Passiamo a
La pioggia a Foggia del "nostro" Andrea DiLorenzo
Languiscono a macchie le vacche
podoliche; là, in una zolla brulla,
una rondine becca; poi si trastulla
su un viticcio cinto da bacche
– il tralcio si flette tenue come
uno stelo ceruleo -. Lì, nella brezza
frizzante, una farfalla accarezza
l’aria con le sue ali policrome.
Una nuvola plumbea smorza
l’azzurro; e un’altra ancora
e un’altra: una gazzarra di bora
rade le biche levandole con forza.
In un attimo scende la pioggia.
Le gocce picchiettano i pampini,
mille spilli palpitano gravi e argentini
sulle cimase campestri di Foggia.
E l’aria, tosto, si fa ebbra di vino…
Sotto la quercia un cane abbaia
alla rondine tardiva che, nell’aia,
rincorre un chicco polito, diasprino.
Laggiù dardeggia; da lontano
s’illuminano le vette acclive, i colli
falbi, i picchi grigio-calvi e quelli
verdi che irrorano il Gargano.
In una casa sparuta c’è un lume
acceso; un vecchio Don va mescendo
reliquie di vite in vino; poi, uscendo,
si avvolge nel suo tabarro implume.
Il tempo dirupa, così come l’Eterno
si addipana: è già sulla via della casa
primigenia. Non è certo un’attesa
beata quella di chi non paventa l’inverno.