Il 14 gennaio del 1953 Tosca nacque in un posto che non esiste; una piccola frazione di un borgo occidentale dell’appenino tosco-emiliano oggi dimenticato da tutti. Da tutti tranne che da una quantità infinita di sterpaglie che si inerpicano ovunque, in modo quasi ossessivo, sulle macerie e sugli steccati consumati dal tempo.
Ma allora, negli anni ’50, la frazione contava cinque case, tutte in ottimo stato, sprofondate in una valle immensa. Un paese dal nome strano, Birutta, con un numero di abitanti che poteva triplicare o ridursi drasticamente in pochissimo tempo. Migrazioni e mortalità erano le cause più frequenti, anche se nessuno le indicizzava in alcun modo. In età adulta Tosca si ricordava di aver visto mille facce, ma non più di venti abitanti tutti in una volta.
Tosca non sapeva dire perché Birutta si chiamasse a quel modo. Tutti i nomi di tutte le frazioni attorno a Birutta avevano un significato che qualcuno, chissà chi, aveva pescato in modo istintivo, naturale. Nella conformazione del paesaggio attorno o nel tipo di terreno, tanto per dire. Esisteva il paesino di Largospiano, ad esempio, che era per l’appunto costruito su un pianoro che sembrava esser stato creato artificialmente, e invece era naturale, stranamente naturale perché intorno era tutto dossi e avvallamenti. Poi esisteva Pietragrande, un paese di otto case con al centro un enorme masso piantato lì come qualcosa da venerare. Ma Birutta aveva un nome che non aveva niente da raccontare, era una parola come un’altra, priva di significato. Anche se per Tosca fu il mondo intero, almeno per i primi sedici anni della sua vita.
La Chiesa più vicina era a sette chilometri, cinque se consideriamo quella linea retta che passava attraverso un bosco di faggi e di rovi. Ed era quello il percorso che Tosca e i suoi due fratelli dovevano compiere ogni domenica. Inverno, estate, pioggia o neve, il Signore andava riverito, pena il finire in un inferno tanto misterioso quanto terribile. Tosca sognava spesso l’inferno, anche se lo faceva in modo confusionario.
Una volta, avrà avuto quattro anni, aveva visto un quadro di alcune anime peccatrici agonizzare nude tra le fiamme. L’aveva appeso don Armando fuori dalla canonica, come monito per un’umanità corrotta e perversa. Lo sguardo di quei martiri le era rimasto talmente impresso che le capitava di sognare di essere una di loro, infilzata con lance roventi in parti del corpo sempre diverse. E si svegliava con veri bruciori, alle gambe o alle braccia, segno che qualcosa di tremendo esisteva davvero. Ma non era solo per il timore dell’inferno se Tosca andava a messa ogni domenica. Il Signore, oltre che adulato per quel che era, cioè il Creatore dei cieli e della terra, andava anche ringraziato. E andava ringraziato perché il cibo finalmente non era più un grosso problema. Non come ai tempi della guerra, per lo meno, in cui tutto era razionato e la terra era stata abbandonata dai giovani partiti soldato. Dieci anni prima si moriva di stenti e di freddo, ma adesso, grazie a Dio – proprio grazie a Lui – le cose si erano messe meglio.
Tosca non patì mai la terribile fame di chi non mangia da giorni, mentre il fratello più grande nato nel 1941, lui sì, perché nacque proprio in un periodo di fame nera. Non aveva avuto a disposizione nemmeno la giusta quantità di latte materno, perché la madre, all’epoca diciassettenne, era denutrita, spaventata e infreddolita. Poi la guerra finì, i giovani tornarono tutti quanti – Birutta non contò nemmeno un morto – e la terra tornò a essere lavorata come si deve.
Tosca mangiava soprattutto polenta, ma non solo; capitava che la madre servisse anche pomodori, lattughe e zucche. La cosa che ricordava bene è che, a parte la polenta, in casa c’erano periodi in cui si mangiavano solo pomodori, altri in cui invece solo zucche, verze o patate. L’alimentazione variava lentamente, molto lentamente, con lo stesso ritmo delle stagioni quando si è bambini, e se volevi mangiare un pomodoro a gennaio o una zucca a giugno non potevi.
I suoi incubi non riguardavano solo l’inferno. Il secondo grande, immenso, pericolo era rappresentato dal Comunismo, che lei, almeno in un primo momento, aveva capito si dicesse “consumismo”. Non che Tosca sapesse né cosa fosse il Comunismo né dove fosse l’Unione Sovietica, ma quello che invece sapeva con assoluta certezza è che erano entrambe cose da starci alla larga il più possibile. Nemmeno lo nominava, il consumismo, e se lo faceva, lo faceva a scuola con i compagni più piccoli.
