Secondo molti, il film è noioso, cupo, non coinvolgente.
Io invece credo il film sia straordinariamente toccante e significativo e che tratti con toni inediti il tema di giustizia. La giustizia sociale, la giustizia umana, ma soprattutto la giustizia propria dell'ordine delle cose. Ma forse è tutto il contrario, forse la storia parla dell'ingiustizia, come elemento ineliminabile della realtà e di fronte a cui il senso di giustizia umano è totalmente impotente.
Provo ad azzardare una mia personale interpretazione della storia, prescindendo da ogni considerazione sul contenuto e significato del libro di Ammaniti, che purtroppo non ho ancora letto.
Il film racconta la storia di Rino, un giovane uomo che affronta con passione e coraggio le difficoltà dell'esistenza. Nonostante la vita non lo abbia in alcun modo agevolato e tantomeno privilegiato, Rino sembra credere ancora nella giustizia. Ma non la giustizia dei Tribunali (concetto ormai posticcio, con nostra disgrazia), ma la giustizia sostanziale, tangibile e immediata che ogni uomo avverte nel suo cuore (perciò giocoforza soggettiva) e che solo qualcuno ha il coraggio di perseguire realmente.
Il senso di giustizia di Rino si concretizza nella difesa dei più deboli (esemplare quando difende l'amico Quattro formaggi di fronte al datore di lavoro senza scrupoli e al parcheggiatore prepotente) e nella lotta per la sopravvivenza, che, nella sua personale percezione, formata nel e per il contesto sociale che lo circonda, passa prima di tutto dalla conquista del rispetto/timore altrui.
Rino è un emarginato, ma non in quanto "sbandato". Sembra quasi che la società lo abbia emarginato paradossalmente proprio perché ancora capace di credere nella giustizia fra gli uomini e di perseguirla con gesti concreti. E' significativo il trattamento che la società gli riserva: assenza di lavoro e minaccia continua di sottrargli ciò che per lui è più importante, suo figlio (nella cava, dopo averlo rimproverato, gli dice a mezza voce che se lo separeranno da lui...non finisce nemmeno la frase tanto l'eventualità lo terrorizza).
Ed è ancor più significativo che Rino, il soggetto che nella storia rappresenta il senso di giustizia umana, è un simpatizzante fascista. Quasi il messaggio fosse che in uno Stato debole, le cui istituzioni non sanno o non possono più offrire soluzioni concrete e utili per i cittadini (l'unico personaggio che rappresenta le istituzioni statali, l'assistente sociale, è interpretato da un attore solitamente comico, quasi a sottolineare la comicità e la risibilità dell'autorità statale. Geniale.) l'uomo trova un naturale rifugio in quelle ideologie che propongono gli istinti umani più primitivi e animaleschi come arma di difesa dall'ingiustizia sociale: la violenza, il razzismo, l'intolleranza. Il personaggio sembra suggerire che, nel momento in cui la collettività fallisce, ognuno agisce per sé, con i mezzi che ha a disposizione, giusti o sbagliati che siano.
La conferma di questo approccio sociale/politico è che il momento più critico per Rino è rappresentato dalla scoperta di non essere riuscito ad insegnare al figlio a "sopravvivere". "Dammi una testata" gli dice ed è il suo atto di amore incondizionato, l'accettazione del dolore e della ferita inferta, purché quel figlio impari a sopravvivere e la violenza sembra essere l'unica garanzia!
Rino conduce così la sua esistenza secondo il suo personale senso di giustizia, finché si imbatte in una costante della realtà, l'ingiustizia cronica del mondo: esemplarmente, una ragazzina, che non ha altra colpa se non l'ingenuità della sua età, vittima dell'amore malato di un poveraccio cerebralmente leso, vittima a sua volta del sistema sociale (il suo handicap deriva da un infortunio sul lavoro, che non ha mai avuto alcun riconoscimento e quindi nessun sussidio economico o aiuto medico-assistenziale: l'ennesima parabola del sistema che fallisce)è uccisa nel peggiore dei modi.
E di fronte a questa ingiustizia senza colpevoli, senza malvagi a cui poter dare un pugno o sparare in testa, Rino, che impersona il senso di giustizia racchiuso nel cuore umano, non può fare altro che morire, il solo modo coerente di cui dispone per poter negare l'ingiustizia del mondo.
Il figlio (Cristiano, un nome fortemente simbolico, che indica colui che crede o che ha bisogno di credere in qualche cosa e lui crede in suo padre, cioè nell'esistenza della giustizia umana), pur credendolo colpevole, lo protegge, lo aiuta, "pensa lui a tutto"...proprio come un cristiano di fronte all'evidenza dell'inesistenza di Dio, che tuttavia persiste nella sua fede. Cristiano non versa mai una lacrima: è solo, completamente abbandonato a se stesso all'età di 14 anni, trasporta due corpi di 80 e 50 kg rispettivamente, guida un camion, sfida i controlli stradali, chiama l'ambulanza, inventa una versione dei fatti favorevole al padre, affronta l'assistente sociale e con lui la società intera, si libera del corpo della ragazza, per cui provava qualcosa (le prime simpatie adolescenziali). Tutto questo senza mai versare una lacrima. Cristiano piange solo quando capisce di avere dubitato a torto del padre. Ha quindi dubitato della giustizia, l'unica cosa per cui vale la pena credere, come fosse un'entità religiosa. E nel momento in cui piange e si pente, proprio come una parabola, il padre/la giustizia "risorge" e "rivive".
Morale: solo la fede incondizionata nella giustizia può salvare l'uomo dalle conseguenze dell'ingiustizia del mondo??
Una bella favola, per cui vale davvero la pena piangere un pochino, al buio del cinema, mentre nessuno vede. Qualsiasi riferimento personale è puramente casuale.
Naturalmente la mia impressione è stata positiva. Salvatores è un grande! Attendo di scoprire se anche il libro propone la trama con il medesimo messaggio o se il regista la ha rielaborata.