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La mia vita prima.
O forse i miei guai iniziarono appunto nel 2060, quando io e Johnny combinammo tutto quel casino. Di preciso non so quale fu il momento in cui il mio destino si infilò in quel mare di pericoli e agitazione e quasi follia. Se ci fate caso non si sa mai quale sia il momento esatto in cui la vita si incastra precisamente dove non vorremmo. Quella sera io e Johnny ci trovammo a casa sua per una serata di sigarette e vino. Non so perché proprio lì e proprio in quel momento e nemmeno so perché parlammo di tutte quelle cose prive di senso. Posso solo dire che Johnny aveva smesso i suoi abiti di sempre e aveva iniziato a vestirsi con un kimono giallo e delle ciabatte verdi. A suo discapito dobbiamo dire che nel 2060 era concesso più o meno di tutto in fatto di abbigliamento.*Il mondo era diventato come una gigantesca fermata della metro londinese, nessuno faceva caso al rosa sugli uomini o al blu mischiato con l’arancio. Figurarsi se Johnny Mirtillo potesse far scalpore per un kimono giallo o per un paio di ciabatte verdi. Che, detto per inciso, indossava anche quando pioveva.
Nel 2060 avevo trentacinque anni, facevo l'insegnante e non potevo lamentarmi di nulla. Potrei dire che filava tutto liscio, soldi, casa, un po' di mutuo, una fidanzata e un lavoro normali. Bollette a parte non avevo troppi pensieri per la testa. Invece Johnny era una persona che rispetto ai canoni di cinquant'anni prima poteva essere definito un po' strano. Visto alla luce dei miei tempi posso confermare che fosse parecchio strano. Gli volevo molto bene e con lui parlavo più o meno di tutto. Con le persone un po’ fuori di testa mi sono sempre sentito a mio agio, parlo spesso con i pazzi in stazione o con gli ambulanti per strada. La normalità può anche essere rassicurante, ma dopo un po' ci si annoia a rispettare gli orari, a mangiare alle ore giuste e a leggere cose intelligenti. Forse Johnny rappresentava per me ciò che avrei voluto essere io, ma non ho mai indagato su questa cosa. Lui diceva che invece ero io ad essere una specie di faro per la sua anima e credo che ci abbia riflettuto molto a lungo, perché quando lo diceva era piuttosto serio. Era uno di quei tizi che se gli stavi simpatico si faceva in quattro per te. E io ero l'unico a stargli simpatico.
Quando affrontai per la prima volta il pensiero della morte lui era lì. Ho l’impressione che questa cosa fu parecchio importante per il nostro rapporto futuro.
Avrò avuto quattro o cinque anni ed erano i tempi in cui gli adulti stavano risistemando il mondo. Baghdad si era appena sciolta in un vento caldo, ma io vedevo Baghdad come qualcosa di lontano e non me ne preoccupavo più di tanto. Invece il fatto che il mio cane Ben smise di correre fu il trauma peggiore della mia vita. Non me l’aspettavo. Non me l'aspettavo proprio. Mia madre mi portò in giardino e mi fece vedere Ben disteso dentro una cassetta di legno. Duro, di un duro che non dimenticherò mai. E freddo, di un freddo che non aveva nulla a che vedere con il contrario del caldo, perché quello era un freddo che scottava, per così dire. Ricordo una gran confusione in testa, una specie di bomba di idee, e il fatto che mia madre fosse disperata e il fatto che Ben non sembrasse intenzionato a tornare a correre, mi diedero in pasto ad uno sconosciuto vuoto universale. Mi arrabbiai con mia madre, perché ero abituato a vederla risolvere i guai e invece se ne stava lì a piangere. Credevo che Ben fosse rotto o qualcosa del genere e invece di aggiustarlo mia madre si limitò a confermarmi che si fosse guastato. Mi spiegò che era come rotto, ma rotto per sempre, il che equivaleva a dire morto. Mi spiegò che quando uno si rompe per sempre, muore.
-Anche tu un giorno ti romperai per sempre?- le chiesi con una specie di ultima speranza disegnata in volto. In cuor mio ero ancora convinto che una cosa del genere non fosse possibile, ma preferivo sentirmelo dire.
E invece mia madre non aveva nessuna risposta da darmi e Ben era rotto e con tutta probabilità anche lei si sarebbe rotta e nessuno mi aveva preparato a quella cosa e c’erano delle lacrime che venivano da chissà dove. Corsi fuori nei campi immersi nella rugiada del primo mattino. Faceva freddo, anche se era estate e mi fermai solo quando Johnny, il bambino di due anni più grande di me con cui giocavo a fare le strade sulla ghiaia, mi si parò davanti e mi disse:
-Non ti preoccupare- . E smisi di preoccuparmi, perché i suoi occhi erano freddi e tranquilli, al contrario di quelli di mia madre che erano come palle perse nel vuoto.
