
Originariamente scritto da
Enriquez
Ciao a tutti, Eccomi con un nuovo quesito, amici miei: può il futuro costruire il passato?
Durante la presentazione del mio romanzo vedere il link, viene dibattuta la seguente teoria: Il futuro costruisce il passato e ancora: alla base dell’esistenza sta l’eccezione non la regola Ho portato l’esempio di Alessandro Campo per spiegare la mia tesi: A richiamare la sua fortuna – diverrà ricco e colto, oltre che un grande campione di equitazione - è la grande disperazione della sua prima giovinezza.
Dal Capitolo XX
All’inizio del terzo millennio, la scienza cerca il Bosone di Higgs, ancora non osservato, carica elettrica zero. Si ritiene che esso conferisca le proprietà della massa ai quark, ai leptoni e ai bosoni w e z. Con questa scoperta i fisici tentano di appurare l’eccezione, ovvero quel che accadde nell’infinitesima frazione di secondo che diede inizio all’universo.
Alla base dell’esistenza sta l’eccezione, non la regola; perché è la prima a determinare la sostanza delle cose, tanto che la vita pone i suoi percorsi nell’improbabile. È questa l’ipotesi che Carlotta avalla, perché anche la storia della sua famiglia si regge sull’eccezione.
Nel grande quadro la storia dei Campo è variegata: i Campo sono medici, navigatori, combattenti e artisti, oltre che ricchi proprietari di terre fertili. Hanno colline olivate e frutteti che si stendono a perdita d’occhio; tra Caserta e Napoli ci sono terreni che portano ancora il loro nome. Nel giro di un paio di secoli – tra guerre, carestie e altre calamità – la famiglia perde tutto; poiché le testimonianze lasciano posto ai racconti e anche quelli, ad un certo punto, possono andare perduti.
Eppure Alessandro…
Novembre 1942: Torino, piazza Vittorio Veneto
C’era la guerra e questo aggravava tutto, ma la miseria e il senso di desolazione guastavano le nozze di Alessandro.
Trasportati in cortile dai nipoti, due tavolini da notte e un cassettone stavano per diventare legna da ardere. Era stata la vecchia a deciderlo.
«Per favore, no! Non li faccia a pezzi. Potrei prenderli io quei mobili», disse a Madama Fagone.
«Guardi, signor Campo, che sono pieni di tarli, possono servire giusto per la stufa. Che cosa ne vuol fare?».
Come poteva rispondergli: “Il mobilio della mia camera da letto?”.
Stava per sposarsi; era innamorato di Caterina, felice che gli avesse detto di sì, ma non sopportava l’idea di non avere i soldi per acquistare le fedi nuziali. Nemmeno i fiori poteva comperare alla sua sposa. Sarebbe andato all’altare con i calzoni che Natalia, la futura suocera, aveva trovato tra le macerie di un palazzo.
La notte prima delle nozze l’avrebbe passata a piangere. Avrebbe montato il letto matrimoniale, un rottame rimediato da un rigattiere, e per due volte la rete si sarebbe appiattita rovinosamente sul pavimento. Non che per quel ragazzo del Sud la miseria fosse nuova. La vita, l’infanzia in particolare, era stata dura con lui.
Dal 1927 nel Casertano
Carlotta era una ragazzina, quando suo padre commissionò all’Istituto d’Araldica una ricerca sui Campo.
Tornò a casa eccitato.
Dopo aver raccolto i familiari in sala da pranzo, non senza affettazione, cominciò ad allargare sul tavolo manoscritti, albero genealogico, una copia su carta filigranata dello stemma gentilizio e qualcos’altro. Nel suo orgoglio malcelato c’era ritrosia; era come se Alessandro provasse vergogna a mostrarsi tanto sensibile alle lusinghe di quei documenti.
«Papà», gli chiese Ludovico, «posso dirlo a scuola che sono figlio di un nobile? Cosa sei, un conte o un principe come Totò?».
