I grandi capolavori dello Zingaro, talmente grandi che nessuno li legge

alessandra

Lunatic Mod
Membro dello Staff
Arrivo in ritardo...
Sorvolando su alcuni aspetti che riguardano la costruzione delle frasi e che ti sono già stati segnalati, devo dire che a me la frammentazione non dispiace, però lo trovo un po' confusionario, soprattutto nella prima parte. La terza mi è piaciuta parecchio.
Hai fantasia e mi piace il tono giocoso. L'approfondimento psicologico forse verrà da sé, anche tra le righe, se continui sui toni del 3. Nel senso che riusciremo a conoscere i personaggi seguendo i fatti. Questa è la mia opinione naturalmente :)
 

malafi

Well-known member
Questa volta l'ho letto meglio, con più attenzione. E la trama fila molto meglio, forse grazie alla maggiore attenzione, forse grazie agli interventi che hai fatto.

Devo dire che c'è molto di te in questo incipit (e dunque in quello che mi aspetto essere il prosieguo) e questo è una grande cosa. Mi dispiaceva, come mi era apparso alla prima lettura, non ritrovarti all'interno.
Mi piacciono molto:
- la vena surreale e grottesca, perchè ben mediati da altri elementi caratteritici del racconto
- la vena satirica, mai urlata e quasi tra e righe, ma molto efficace per deridere le nostre umane debolezze. Castigat ridendo mores ti si applica bene, anche se più che 'ridendo' direi che lo fai con un disincanto un po' rassegnato. E' come se tu stessi dicendo, con gli occhi di un bimbo, 'Il re è nudo'
- la vena da 'Oltre il giardino', con la quale gente (tipo il Fanatico Senza Nomeo l'addetto alle pulizie) si ritrovano a decidere quasi per caso le sorti dell'umanità

Non mi piacciono:
- il tuo smisurato ego che, anche nel romanzo, ti porta ad essere tu, e non Johnny, a farsi la f..... :mrgreen::mrgreen::mrgreen:
 

Minerva6

Monkey *MOD*
Membro dello Staff
Premetto che la prima versione non l'avevo letta e quindi mi baserò solo sul pdf che ho letto ieri.

L'ho trovato genuino, arguto, ironico e (purtroppo) molto attuale.
La fine del mondo in mondovisione (come diceva la canzone dei REM ripresa anche da Ligabue) mi sembra che in questi giorni la stiamo quasi già vivendo :paura:. Ieri sera i miei genitori stavano vedendo Il segreto, il mio compagno invece aveva il pc sul gioco di Rai Uno e c'è stata l'ennesima edizione straordinaria, se l'avessero fatta anche su Canale 5 mi sa che i miei non se ne sarebbero neppure accorti (ovviamente non è così nella mia realtà, ma è un esempio che calza a pennello proprio per collegarmi a quello che hai scritto tu).
Ci sono spesso delle ripetizioni che a qualcuno potrebbero dar fastidio, io però le ho tollerate piuttosto bene.
I personaggi principali sono interessanti ed anche quelli minori restano impressi per i loro nomi (tipo BBB e KtK)
La divisione dei continenti tra Ovest ed Est ha un richiamo orwelliano.

Una domanda ora mi preme: ma sono io fuori e non ho capito nulla oppure la confusione tra il Fanatico senza Volto e quello senza Nome c'è davvero? Insomma, sono la stessa persona? Ti sei confuso a scrivere o lo chiamavano in entrambi i nomi? Purtroppo leggo troppo velocemente e non vorrei essermi persa qualcosa :?.

E poi, il Gianni del titolo è Johnny italianizzato, vero?

Non ho badato agli errori, ma uno grammaticale l'ho notato, mi sembra che è stato ripetuto almeno due volte: hai scritto se stesso con l'accento sul sé (ma è stata di certo una svista).

Se mi viene in mente altro lo aggiungo :wink:.
 

Zingaro di Macondo

The black sheep member
Romanzo finito e completamente stravolto (ovviamente). L'ho mandato a un agente ieri, che mi farà avere una risposta tra una sessantina di giorni (o forse novanta, considerando che c'è di mezzo agosto).

Malafi; tu che hai avuto il buon cuore di leggerlo, sappi che quella versione non esiste più. Ma tienila, te la regalo, quando vincerò il Nobel per la letteratura, potrai dire di avere una copia diversa rispetto a quella che avrà venduto 100 milioni nel mondo (forse anche 120). Ci potrai fare un pacco di soldi

A chi avesse voglia di farlo, chiederei di leggere l'incipit (post successivo). Vorrei avere vostri commenti sinceri. Comprereste un libro che inizia così? Se sì perché. Se no perché. Grazie.

Non mi offenderò per eventuali critiche negative, ovviamente. La sincerità è sempre ben accetta, diversamente non avrebbe senso la mia decisione di pubblicare qui la mia roba.
 