Poi ci fu quella volta in cui Johnny fece esplodere un'ala della scuola perché un professore voleva interrogarmi. Non ho mai capito come fece, so solo che un pezzo dell’edificio prese fuoco. Questa cosa mi sollevò dal pesante incarico di domande e risposte, perché fu più importante uscire per strada che essere interrogati.
A parte dare fuoco alle scuole, sapeva anche leggere i libri. Mi parlava dei grandi autori francesi e dei grandi autori russi. Ricordo intere giornate, verso il 2050 o giù di lì, a leggere sotto grosse piante con lunghi rami cascanti.
Un certo giorno ci innamorammo della stessa ragazza, e quando lei decise di stare con me, Johnny rimase lì, perfettamente immobile e senza rabbia. Il fatto è che io ero più bello *di lui e certe cose le ragazze tendono a notarle. Lui era troppo alto e troppo magro, con i capelli troppo lunghi e troppo crespi. Se ne andava in giro come se avesse avuto un grosso peso sulla schiena, curvo come un vecchio senza pensieri e con due occhiali tondi che gli davano un'aria profondamente inutile. Se almeno avesse avuto gli occhi azzurri o verdi e, invece, erano di un anonimo castano spento. Johnny possedeva come un gigantesco alone di profonda bruttezza, una bruttezza che era quasi da ammirare. Ho sempre pensato che non può essere nato da un atto d’amore, ma questo non gliel’ho mai detto.
Siamo sempre stati diversi e non solo per questa cosa della bellezza. Abbiamo frequentato le stesse scuole, elementari e medie. E anche le superiori, che lui però non ha finito, perché alla terza volta che tentò di incendiare la palestra lo sospesero per tre giorni. E lui non tornò più, anche perché in quei tre giorni morirono i suoi genitori. Non aveva altri parenti, o forse li aveva ma facevano finta di niente, probabilmente nascosti nelle loro tane per paura che gli venisse affidato un ragazzo del genere.
Rispetto alla sua mania del fuoco, devo dire che bruciava solo le cose, mai piante o animali e nemmeno le persone.
Mentre lui incendiava le porte della scuola, io studiavo, ma solo perché così mi era stato detto di fare. E mentre io mi imponevo questa cosa, lui leggeva, leggeva e cresceva, cresceva e dava fuoco alle porte. Mi sono laureato a forza di studio, invece Johnny aveva i libri in mano per scelta consapevole. Io *guardavo le cose passare con gli occhi degli altri, lui le osservava con i suoi, di occhi, i quali, benché curvi e stanchi, erano suoi e solo suoi.
La sua fissazione per il fuoco allontanava le persone. La gente tendeva a evitarlo. Gli stavano alla larga quando lo vedevano uscire tra le fiamme, triste e dinoccolato. Per me invece non era un grosso problema, non mi spaventavo se lo vedevo buttare un fiammifero acceso dentro una bottiglia di alcol.
Johnny aveva un’anima bella densa. Diceva spesso cose intelligenti, anche se adesso come adesso non me ne viene in mente nemmeno una.
Io ho cominciato la carriera scolastica in una scuola superiore e lui quella del giardiniere. Dentro quella sua prima professione mise una cura infinita. Spesso guardava in silenzio le piante che soffrivano e si vedeva che un po’ soffriva con loro. Poteva guardare per ore le foglie secche di un nocciolo contorto, alla ricerca di una soluzione per farlo stare meglio. Poi diceva - ora ci penso io -, o qualcosa del genere. E accarezzava con aria compassionevole le foglie che ingiallivano. Quando trovava la soluzione si metteva all’opera e diventava complessivamente un po’ meno brutto. Con la giusta posizione, il vaso perfetto, la terra buona, salvava quasi sempre la pianta con cui aveva instaurato un rapporto di profonda amicizia. A me questo suo lato piaceva e con lui mi trovavo bene come ci si trova bene con i cani. Un giorno che fece morire un ficus per un travaso sbagliato si licenziò e cominciò a fare il killer.
Ma non fu una scelta dettata dal dolore per aver fatto morire il ficus, o qualcosa del genere. Iniziò ad uccidere perché aveva sbagliato il suo precedente lavoro, tutto qui. Rispose ad un annuncio su un giornale in cui si cercavano persone disposte a fare qualsiasi cosa. Johnny travisò l’annuncio, ma siccome letteralmente aveva ragione chi aveva fatto l’annuncio, per onestà iniziò il nuovo lavoro. E lo fece con lo stesso zelo che avrebbe messo se avesse dovuto sistemare piante o vendere frigoriferi.
Quello che voglio dire, con queste storie di piante sofferenti e scuole bruciate, è che io e Johnny ci stavamo vicini come due grandi amici che devono percorrere una strada che non porta da nessuna parte, una strada chiamata vita. Bisogna pur farsi forza, in queste condizioni, e io e Johnny ci siamo fatti forza a vicenda con grande senso di unione. Per questo ritengo di non doverlo mettere sotto accusa più di tanto se ha sparato a mia madre.