifica il volgare Rubierrez, così come la norma sociale o il prestigio (il Solus), lo stesso racconto di quanto accaduto è un tradimento eccetera. Anche l'intenzione è parziale e ingannatoria e il mix di caos e intenzione cosciente o incosciente, fra atto e pulsione, può gettare nella disperazione e nel dubbio radicale, come esemplifica il finale. Anche il pensiero ex post è tradimento, in quanto spesso si considerano come ineluttabili e frutto del "destino" percorsi in realtà scelti, a metà con la ragione e a metà con il nero dell'incosciente e del caos. Il capitolo fondamentale che riassume questo è quello che riguarda il Solus e il suo lungo discorso, vero cardine di tutta l'opera.

L'amore è pressochè assente, se non nei suoi aspetti neri e torbidi: le relazioni descritte lungo la vicenda nascono e muoiono sotto i segni della manipolazione, l'uso, l'accumulo, l'accontentarsi di soluzioni di comodo in mutua cecità. Non c'è amore inteso come dono, conoscenza profonda di sè e dell'altro, compenetrazione armonica. Non c'è nemmeno un autentico desiderio erotico o una certa tensione, in quanto tutto è scomposto, ridotto, svilito. Ma questo è coerente con l'impianto dell'opera, che vuole proprio gettarsi nella "discarica" della coscienza e dell'esistenza fino al nero caotico completo. Non a caso il discorso che Marias ha tenuto per la premiazoine della sua opera parte parlando di Cioran, uno dei più grandi (ed interessanti) filosofi nichilisti del novecento.

Qual'è l'errore del protagonista (e la falla filosofica di tutti i personaggi) a mio parere? Ricercare il filo che rende coerente e lega ogni percorso di vita nelle sue manifestazioni, nei suoi oggetti interni ed esterni e, non trovandolo, innamorandosi del caos. In questo senso ha ragione il Solus a negare che esista un destino, inteso come necessità. In compenso esiste un destino inteso come percorso, a metà strada fra la determinazione della contingenza e la libertà dello spirito, che riflette la persona nella sua totalità, che emerge ma non è riducibile a, la manifestazione, intenzionale o meno, degli atti (interni ed esterni, quindi sia fatti che pensieri e sensazioni) che compongono un'esistenza, annullando così la dualità ineliminabile che ogni uomo porta in sè e con sè.
 

velmez

Active member
questo libro mi ha fatto provare emozioni ambivalenti: da una parte ne riconosco l'incredibile capacità stilistica (pur succedendo poco o niente, il lettore rimane incollato alle pagine!!) dall'altra mi sento di non condividere la maggior parte dei pensieri e delle azioni del protagonista... mi sembra che viva in una sorta di assurdo: le sue azioni sono bieche e spesso poco ammirevoli (qui però si trova molta originalità e lo riconosco), spesso trovo i suoi pensieri davvero surreali!!
Ad esempio (e qui spoilero):
- come può pensare di abbandonare una donna appena morta con un bambino piccolo in casa (ora, va bene che è un uomo... però!!)
- come fai ad andare a letto con la tua ex-moglie e non accorgerti se si tratta di lei o meno?????????
- non condivido l'idea che l'uomo non sopporti che i suoi cari credano sia vero qualcosa che non lo è più... a volte informarli del cambiamento è più doloroso!
- trovo piuttosto assurdo il fatto che Luisa si avvicini a Victor dopo aver scoperto che la sta pedinando... e ancora più assurdo il fatto che Victor parli di lei come sua probabile moglie (si sono appena conosciuti!!!! e lui ha abbandonato la sorella morta!!)
insomma diciamo che di questo libro boccio la storia, ma promuovo alla grande lo stile!! quindi per quel che mi riguarda si prende un 4/5!
 