Zingaro di Macondo

The black sheep member
Quello di mia madre fu il primo.

Fino a quel giorno, 9 agosto 2071, non avevo mai organizzato funerali.
Organizzare funerali è un po’ come organizzare matrimoni; durante i preparativi non si ha tempo per pensare allo sposo o al morto e questo, nel caso del funerale, è senz’altro una fortuna. Non avevo avuto il tempo nemmeno per piangere; c’è una quantità di cose da decidere quando si prepara un funerale che tempo per piangere non ce n’è; quali fiori scegliere, se far sotterrare il morto o metterlo in un loculo, cosa dire alla gente, organizzare la cerimonia, pensare al vestito buono, eccetera. In un certo senso organizzare funerali è un buon modo per non pensare alla morte, ma è anche molto stressante.
Alla fine decisi di farla sotterrare. Mi sembrò la scelta migliore, meglio dei loculi voglio dire, dove le bare vengono fatte scivolare dentro ai buchi scavati apposta nei muri. Non mi piaceva l’idea di mettere il corpo di mia madre in un loculo, mentre metterlo sotto terra mi sembrava più vicino al concetto di morte cristiana al quale ero stato abituato.
Pagai una cifra di tutto rispetto al necroforo. Il necroforo è il beccamorto. Scelsi la soluzione “de luxe” per il funerale di mia madre. Il beccamorto, che preferiva essere chiamato necroforo, mi fece i complimenti per la scelta. Era un ottimo professionista, molto serio anche in volto, tanto che sembrava che soffrisse anche lui, anche se credo che la sua fosse più che altro una faccia di circostanza. Non si occupò solo di coprire il corpo di mia madre con la terra, ma anche di sistemarla in modo presentabile; ad esempio accomodò tutta la parte sinistra, quella volata via a causa del proiettile, in modo molto elegante.
Un morto è molto duro nei movimenti e il necroforo alle volte deve forzare il corpo fino a rompere qualche osso se vuole sistemarlo senza pose rattrappite. Ma al morto non interessano le ossa rotte, perciò il necroforo mi chiese se poteva rompere una gamba a mia madre.
Non ricordo la mia risposta.

L’ultima visita che feci al corpo di mia madre (dita incrociate sul petto e occhio destro chiuso) fu piuttosto strana.
Era dentro una bara adagiata in seta molto costosa, una seta inclusa in quella soluzione “de luxe” che avevo scelto per lei. La mezza faccia esplosa era avvolta in un elegante foulard grigio-viola. Il foulard era legato sulla sua testa, tanto che sembrava un uovo di pasqua e ci sarebbe da ridere se non fosse che parliamo di mia madre morta in quel frangente assurdo. Il foulard non era compreso nel prezzo. Chiusero il coperchio della bara e lo saldarono. Se mia madre si fosse svegliata non avrebbe potuto aprire il coperchio della bara nemmeno volendo.
Subito dopo la saldatura cominciai a pensare a lei, a com’era morta, alle mie responsabilità e a quelle di Johnny, che non avevo idea di dove fosse finito.
E che forse aveva bisogno di parlare con qualcuno, ma io non ero con lui e questa cosa mi dispiaceva non poco.
Johnny, che di cognome faceva Mirtillo, era il mio migliore amico, mentre io mi chiamo Pepe Violenza e questa è la storia dei miei guai.
 

ariano geta

New member
Complimenti e in bocca al lupo per il miglior esito possibile :)
Come sai io sono più impaziente e ho scelto l'autopubblicazione, ti auguro una pubblicazione tramite editore con grandi soddisfazioni :wink:
 
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Ondine

Logopedista nei sogni
Ad una prima lettura mi sembra un romanzo surrealista, a cominciare dai nomi dei personaggi.
Mi sembra un romanzo che apparentemente racconta un avvenimento concreto, un funerale, ma che in profondità questo descrivere fatti in modo oggettivo voglia significare altro, mi sembra un romanzo da leggere come si guarda un'immagine attraverso uno specchio, un romanzo introspettivo.
Quando all'inizio l'ho definito un romanzo surrealista intendevo dire che questo brano postato mi è sembrato come un dipinto ricco di oggetti ma che in realtà sono simboli del pensiero dell'artista, del suo sentire, in questo caso dello scrittore certo.
Anche il modo di raccontare tragicomico è significativo, un modo per esorcizzare ciò che lo spaventa.
A me questo stile piace, l'ironia nel raccontare un evento drammatico mi piace, attento però a non estremizzare questo lato.
Ad esempio mi è sembrata un po' fuori luogo la frase:Se mia madre si fosse svegliata non avrebbe potuto aprire il coperchio della bara nemmeno volendo.
Diciamo che appesantisce un po' lo spirito "tragicamente leggero" che hai dato al romanzo.
Ho intravisto tra le righe la volontà di provocare il lettore, nessuno si aspetterebbe che un romanzo cominciasse col racconto di un funerale, della propria madre poi, la prima riga è uno schiaffo, è come un getto di acqua ghiacciata.
Ma a me questo stile velatamente provocatorio e non perbenista piace, se si sceglie questo stile però bisogna stare attenti ad ogni minimo particolare e cercare di non esagerare, provocatorio si ma con moderazione e mi sembra che l'incipit abbia rispettato questa regola, del tutto personale chiaro.
 