Il bambino senza saperlo aveva centrato la questione. Fu per vanità, e anche per contrapporre qualcosa al suo passato da indigente, che Alessandro Campo volle quelle carte; ma quanto gli era costato in denaro quell’alone da patrizio? La figlia maggiore se lo sarebbe chiesto tante volte.
«Non che papà nascondesse di essere stato povero, anzi lo diceva a tutti. Mia madre gridava: “Mettetevi a nu pizzitielliu e state cheti».
«Perché non dovevate muovervi?», gli chiedevano.
Lui sorrideva: «“Si currite alleggerite subito”, questo diceva mammà. Giocavamo», spiegava, «era naturale correre; naturale anche che ci venisse fame – diceva proprio fame, non appetito – e così ogni tanto andavamo alla madia per tagliare una fetta di pane e la forma diventava sempre più piccola. E non era nemmeno tutto», aggiungeva, «con Mussolini la scuola dell’obbligo c’era già. Non che ti venissero a prendere a casa se non frequentavi; mia sorella, che non aveva voglia di studiare, è andata solo fino alla terza elementare. Ma io no; a me piaceva. Avevo i libri dal patronato, ma non i quaderni. Quando le pagine finivano, scrivevo sulla copertina finché potevo. Sapevo che avrei dovuto piangere un giorno intero per farmene comperare un altro».
Nel “grande quadro” la “Casa di Armando” e la “ditta Gianpaolo” lampeggiano fra migliaia di configurazioni per comparare momenti differenti che riguardano le stesse persone. Si tratta di adesso assai distanti tra di loro.
Una finestra si apre nel remoto.
La seconda guerra mondiale è in pieno corso. Vige l’autarchia e la borsa nera, ma i giovani si ritagliano ugualmente qualche spazio per lo svago. Alessandro e Caterina sono in piscina. Lui non sa nuotare eppure si getta ugualmente dal trampolino perché ha bisogno di cimentarsi con se stesso ma, soprattutto, di emergere in qualche modo.
Di nuovo cono temporale intermedio.
La guerra è finita da un paio di decenni, Alessandro non è più un ragazzo e la“Gianpaolo& figli”, che si è rivelata una gallina dalle uova d’oro, ha cambiato la sua vita. Ricco abbastanza da concedersi case di proprietà, il padre di Carlotta acquista barche impegnative: cabinati a vela, da regata: oggetti costosi e difficili da condurre. Lui, che ha visto per la prima volta il mare a vent’anni, lui che non sapeva nuotare e ha rischiato di annegare nell’acqua di una piscina, avverte adesso un grande desiderio di mare; è un sentimento quest’ultimo che assomiglia alla nostalgia per un bene perduto o abbandonato contro la propria volontà.
Il quadro rimane nell’ intermedio. Alessandro, in compagnia di un amico e dei suoi figli, raggiunge per la prima volta la “Casa di Armando” una domenica di settembre. Quella, sembra una giornata qualunque, e invece…
Alla “Casa di Armando” Alessandro Campo avrebbe tenuto i suoi cavalli per nove mesi l’anno.
Sbeffeggiato, non senza una punta di orgoglio dalla moglie, il principe Sbrodoloff ― così aveva cominciato a chiamarlo Caterina da quando montava a cavallo ― partecipò a tutti i concorsi nazionali che la federazione per gli sport equestri organizzava. In un turnover tra acquisti e vendite, Campo sarebbe arrivato a possedere più di quattro cavalli da percorso a ostacoli, animali che trattava come figli, anzi con più indulgenza.
Nel piacere autentico che quello sport gli procurava c’era ― oltre all’amore per gli animali ― una buona dose di esibizionismo. Innegabile, infatti, era la vanità che muoveva il suo trotto di scuola e il suo elegante saluto alla giuria ― con quella punta malcelata di protagonismo ― che fece sorridere molti tra concorrenti e pubblico.
Eppure nascosto, invisibile, c’era ben altro.
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