sempre promosso dalla prima elementare alla quarta liceo, sempre seduto al primo banco, sempre attento e presente, assente solo per motivi assolutamente validi (insomma, non ho mai "bigiato" in vita mia), dopo tredici anni di successi, in quinta liceo ero stato ammesso all'esame di maturità con tutte le sufficienze.
Ancora oggi, dopo oltre trent'anni, non so spiegarmi cosa sia successo agli esami di maturità: ammetto di aver forse sbagliato il compito di matematica, ma almeno agli orali credevo di aver recuperato.
Grande fu la sorpresa quando, all'uscita dei "quadri", cercai di capire con quale voto ero stato promosso.
Fissavo la riga che riportava il mio cognome "Federici" e più in là, sulla destra, "non maturo".
"Ecco - pensavo tra di me - ho sbagliato riga"
Riprovavo, seguendo la riga con il dito: sì, era proprio il mio nome ed ero davvero stato bocciato.
I miei compagni cercavano di rincuorarmi.
Neanche loro si spiegavano come mai, quello che era sempre stato uno dei migliori della classe, fosse stato bocciato.
Ma tant'è: quello era stato deciso e niente si poteva fare per cambiare la storia.
Ripensandoci a distanza di anni, so che quella violenta "facciata" è servita a svegliarmi.
Ho smesso di essere succube dei professori, accondiscendente con gli altri, deferente con il potere ed ho iniziato la mia lotta.
L'anno dopo, ripetendo la quinta liceo, ho preso possesso dell'ultimo banco e sono diventato un contestatore, tanto, quando i professori mi interrogavano, ero sempre preparato (avevo studiato già tutto l'anno prima!).
Mia madre andava alle udienze ed i professori le dicevano "suo figlio è disattento, distratto, menefreghista; però quando lo interroghiamo, le cose le sa". Mia madre rispondeva "forse perché le aveva studiate già l'anno scorso, quando l'hanno bocciato"
All'esame di maturità, dopo un'ora avevo già terminato la prova di matematica.
Il "membro interno" (il "nostro" professore, che faceva parte della commissione esaminatrice) era l'insegnante di italiano.
Mi si avvicinò dicendo "aspetta, non andare via. Dammi il tuo compito"
E, con il mio compito in mano, vagava per l'aula dando suggerimenti e consigli ai miei compagni.
Mi sentivo orgogliosamente risarcito: quella scuola che un anno prima mi aveva miseramente bollato come immaturo, adesso pendeva dalle mia labbra (o meglio dal mio compito di matematica) sapendo che non poteva essere altro che esatto, e solo perché lo avevo fatto io.
All'esame di italiano parlai di Pirandello, di quello che per me è il suo capolavoro "Uno, nessuno e centomila".
L'anno prima ero stato bollato come incapace; ora ero il terrore del professore di matematica ed il "faro" al quale guardavano i miei compagni.
Ero stato accondiscendente con il "potere" e adesso lo combattevo in ogni sua forma.
Ero stato ligio al dovere e adesso ero il ribelle per eccellenza.
Ma, in fondo, tra le centomila sfaccettature ero sempre "uno": Paolo Federici.
Fui promosso con il quarantadue e decisi che non sarei andato all'università: non potevo più accettare che un giudice incompetente decidesse della mia vita.
Paolo
p.s.: quanto sopra è un "estratto" del primo capitolo del mio libro intitolato "de causarum actore"