Zingaro di Macondo

The black sheep member
Ad una prima lettura mi sembra un romanzo surrealista, a cominciare dai nomi dei personaggi.
Mi sembra un romanzo che apparentemente racconta un avvenimento concreto, un funerale, ma che in profondità questo descrivere fatti in modo oggettivo voglia significare altro, mi sembra un romanzo da leggere come si guarda un'immagine attraverso uno specchio, un romanzo introspettivo.
Quando all'inizio l'ho definito un romanzo surrealista intendevo dire che questo brano postato mi è sembrato come un dipinto ricco di oggetti ma che in realtà sono simboli del pensiero dell'artista, del suo sentire, in questo caso dello scrittore certo.
Anche il modo di raccontare tragicomico è significativo, un modo per esorcizzare ciò che lo spaventa.
A me questo stile piace, l'ironia nel raccontare un evento drammatico mi piace, attento però a non estremizzare questo lato.
Ad esempio mi è sembrata un po' fuori luogo la frase:Se mia madre si fosse svegliata non avrebbe potuto aprire il coperchio della bara nemmeno volendo.
Diciamo che appesantisce un po' lo spirito "tragicamente leggero" che hai dato al romanzo.
Ho intravisto tra le righe la volontà di provocare il lettore, nessuno si aspetterebbe che un romanzo cominciasse col racconto di un funerale, della propria madre poi, la prima riga è uno schiaffo, è come un getto di acqua ghiacciata.
Ma a me questo stile velatamente provocatorio e non perbenista piace, se si sceglie questo stile però bisogna stare attenti ad ogni minimo particolare e cercare di non esagerare, provocatorio si ma con moderazione e mi sembra che l'incipit abbia rispettato questa regola, del tutto personale chiaro.


Grazie, cara Ondine, grazie per avermi letto.

Le tue critiche sono le stesse di altri. A volte mi faccio prendere la mano. E pensa che il lavoro più duro è stato togliere tutto ciò che estremizzava il lato "tragicomico".
 

alessandra

Lunatic Mod
Membro dello Staff
A me piace. Lo humour nero è il mio genere, se ben usato, anche quando è un po' "esagerato". La prima parte (fino ad "abituato") la trovo davvero acchiappante e ben scritta. Quella del necroforo/beccamorto l'ho trovata leggermente incasinata, più come forma che come contenuto, però poi il colpo di scena del proiettile mi ha fatto dimenticare la confusione.
Bellissima la scena del necroforo che chiede se può rompere una gamba alla madre e anche "Il foulard non era compreso nel prezzo" :mrgreen: Sono curiosa di leggere il seguito... non perderti d'animo, se anche dovessero farti rivedere alcune cose, da quel che sento in giro succede a tutti; l'importante è che il senso della storia non venga stravolto.
 

SALLY

New member
Anche a me piace, ho letto ora il romanzo precedente, che mi sembra di aver visto, non esiste più...comunque mettendo insieme i due scritti ho capito perchè la mamma di Pepe è morta con la faccia sfracellata :mrgreen:
Surreale e profetico, i fatti del mondo sono raccontati, mi sembra, in modo più satirico che umoristico...novello Pasquino :wink:
Si legge bene, stimola la curiosità del lettore....almeno la mia, ti auguro veramente di vederlo su qualche scaffale.....leggendo, mentalmente si forma una musicalità del testo, per associazione, il primo mi ricorda "amico fragile"....non so se mi sono fatta capire, vabbè..è una mia impressione. :? :mrgreen:
 

Zingaro di Macondo

The black sheep member
Dopo il grande successo del mio primo romanzo - al momento 0 copie vendute e mai pubblicato - spinto da enormi pressioni editoriali, non potevo esimermi dal cominciare il secondo.

Pubblico le prime 8 pagine che sono importantissime, essendo la vetrina del tutto.

Come sempre sarei interessato ad avere vostre opinioni, perché mangiate libri dalla mattina alla sera, per cui...a chi, se non a voi?

Dite tutto quel che vi passa per la mente, ovviamente anche critiche negative.

Grazie a tutti coloro che avranno la pazienza di dedicarmi un po' del loro tempo...:HIPP
 

Zingaro di Macondo

The black sheep member
Il cuscino del dolore

Nonostante nel 1985 fossi eccitatissimo da questa storia decisi di non scriverla e di non raccontarla a nessuno.

