“Dice che una volta era andato nel deserto per cercare la sua anima, e aveva scoperto che non ce l’aveva un’anima tutta sua. Dice che aveva scoperto che lui aveva solo un pezzetto di un’anima grande e grossa. Dice che il deserto non andava bene, perchè il suo pezzetto di anima non serviva a niente se non stava con tutti gli altri pezzetti, e non faceva un’anima intera. È strano che me lo ricordo. Mi pareva che manco lo stavo a sentire. Ma ora so che uno se sta da solo non serve a niente.”
Un romanzo epico, al quale mi sono accostata con fiducia (per mille motivi, uno fra tutti l'aver già letto e apprezzato Uomini e topi) ma anche con cautela, forse perché non amo particolarmente i romanzi cosiddetti "sociali". No che non li apprezzi... semplicemente, nella letteratura come nella vita, ho una predilizione per una componente più individualista, legata alla natura dell'uomo singolo o comunque dell'uomo in quanto tale, piuttosto che alla sua dimensione comunitaria. Frutto, probabilmente, anche dell'epoca in cui vivo, del benessere in cui sono cresciuta e che ha finito per farmi concentrare molto su me stessa e sulla mia individualità.
Questo romanzo, invece, ha indubbiamente un respiro "comunitario"... preferisco questo al termine "sociale", appunto perchè il "sociale" spesso si porta dietro una serie di altre cose (nobilissime), che in effetti sono presenti, ma che qui, secondo me, si integrano talmente bene con l'intrinseco valore dell'opera, che a sottolinearle troppo si finirebbe per svilire la ricchezza di quello che è prima di tutto un indiscusso capolavoro letterario. A raccontarci di questo capolavoro sono lo stile pulito, cristallino, la capacità di dar vita a personaggi che, se sono "veicolo" di qualcosa, lo sono solo dopo essere stati prima di tutto se stessi, con la semplicità e la vividezza magnificamente resi dall'uso, nei discorsi diretti, di un linguaggio essenziale e immediato. In questo senso, in questo connubio fra contenuto e resa letteraria, mi ha ricordato un altro capolavoro che è La storia della Morante.
La socialità in Furore non nasce tanto dalla denuncia politica, quanto dalla dimensione collettiva che sorge spontanea nel momento in cui la necessità, la privazione, l'irrinunciabile bisogno di mantenere integra la propria dignità di persone, spingono questa folla di diseredati a unirsi l'uno con l'altro, a superare gli egoismi individuali per acquisire, con sempre maggior consapevolezza, la dimensione del "noi" che sola può combattere l'aridità e la miseria interiore dei pochi "io" che si spartiscono la ricca California. E quel passaggio dall'io al noi è tutt'altro che semplice, tutt'altro che scontato... seguendo le tribolate vicende della famiglia Joad nel suo viaggio verso la "terra promessa", la prima sensazione è quella di un continuo e inarrestabile sgretolamento.
Mà − personaggio straordinario, ancestrale − vede i membri della sua famiglia disperdersi, uno dopo l'altro, e si rende conto che tutto sta cambiando. Non si abbatte, quello no... il suo gesto è quello di chi scuote dolorosamente il capo e... non capisce, non capisce..., per poi subito dopo rimboccarsi le maniche e ricominciare daccapo, un passo dopo l'altro, senza farsi troppe illusioni, senza andare troppo in là con l'immaginazione. Radicata a terra, Mà, la Madre Terra. In lei il superamento della dimensione individuale non scaturisce dal di fuori (come accadrà con Tom), ma è qualcosa di radicato dentro, di ancestrale appunto, sebbene si riveli e si rafforzi proprio con l’aumentare delle difficoltà e la necessità crescente, per la famiglia, di un punto di riferimento stabile, di un appiglio cui aggrapparsi per non crollare. Bellissimo il suo rapporto con la figlia, Rose of Sharon: una madre "compiuta" − tenera e forte, amorevole e irriducibile − che protegge e sostiene la figlia che sarà futura madre, e per questo deve imparare prima di tutto ad essere lei stessa roccia. E che ti credi, Rosasharn, che sei l'unica ad aver aspettato un bambino? Smettila di lamentarti e muoviti, vieni ad aiutarci.
Dall'altra parte Tom, la controparte maschile di Mà. Da una parte la forza della compassione, dall'altra quella del "furore"... a rialzare la testa non basta la miseria: serve la rabbia che nasce dalla disperazione, serve quel "Grapes of Wrath," letteralmente "l'uva dell'ira" che "negli animi degli affamati da semi sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia".
Bello che a incarnare il secondo fulcro di questo romanzo non sia "Pà", ma Tom, il figlio. La madre − perché è la Madre Terra che ci nutre, perché è alla Madre Terra che si torna − e il germoglio, perché è da lui, giovane e forte, che nascerà la nuova pianta, perché la vita continua, perché − come dice Mà alla fine − "è tutto come un fiume, che ogni tanto c’è un mulinello, ogni tanto c’è una secca, ma l’acqua continua a scorrere, va sempre dritta per la sua strada. La gente non muore mai fino in fondo. La gente continua come il fiume: magari cambia un po’, ma non finisce mai." E questo, alla fine, lo capirà anche Rose of Sharon, prima tutta racchiusa nella sua dimensione "egoistica" e del tutto naturale: una mamma che contiene e protegge il suo bambino... lui è l'unico bambino che esiste, e lei l'unica madre, fino a quando non si renderà conto anche lei che essere madre racchiude una vocazione molto più grande.... Da qui il finale, così forte, così sconvolgente, di quelli che non puoi dimenticare, sebbene non sia che uno solo dei tanti preziosi "pezzetti" che compongono questo mosaico straordinario, questo ritratto indimenticabile di Storia.