«Tuo papà è un consumista!». Diceva Tosca ai piccoli di prima elementare.
Che poi le classi non erano così nettamente separate come lo sono oggi, non esistevano aule per i bambini più grandi e aule per quelli più piccoli. Si stava tutti insieme, perché di maestra ce n’era una soltanto e lei, la maestra, doveva risparmiare tempo e anche spazio, visto che pure quello non era poi così tanto.Quindi si stava tutti insieme e i grandi finivano per prendere in giro i più piccoli che facevano perdere tempo a tutti, perché non sapevano nemmeno le cose più semplici, come contare fino a dieci o leggere l’alfabeto.Quindi Tosca e gli altri grandi dicevano ai piccoli che erano dei comunisti, o dei consumisti, che era come dire “frocio” o qualche altro insulto dal significato oscuro.
Il fatto è che quando la maestra sentiva qualcuno dire “comunista” si arrabbiava, e tanto bastava per essere certi che quella fosse davvero una brutta parola. Quella cosa, così come le bestemmie, a casa Tosca non la diceva mai. Non scherziamo, signori miei, chissà cosa sarebbe successo se lo avesse fatto.E poi don Armando - proprio lui, quello che aveva appeso fuori dalla canonica il disegno dei dannati dell’inferno -, in tempo di elezione attaccava con le puntine da disegno su quello che lui chiamava con grande orgoglio “portale della chiesa”, e che in realtà non era altro che una semplice porta in mogano come tante altre , ecco, il fatto che lui attaccasse dei pezzi di carta con su scritto “vietato l’ingresso ai comunisti” rendeva il tutto più peccaminoso, ributtante. Sul peccato c’era sempre il marchio infallibile di don Armando, che aveva in nome di Dio il potere di dire ciò che era giusto e ciò che non lo era.
La Chiesa di Santa Lucia, posta a metà tra le frazioni di Birutta, Scavafosso e Scavapietra, esiste ancora oggi. I borghi sono disabitati e poi, dobbiamo dirlo, la gente a Chiesa non ci va più come una volta. Perché una volta esistevano cose come il Comunismo o l’inferno, ma le persone ormai non credono più né all’uno né all’altro. E anche la porta della Chiesa è ancora quella, solo spaccata con una lunga crepa orizzontale per i vari freddi invernali. E ci sono ancora tutti i buchi degli avvisi di don Armando, come il segno di una raffica di pallottole in guerra, testimoni del Comunismo, dell’inferno e di don Armando stesso, che giace ormai morto e sepolto nel cimitero del paese più vicino.
Ho detto che c’erano solo due cose a rendere Tosca e il fratello più piccolo di un anno, Giuseppe, attenti a quello che facevano, a quello che dicevano, a dove camminavano. Perché l’altro fratello, Gaetano, ormai di anni ne aveva sedici, diciotto, o giù di lì, e la sua vita era ben diversa. Non sembrava aver paura dell’inferno, parlava tranquillamente di Comunismo con i vecchi, beveva vino rosso, giocava a briscola e a volte bestemmiava pure il nome di nostro Signore. Tutte cose che ai piccoli erano proibite. Ma era come se gli anni che Gaetano aveva addosso gli consentissero di avere qualche super potere, come sconfiggere il diavolo in persona o parlare a Dio, a tu per tu e in malo modo. Quindi nemmeno il terzo mistero di Birutta poteva intimorire Gaetano. Cosa che invece, sia a Tosca che a Peppino - cioè suo fratello Giuseppe - metteva una certa ansia.
I folletti, piccoli esseri dispettosi che vivevano nei boschi, veloci, tanto veloci che nessuno li aveva mai visti, erano la terza tortura psicologica di Tosca e Peppino. A dire il vero la Maria, che viveva nella casa più in alto di tutte e sapeva leggere i fondi del caffè, lei, unica in tutta Birutta, li aveva visti. La Maria era una specie di strega redenta, almeno agli occhi di Tosca, con quella bruttezza, i denti marci e i capelli come stoppa secca. Non che fosse veramente cattiva, anzi, i grandi andavano da lei con molta tranquillità. E le chiedevano cose che riguardavano il futuro: i tempi per imbottigliare il vino, ad esempio, o per la mungitura, o per fare figli. Perché lei parlava direttamente con i folletti e loro, in quanto esseri misteriosi e potenti, sapevano tutto di tutti.