Ero ambizioso, vagamente prepotente e alla ricerca di una storia perfetta, ma abbandonai il progetto del libro come avevo fatto con molte altre cose prima di allora. Forse perché ero talmente presuntuoso da credere che ci fosse sempre qualcosa di meglio dietro l’angolo, convinto com’ero che la vita avanzasse spinta da misteriose forze benevoli. Avrei vinto il Nobel per la Letteratura, o almeno il Premio Strega, ed ero certo di avere tutte le carte in regola per fare una fortuna immorale scrivendo solo parole. Per ciò pensavo che una storia, benché perfetta, non fosse mai quella giusta. Ero in attesa, un’attesa che rischiava di finire come quella dell’ufficiale Drogo nel Deserto dei Tartari.La verità è che avevo diciannove anni e tutta la possibile stupidità di quegli anni. Una stupidità mista a un’incontrollabile frenesia che finì per rendermi del tutto immobile.

Posso dire con altrettanta certezza che il racconto di Lorenzo e Tosca non mi abbandonò mai, nemmeno per un momento, accompagnandomi giorno dopo giorno come fanno i pensieri che rendono l’uomo così diverso dal resto del mondo animale. Il racconto della loro esperienza mi ha reso cosciente della fortuna che ho di essere nato, non formica e non uccello, ma uomo, così capace, lui solo, di talune meraviglie.

È grazie a un comune amico se li ho conosciuti.

Ci siamo parlati per tre giorni e quasi due notti, dal 21 al 23 agosto del 1985, e la prima impressione che ebbi di Lorenzo e Tosca fu quella di una coppia che aveva smarrito la felicità di un tempo. Lei aveva uno sguardo che rifletteva qualcosa di grigio, benché i suoi giovani capelli biondi e i suoi occhi perfettamente azzurri comunicassero l’esatto contrario. Era come vedere una persona stare male per una storia lontana, rosa da un senso di colpa che capii a fondo solo al termine della nostra lunghissima chiacchierata. Avevano entrambi trentadue anni, anche se Lorenzo era più giovane di lei di sette mesi. Pure lui sembrava avere qualcosa di sospeso, di indefinito, sia nello sguardo che nel modo di parlare, come un grosso alone di malinconia che si muoveva in sincrono con la sua persona. Erano belli, attraenti, alti e sicuri di loro. Lorenzo era moro con un leggero accenno di stempiatura che lo rendeva ancora più interessante.

Il nostro amico comune ci aveva fissato un appuntamento in un bar di Bologna, un antico pastificio incastrato tra le vecchie case del vecchio mercato della città, quello del cosiddetto “vecchio quadrilatero”. Non era un mercato in senso stretto, piuttosto una zona di belle stradine medioevali, piena di negozi per lo più alimentari. Me ne stavo seduto a un tavolino all’aperto, da solo e in trepida attesa. Ero arrivato con almeno mezz’ora di anticipo e guardavo i pochi lavoratori attivi in quel periodo dell’anno godersi una strana brezza dal retrogusto di salsedine e aceto. Alcuni erano seduti sui gradini delle scale, altri sulle sedie messe a fianco delle loro bancarelle. La sensazione era quella di una provincia svuotata dalla calca dei mesi normali. In quel momento Bologna era di una bellezza particolare; sembrava una piccola città con il gusto delle cose grandi, come un intellettuale che ha passato la vita su grossi tomi di filosofia e che finalmente si gode qualche pagina della Gazzetta dello Sport.

Nonostante il mese di agosto non invitasse a contatti calorosi, li vidi arrivare vincolati in uno stretto abbraccio. Non ebbi alcuna difficoltà a riconoscerli. Matteo, il nostro amico comune, me li aveva descritti come una coppia affiatata e quella che vedevo arrivare era in effetti il ritratto dell’amore disinvolto. Lorenzo spiccava nel suo metro e ottantacinque, a maggior ragione nel mercato semi vuoto, mentre di Tosca notai subito il fascino e l’eleganza di stile nordico. Per la verità la sua era una bellezza un po’ insipida, qualcosa di già visto molte altre volte nelle varie copertine di moda, ma al tempo stesso il suo sorriso rassicurante era lì a dimostrare che c’era anche qualcos’altro, oltre il suo bel viso patinato.La descrizione che avevo ricevuto della coppia era perfetta e, probabilmente, altrettanto precise erano le informazioni che loro avevano avuto sul mio conto; si presentarono senza esitazione come gli “amici di Matteo”.