Jessamine

Well-known member
Trovo estremamente difficile provare a parlare di questo romanzo, che è romanzo, sì, ma anche tanto altro.
La trama, a pensarci bene, non è molto di più di quello che si può leggere sulla quarta di copertina: Vìctor è a cena a casa di Marta, un donna sposata che però conosce appena, la quale ha un malore e muore prima che i due possano concludere la serata a letto. Resta quindi un bimbo di due anni, che vedrà il suo mondo terminae con la scomparsa di sua madre; resta un marito in viaggio di lavoro a Londra; resta una sorella minore, che un giorno sarà però maggiore di Marta; resta un padre che si aggrappa all'etichetta e alla dignità per sopravvivere al dolore. Resta infine Vìctor, incantato - haunted - da avvenimenti e personaggi in cui si è imbattuto per caso, che si trova a dover condurre il lettore attraverso riflessioni importanti e avvenimenti stranianti.
Certo, se guardassimo alla trama solo come ad un susseguirsi di eventi, eliminando la voce di Vìctor, forse ci sembrerebbe di assistere a qualche cosa di assurdo, insensato, illogico e poco reale. Eppure la voce di Vìctor (o dello stesso Marìas? Del resto, quando il protagonista si trova ad inventarsi un nome davanti ad una prostituta - Victoria, femminile di Vìctor - sceglie di farsi chiamare Javier) c'è, e non si può fare a meno di ascoltarla. E, ascoltandola, ci si rende conto che l'insensato ha ragion d'essere, che ciò che sembra assurdo è invece giustificato.
È un romanzo che parla di quel che resta: quel che resta quando qualcuno muore, quello che resta quando finzione e realtà e illusione iniziano a vacillare, a sovrapporsi e allontanarsi, a sfumare i confini e l'uomo si trova a fare i conti con quello che era e a quello che ora è. Non ci sono certezze, in questo romanzo, c'è solo tanto vuoto e un senso quasi di capogiro, che accompagna il lettore dall'inizio alla fine. Un fatto può essere terribile e ridicolo, e mille volte diverso, perché dipende dal relatore che lo espone, e a volte lo stesso fatto è diverso anche quando il relatore rimane sempre lo stesso, perché sono diversi gli ascoltatori: è quasi un ritornello che accompagna buona parte del romanzo, e il punto dell'intera opera sta forse proprio qui. Una donna, una madre, una figlia, una sorella, una moglie, un'amante muore: cosa resta, cosa cambia? È un romanzo che parla di identità e di coscienza, e di conoscenza, e di quanto e come l'essere a conoscenza di qualcosa possa cambiare la coscienza che abbiamo del mondo e di come il mondo della nostra coscienza delimiti la nostra identità. A questo proposito è emblematico il discorso finale di Deàn, il marito di Marta, che si trova ad essere terribilmente sovrapponibile a Vìctor: la conoscenza avrebbe potuto cambiare radicalmente il tono di determinati avvenimenti, la sua identità e quella delle persone che a lui si rapportano.
Un elemento fondamentale di questo romanzo, poi, è il ritmo: rythmos, un battito costante, il movimento di un'onda, gli stessi elementi che ciclicamente tornano, sempre gli stessi ma sempe diversi, perché le circostanze sono diverse, lo sguardo che li accoglie è cambiato, la luce non è più la stessa. Leggendo, mi veniva da pensare che fosse un romanzo circolare, ma a lettura ultimata mi sembra che la figura che meglio lo rappresenti sia piuttosto quella di una spirale: gli stessi elementi tornano, si sovrappongono e si modificano, costruiscono l'uno sull'altro, sembrano tornare ognuno al loro posto, ma quel posto ormai non c'è più, tutto nel frattempo è cambiato quel tanto che basta a renderlo riconoscibile ma essenzialmente diverso.
Mi è piaciuto veramente tanto, dopo un inizio faticoso (o meglio, denso, che non mi ha permesso di avanzare spedita nella lettura, ma non di non apprezzare la qualità della prosa e dei contenuti) l'ultima parte mi ha completamente rapita, ho letto le ultime ottanta sconvolgenti (e rivelatrici) pagine senza riuscire a staccarmene, saltando anche il pranzo (e vi assicuro che di solito il mio stomaco ha sempre l'ultima parola). L'amarezza, e al tempo stesso la consapevolezza che "è così che funziona davvero la vita" lasciate dalle pagine finali mi hanno completamente spiazzata e lasciata senza fiato, ma al contempo sono state la perfetta chiusura di un romanzo veramente straordinario.
Interessantissimo anche l'epilogo che ho trovato nella mia edizione, che riporta le parole dello stesso Marìas pronunciate in occasione della vittoria del premio Ròmulo Gallegos, veramente illuminanti e acute.
 
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