«Fa miga d’fiol. Gina!». Non fare figli, Gina, diceva la Maria con voce di chi la sa lunga.
«A m’la dit al folet ier sira!». Me l’ha detto il folletto ieri sera. E la Gina, obbediente, rimaneva casta e pura, che non si sa mai.
«Sa t’fe un fiol, al te nasa handicapé!». Con tutto quello che aveva da fare la Gina, ci mancava solo un figlio handicappato.
«Ve chi, Gina!». Vieni qui, Gina, diceva l’Antonio spingendola nel fienile mentre tutti ridevano.
«T’al dag mi al folet!». Te lo do io il folletto, diceva Antonio, che era pure un bel ragazzo, con tutti i muscoli scolpiti a forza di buttar giù alberi con la marassa e quegli occhi neri e gloriosi.
E la Gina giù a scappare per i prati lontano dall’abbraccio peccaminoso di Antonio. Che di rimanere incinta, lei non ci pensava minimamente, anche se l’Antonio, con quei muscoli scolpiti e quei suoi modi di fare un po’ prepotenti, un po’ scherzosi, a dirla tutta le piaceva non poco.
Visto l’aspetto della Maria, Tosca si era proprio fatta l’idea che avesse un passato oscuro, da strega nei boschi o qualcosa del genere, ma che, per qualche motivo, si era fatta con il tempo buona e santa. Ma conservava sempre uno sguardo cattivo, soprattutto quando guardava i bambini colpevoli di disturbare il suo riposo con i loro eccessivi schiamazzi. Non c’era troppo da scherzarci con la Maria, e infatti Tosca non le rivolgeva mai la parola. Anzi, non passava mai nemmeno davanti a casa sua, per lo meno non se era calato il tramonto e soprattutto mai da sola. E, se proprio capitava, filava via come un cavallo al galoppo.
Tant’è che nessuno, a parte la Maria, che aveva più o meno gli stessi poteri magici delle suore, aveva visto i folletti. Ma la sua testimonianza era prova più che sufficiente che quei piccoli esseri dispettosi esistessero davvero, che vivevano nei boschi e andavano a fare, ogni tanto, qualche scherzo a quelli di Birutta. Sempre in piena notte, quando tutti dormivano beati, oppure quando nessuno poteva vederli. Ma le prove c’erano. Ed erano anche prove dirette, tangibili, non solo quelle indirette che venivano dalle parole di Maria. Ad esempio la storia delle mucche nelle stalle era una cosa da non crederci. Di notte, perché quasi sempre di notte agiva, il folletto entrava di soppiatto nelle stalle e si divertiva a indispettire le vacche, facendogli una perfetta treccia alle code. Tosca ricordava bene gli strani muggiti notturni e ricordava bene anche le code perfettamente intrecciate che vedeva al mattino, che per disfarle suo padre ci passava tutta la giornata, bestemmiando contro i maledetti folletti.
«C’at vena ‘n cancher, folet!». Urlava il Meghen al bosco perfettamente silente.
Esseri alti mezzo metro, vestiti di rosso dalla testa ai piedi, portavano un buffo cappello a punta, così diceva la Maria che li aveva visti più e più volte. Ma la cosa che più tormentava le notti di Tosca era il fatto che i folletti, chissà perché, amavano entrare nelle case fatte con travi in ciliegio. Questo lo diceva la Maria, che in fatto di folletti era una garanzia, e la casa di Tosca era l’unica in tutta Birutta ad avere travi in ciliegio, per altro belli grossi e ben visibili.E infatti suo padre, chiamato da tutti “Meghen”, diceva che spesso veniva disturbato di notte a causa dei loro scherzi ben poco rispettosi. Ad esempio si svegliava di soprassalto, come se qualcuno lo tirasse per un braccio o lo spingesse, ma appena apriva gli occhi non vedeva niente, perché il folletto era molto più veloce della luce, figurarsi dei suoi occhi. Tosca ricordava i notturni passi dei folletti che giravano dappertutto, sotto e intorno al letto, e a volte ci saltavano persino sopra, al letto. Dio li aveva fatti nascere con un grosso buco su ciascuna mano, altrimenti avrebbero finito per uccidere qualcuno.
Il padre di Tosca, il Meghen, diceva che si svegliava nel cuore della notte sentendo mancare il respiro. Era senz’altro il folletto, il quale gli metteva la mano sulla bocca, ma per fortuna aveva questo grosso buco che faceva passare l’aria. La sensazione di annegamento durava un attimo solo e il Meghen si girava di lato protetto da Dio e dall’Angelo Custode.