Dai loro modi eccessivamente gentili emerse una punta di malinconia. Probabilmente il fatto di sapere già la loro storia mi faceva analizzare, più o meno inconsciamente, i loro gesti e i loro modi con quel tocco di pregiudizio tipico delle persone presuntuose. Non potevo essere obiettivo, non a quell’età e non con il mio carattere per lo meno. Quando vidi Tosca prendersi le mani tra le mani e abbassare lo sguardo alle prime parole di Lorenzo – il quale mi stava semplicemente dicendo che il caldo di quel giorno non era così asfissiante come quello dei giorni precedenti - pensai di aver già capito il loro dolore, sia quello che mi avrebbero raccontato, sia quello che sarebbe rimasto inevitabilmente celato dal non detto. Ero già pronto a scrivere il best seller del secolo.

Al termine di quel caffè, con le casette decolorate dal sole estivo che si facevano sempre più rossicce a mano a mano che il giorno si spegneva, Lorenzo mi chiese di ritrovarci per parlare della loro vicenda in modo più approfondito. In quella mezz’ora, benché mi avessero confermato che la storia che Matteo mi aveva accennato fosse assolutamente vera, avevamo semplicemente rotto il ghiaccio parlando del più e del meno. Nessuno di noi tre era del tutto pronto: io non volevo ancora fare domande che avrebbero necessitato l’intimità degli amici di vecchia data e loro non erano pronti a svelarsi così tanto. La confidenza va guadagnata, richiesta con garbo, per cui lasciai passare una settimana senza nessun pensiero fisso, se non quello di intraprendere gli studi universitari. La mia intenzione era quella di dar loro il tempo necessario per decidere se davvero volevano rendere pubblica una storia così intima.

Fu Tosca a richiamarmi. Lo fece dopo qualche giorno chiedendomi se mi andava di andare a cena da loro. Mi presentai la sera stessa con un libro per ciascuno: una piccola Bibbia storica per lei e una raccolta di scritti di Gramsci per lui. Volevo che capissero che la loro vita precedente, per quanto mi riguardava, non aveva nulla di macabro o oscuro. Era qualcosa di cui non solo si poteva, ma si doveva parlare. Promisi che i loro veri nomi sarebbero spariti, tant’è che non si chiamano né Lorenzo né Tosca.Come quella del bar, anche quella sera servì quasi esclusivamente a sciogliere la tensione. Il vino e il cognac del dopo cena diedero in tal senso il loro contributo. Era stato Lorenzo a cucinare. Era sempre lui a occuparsi del cibo, Tosca ci teneva che lo sapessi e, mentre me lo comunicava, guardava il marito con fare malizioso. Lui le restituì un piccolo sorriso.

«Le rivoluzionarie non cucinano, nemmeno quando si fanno mezze suore. È così per tutte quante». Disse Lorenzo.

«Quante ex rivoluzionarie mezze suore conosci?». Chiese Tosca fingendosi gelosa.

Ci mettemmo tutti a ridere.

Parlammo di calcio; erano entrambi tifosi del Bologna. Al termine di quella stagione, la squadra della loro città era tornata in serie B vincendo nettamente un campionato dominato dall’inizio alla fine. Lorenzo mi disse che avevano perso solo a Prato, una gran brutta partita, sottolineò Tosca.

«E non è finita qui». Lorenzo disse che la società aveva fatto una grande squadra ed erano fiduciosi per un pronto ritorno in serie A.

Tosca prese una sciarpa del Bologna e me la mise al collo.Verso mezzanotte lei mi informò che c’era una camera per gli ospiti pronta per me, dovevo solo volerlo. Lorenzo aggiunse che erano entrambi in ferie fino a fine mese e che potevo rimanere finché non mi avessero raccontato tutta la storia. Loro per primi non volevano spezzare il filo del racconto. Ovviamente accettai l’invito, ma nessuno di noi, quella notte, andò a riposare.

Quello che segue è il racconto della loro storia, nulla è stato tolto, aggiunto o alterato, tranne i nomi delle persone coinvolte, le cariche politiche ricoperte da Lorenzo e i luoghi del racconto. Questi ultimi alle volte non menzionati o dai nomi inventati. Più o meno.









 
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Zingaro di Macondo

The black sheep member
Il 14 gennaio del 1953 Tosca nacque in un posto che non esiste; una piccola frazione di un borgo occidentale dell’appenino tosco-emiliano oggi dimenticato da tutti. Da tutti tranne che da una quantità infinita di sterpaglie che si inerpicano ovunque, in modo quasi ossessivo, sulle macerie e sugli steccati consumati dal tempo.

Ma allora, negli anni ’50, la frazione contava cinque case, tutte in ottimo stato, sprofondate in una valle immensa. Un paese dal nome strano, Birutta, con un numero di abitanti che poteva triplicare o ridursi drasticamente in pochissimo tempo. Migrazioni e mortalità erano le cause più frequenti, anche se nessuno le indicizzava in alcun modo. In età adulta Tosca si ricordava di aver visto mille facce, ma non più di venti abitanti tutti in una volta.

