Per poter spiegare il modo in cui mi è piaciuto questo libro, non posso fare a meno di ripercorrere le diverse fasi del mio apprezzamento.
Partendo dal presupposto che forse non mi sarei mai decisa a leggere questo romanzo e questa autrice se non avessi trovato il titolo fra gli audiolibri a disposizione nella mia biblioteca, appena iniziato ho pensato subito che avevo fatto bene a essere reticente: non amo le ambientazioni esclusivamente familiari e, dopo qualche “pagina”, stavo già per concludere che se non altro questo libro non sarebbe mai diventato uno dei miei preferiti. Tanto più che, trattandosi di un ascolto e non di un lettura “indipendente”, non avevo la possibilità di fermarmi, tornare in dietro di qualche pagina per cercare un nome già citato e capire a chi si riferisse... nemmeno rallentare il ritmo per assimilare i diversi e numerosi personaggi.
D’altra parte ammetto che il tono intimistico usato dalla Ginzburg e (a mio avviso) ben interpretato dalla lettura di Margherita Buy, rendeva perfettamente l’idea di una madre, o una nonna magari, che racconti ai propri figli e nipoti la storia della sua famiglia, che è anche la loro: un racconto che si compone di ricordi, aneddoti, “pettegolezzi”... e soprattutto di espressioni “tipiche”, indissolubilmente legate a una determinata persona... insomma, ciò che costituisce il “lessico famigliare” grazie al quale una persona, chiunque essa sia, è "radicata" anche linguisticamente alle proprie origini.
É stato così che, se da una parte provavo una certa difficoltà a districarmi fra i tanti nomi e le tante relazioni di parentela e amicizia, dall’altra ero sempre più ammaliata da questo racconto che fin dall’inizio ho sentito appartenere a un tempo che non è più il nostro, e questa sensazione mi ha fatto persino soffrire.
Mi spiego: la severità del padre di Natalia, i suoi continui rimbrotti e rimproveri, l'autorità con cui si intrometteva nella vita della famiglia dettando le proprie rigide regole mi hanno fatto certamente pensare che è una fortuna che oggi le cose non siano più così: che si conceda libertà, che si insegni a pensare con la propria testa, che si permetta di coltivare le proprie inclinazioni e i propri interessi.
Al contrario, però, la naturalezza con cui la Ginzburg dimostra di riconoscere se stessa e la propria famiglia fino al legame con parenti anche molto lontani, magari personalmente sconosciuti ma di cui comunque ella è in grado di tracciare un ritratto quanto mai dettagliato, affidandosi solo ai racconti dei propri genitori, mi ha fatto chiaramente sentire come questa dimensione profondamente “famigliare” sia ormai quasi del tutto scomparsa. Penso alla mia di famiglia, a quella dei miei genitori, dei miei nonni... Forse questi ultimi, sì, con i loro numerosi fratelli e sorelle potevano ancora offrire a mia mamma e a mio papà una discreta quantità di “materiale” con cui imbastire le loro storie... Ma quali aneddoti legati alla mia infanzia e che coinvolgano altri personaggi potrò raccontare ai miei figli?
Non voglio essere fraintesa, non voglio fare la disfattista: le famiglie, più o meno numerose (certamente meno di una volta), ci sono ancora. Ma anche ammesso che ci siano i “numeri” e ci siano i “legami”, non siamo tutti più globalizzati? Esiste ancora, oggi, un “lessico famigliare” di cui farci eredi e custodi, che ci faccia riconoscere come facenti parte di una determinata famiglia, diversa da tutte le altre, unica e irripetibile?
Questo, paradossalmente, per farvi capire quanto e come mi sia piaciuto il romanzo della Ginzburg, che, senza voler essere (come infatti lei stessa precisa) una biografia, resta una testimonianza preziosissima di una famiglia, di un momento storico, di una posizione politica. E quale famiglia, quale momento storico, quale posizione politica.
L’altra cosa che mi è piaciuta moltissimo di questo romanzo, infatti, è stata l’aver potuto associare i ricordi, gli aneddoti, i “pettegolezzi” , le espressioni del “lessico famigliare” a personaggi che, ho scoperto, essere tutt’altro che anonimi... E, se ho riconosciuto facilmente da sola nomi come quello di Turati, Pavese, Olivetti, già con uno sforzo di memoria in più altri come Balbo o Casorati, ammetto di aver dovuto cercare su Internet i nomi della maggior parte degli altri personaggi che gravitavano intorno alla famiglia Levi: la Kuliscioff, Terni, Paglietta, Caffi, Chiaromonte, Giua... Leone Ginzburg stesso. Una carrellata davvero strepitosa di personaggi che (dovevo scoprirlo grazie a questa scrittrice? Colpa della mia immensa ignoranza...) hanno fatto la storia dell’antifascismo in Italia o che comunque hanno lasciato un’impronta spesso indelebile nella cultura del nostro Paese. Lo stesso Giuseppe Levi, il grande protagonista (insieme alla moglie Lidia, che gli fa da contraltare) di questo romanzo – lui e lei genitori di Natalia –, è stato un personaggio di enorme rilevanza nel panorama scientifico italiano. Lui che dava così facilmente degli “sempiezzi” e degli “sbrodeghezzi” a quello che facevano gli altri, lui di cui sorridiamo così spesso durante la lettura e con cui a volte ci siamo arrabbiati (io di sicuro), lui è stato uno di quei “grandi” di cui, grazie al racconto della Ginzburg, scopriamo la “banale” umanità, la “normalità”, ma, soprattutto, l’irripetibilità.