Tosca non sapeva dire perché Birutta si chiamasse a quel modo. Tutti i nomi di tutte le frazioni attorno a Birutta avevano un significato che qualcuno, chissà chi, aveva pescato in modo istintivo, naturale. Nella conformazione del paesaggio attorno o nel tipo di terreno, tanto per dire. Esisteva il paesino di Largospiano, ad esempio, che era per l’appunto costruito su un pianoro che sembrava esser stato creato artificialmente, e invece era naturale, stranamente naturale perché intorno era tutto dossi e avvallamenti. Poi esisteva Pietragrande, un paese di otto case con al centro un enorme masso piantato lì come qualcosa da venerare. Ma Birutta aveva un nome che non aveva niente da raccontare, era una parola come un’altra, priva di significato. Anche se per Tosca fu il mondo intero, almeno per i primi sedici anni della sua vita.

La Chiesa più vicina era a sette chilometri, cinque se consideriamo quella linea retta che passava attraverso un bosco di faggi e di rovi. Ed era quello il percorso che Tosca e i suoi due fratelli dovevano compiere ogni domenica. Inverno, estate, pioggia o neve, il Signore andava riverito, pena il finire in un inferno tanto misterioso quanto terribile. Tosca sognava spesso l’inferno, anche se lo faceva in modo confusionario.

Una volta, avrà avuto quattro anni, aveva visto un quadro di alcune anime peccatrici agonizzare nude tra le fiamme. L’aveva appeso don Armando fuori dalla canonica, come monito per un’umanità corrotta e perversa. Lo sguardo di quei martiri le era rimasto talmente impresso che le capitava di sognare di essere una di loro, infilzata con lance roventi in parti del corpo sempre diverse. E si svegliava con veri bruciori, alle gambe o alle braccia, segno che qualcosa di tremendo esisteva davvero. Ma non era solo per il timore dell’inferno se Tosca andava a messa ogni domenica. Il Signore, oltre che adulato per quel che era, cioè il Creatore dei cieli e della terra, andava anche ringraziato. E andava ringraziato perché il cibo finalmente non era più un grosso problema. Non come ai tempi della guerra, per lo meno, in cui tutto era razionato e la terra era stata abbandonata dai giovani partiti soldato. Dieci anni prima si moriva di stenti e di freddo, ma adesso, grazie a Dio – proprio grazie a Lui – le cose si erano messe meglio.

Tosca non patì mai la terribile fame di chi non mangia da giorni, mentre il fratello più grande nato nel 1941, lui sì, perché nacque proprio in un periodo di fame nera. Non aveva avuto a disposizione nemmeno la giusta quantità di latte materno, perché la madre, all’epoca diciassettenne, era denutrita, spaventata e infreddolita.
Poi la guerra finì, i giovani tornarono tutti quanti – Birutta non contò nemmeno un morto – e la terra tornò a essere lavorata come si deve.

Tosca mangiava soprattutto polenta, ma non solo; capitava che la madre servisse anche pomodori, lattughe e zucche. La cosa che ricordava bene è che, a parte la polenta, in casa c’erano periodi in cui si mangiavano solo pomodori, altri in cui invece solo zucche, verze o patate. L’alimentazione variava lentamente, molto lentamente, con lo stesso ritmo delle stagioni quando si è bambini, e se volevi mangiare un pomodoro a gennaio o una zucca a giugno non potevi.

I suoi incubi non riguardavano solo l’inferno. Il secondo grande, immenso, pericolo era rappresentato dal Comunismo, che lei, almeno in un primo momento, aveva capito si dicesse “consumismo”. Non che Tosca sapesse né cosa fosse il Comunismo né dove fosse l’Unione Sovietica, ma quello che invece sapeva con assoluta certezza è che erano entrambe cose da starci alla larga il più possibile. Nemmeno lo nominava, il consumismo, e se lo faceva, lo faceva a scuola con i compagni più piccoli.

«Tuo papà è un consumista!». Diceva Tosca ai piccoli di prima elementare.

Che poi le classi non erano così nettamente separate come lo sono oggi, non esistevano aule per i bambini più grandi e aule per quelli più piccoli. Si stava tutti insieme, perché di maestra ce n’era una soltanto e lei, la maestra, doveva risparmiare tempo e anche spazio, visto che pure quello non era poi così tanto.
Quindi si stava tutti insieme e i grandi finivano per prendere in giro i più piccoli che facevano perdere tempo a tutti, perché non sapevano nemmeno le cose più semplici, come contare fino a dieci o leggere l’alfabeto.Quindi Tosca e gli altri grandi dicevano ai piccoli che erano dei comunisti, o dei consumisti, che era come dire “frocio” o qualche altro insulto dal significato oscuro.

Il fatto è che quando la maestra sentiva qualcuno dire “comunista” si arrabbiava, e tanto bastava per essere certi che quella fosse davvero una brutta parola. Quella cosa, così come le bestemmie, a casa Tosca non la diceva mai. Non scherziamo, signori miei, chissà cosa sarebbe successo se lo avesse fatto.E poi don Armando - proprio lui, quello che aveva appeso fuori dalla canonica il disegno dei dannati dell’inferno -, in tempo di elezione attaccava con le puntine da disegno su quello che lui chiamava con grande orgoglio “portale della chiesa”, e che in realtà non era altro che una semplice porta in mogano come tante altre , ecco, il fatto che lui attaccasse dei pezzi di carta con su scritto “vietato l’ingresso ai comunisti” rendeva il tutto più peccaminoso, ributtante. Sul peccato c’era sempre il marchio infallibile di don Armando, che aveva in nome di Dio il potere di dire ciò che era giusto e ciò che non lo era.

La Chiesa di Santa Lucia, posta a metà tra le frazioni di Birutta, Scavafosso e Scavapietra, esiste ancora oggi. I borghi sono disabitati e poi, dobbiamo dirlo, la gente a Chiesa non ci va più come una volta. Perché una volta esistevano cose come il Comunismo o l’inferno, ma le persone ormai non credono più né all’uno né all’altro. E anche la porta della Chiesa è ancora quella, solo spaccata con una lunga crepa orizzontale per i vari freddi invernali. E ci sono ancora tutti i buchi degli avvisi di don Armando, come il segno di una raffica di pallottole in guerra, testimoni del Comunismo, dell’inferno e di don Armando stesso, che giace ormai morto e sepolto nel cimitero del paese più vicino.

Ho detto che c’erano solo due cose a rendere Tosca e il fratello più piccolo di un anno, Giuseppe, attenti a quello che facevano, a quello che dicevano, a dove camminavano. Perché l’altro fratello, Gaetano, ormai di anni ne aveva sedici, diciotto, o giù di lì, e la sua vita era ben diversa. Non sembrava aver paura dell’inferno, parlava tranquillamente di Comunismo con i vecchi, beveva vino rosso, giocava a briscola e a volte bestemmiava pure il nome di nostro Signore. Tutte cose che ai piccoli erano proibite. Ma era come se gli anni che Gaetano aveva addosso gli consentissero di avere qualche super potere, come sconfiggere il diavolo in persona o parlare a Dio, a tu per tu e in malo modo. Quindi nemmeno il terzo mistero di Birutta poteva intimorire Gaetano. Cosa che invece, sia a Tosca che a Peppino - cioè suo fratello Giuseppe - metteva una certa ansia.

I folletti, piccoli esseri dispettosi che vivevano nei boschi, veloci, tanto veloci che nessuno li aveva mai visti, erano la terza tortura psicologica di Tosca e Peppino. A dire il vero la Maria, che viveva nella casa più in alto di tutte e sapeva leggere i fondi del caffè, lei, unica in tutta Birutta, li aveva visti. La Maria era una specie di strega redenta, almeno agli occhi di Tosca, con quella bruttezza, i denti marci e i capelli come stoppa secca. Non che fosse veramente cattiva, anzi, i grandi andavano da lei con molta tranquillità. E le chiedevano cose che riguardavano il futuro: i tempi per imbottigliare il vino, ad esempio, o per la mungitura, o per fare figli. Perché lei parlava direttamente con i folletti e loro, in quanto esseri misteriosi e potenti, sapevano tutto di tutti.

«Fa miga d’fiol. Gina!». Non fare figli, Gina, diceva la Maria con voce di chi la sa lunga.

«A m’la dit al folet ier sira!». Me l’ha detto il folletto ieri sera. E la Gina, obbediente, rimaneva casta e pura, che non si sa mai.

«Sa t’fe un fiol, al te nasa handicapé!». Con tutto quello che aveva da fare la Gina, ci mancava solo un figlio handicappato.

«Ve chi, Gina!». Vieni qui, Gina, diceva l’Antonio spingendola nel fienile mentre tutti ridevano.

«T’al dag mi al folet!». Te lo do io il folletto, diceva Antonio, che era pure un bel ragazzo, con tutti i muscoli scolpiti a forza di buttar giù alberi con la marassa e quegli occhi neri e gloriosi.

E la Gina giù a scappare per i prati lontano dall’abbraccio peccaminoso di Antonio. Che di rimanere incinta, lei non ci pensava minimamente, anche se l’Antonio, con quei muscoli scolpiti e quei suoi modi di fare un po’ prepotenti, un po’ scherzosi, a dirla tutta le piaceva non poco.

Visto l’aspetto della Maria, Tosca si era proprio fatta l’idea che avesse un passato oscuro, da strega nei boschi o qualcosa del genere, ma che, per qualche motivo, si era fatta con il tempo buona e santa. Ma conservava sempre uno sguardo cattivo, soprattutto quando guardava i bambini colpevoli di disturbare il suo riposo con i loro eccessivi schiamazzi. Non c’era troppo da scherzarci con la Maria, e infatti Tosca non le rivolgeva mai la parola. Anzi, non passava mai nemmeno davanti a casa sua, per lo meno non se era calato il tramonto e soprattutto mai da sola. E, se proprio capitava, filava via come un cavallo al galoppo.

Tant’è che nessuno, a parte la Maria, che aveva più o meno gli stessi poteri magici delle suore, aveva visto i folletti. Ma la sua testimonianza era prova più che sufficiente che quei piccoli esseri dispettosi esistessero davvero, che vivevano nei boschi e andavano a fare, ogni tanto, qualche scherzo a quelli di Birutta. Sempre in piena notte, quando tutti dormivano beati, oppure quando nessuno poteva vederli. Ma le prove c’erano. Ed erano anche prove dirette, tangibili, non solo quelle indirette che venivano dalle parole di Maria. Ad esempio la storia delle mucche nelle stalle era una cosa da non crederci. Di notte, perché quasi sempre di notte agiva, il folletto entrava di soppiatto nelle stalle e si divertiva a indispettire le vacche, facendogli una perfetta treccia alle code. Tosca ricordava bene gli strani muggiti notturni e ricordava bene anche le code perfettamente intrecciate che vedeva al mattino, che per disfarle suo padre ci passava tutta la giornata, bestemmiando contro i maledetti folletti.

«C’at vena ‘n cancher, folet!». Urlava il Meghen al bosco perfettamente silente.

Esseri alti mezzo metro, vestiti di rosso dalla testa ai piedi, portavano un buffo cappello a punta, così diceva la Maria che li aveva visti più e più volte. Ma la cosa che più tormentava le notti di Tosca era il fatto che i folletti, chissà perché, amavano entrare nelle case fatte con travi in ciliegio. Questo lo diceva la Maria, che in fatto di folletti era una garanzia, e la casa di Tosca era l’unica in tutta Birutta ad avere travi in ciliegio, per altro belli grossi e ben visibili.E infatti suo padre, chiamato da tutti “Meghen”, diceva che spesso veniva disturbato di notte a causa dei loro scherzi ben poco rispettosi. Ad esempio si svegliava di soprassalto, come se qualcuno lo tirasse per un braccio o lo spingesse, ma appena apriva gli occhi non vedeva niente, perché il folletto era molto più veloce della luce, figurarsi dei suoi occhi. Tosca ricordava i notturni passi dei folletti che giravano dappertutto, sotto e intorno al letto, e a volte ci saltavano persino sopra, al letto. Dio li aveva fatti nascere con un grosso buco su ciascuna mano, altrimenti avrebbero finito per uccidere qualcuno.

Il padre di Tosca, il Meghen, diceva che si svegliava nel cuore della notte sentendo mancare il respiro. Era senz’altro il folletto, il quale gli metteva la mano sulla bocca, ma per fortuna aveva questo grosso buco che faceva passare l’aria.
La sensazione di annegamento durava un attimo solo e il Meghen si girava di lato protetto da Dio e dall’Angelo Custode.
 
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Ondine

Logopedista nei sogni
Felicissima di leggere che ti stai cimentando in un nuovo romanzo.
Leggerò le tue pagine perché sono molto curiosa ma prima vorrei chiederti se ti aspetti un commento unico per tutte e otto le pagine oppure un commento per ogni pagina.
 

Zingaro di Macondo

The black sheep member
Felicissima di leggere che ti stai cimentando in un nuovo romanzo.
Leggerò le tue pagine perché sono molto curiosa ma prima vorrei chiederti se ti aspetti un commento unico per tutte e otto le pagine oppure un commento per ogni pagina.
Grazie mille carissima!

Direi unico, assolutamente, altrimenti diventi matta.

Mi raccomando sincera nei consigli.

Grazie ancora.
 

malafi

Well-known member
Ziggy, a parte alcune cose che mi stonano durante la lettura (ma sono dettagli, dunque è prematuro) mi è venuta da chiedermi la seguente cosa alla fine della lettura: ma perchè mai Tosca, che immagino che debba raccontare una vicenda della sua età adulta da quel che si capisce, dovrebbe raccontare alo scrittore particolari così di dettaglio della sua infanzia?

Perchè hanno una rilevanza nella sua formazione e dunque nella vicenda?
Perchè si è instaurata una tale fiducia tra lei e lo scrittore che le viene da riversare tutto senza freni in una specie di trance?
Oppure è una domanda che non mi devo porre (sono iperrazionale?) e quella di Tosca che narra alo scrittore è solo un pretesto per raccontare l'intera sua vita e rendere interessante il romanzo?

Mi è piaciuto molto come hai reso il feeling che si è creato tra la coppia e lo scrittore.
Inoltre - ma questo già lo sai - trovo che ambientare il racconto in location a te care e che ti generano emozioni dia molta più forza al tuo scritto.
 
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