Ancor prima di arrivare alla fine di questo romanzo mi sono chiesta per quale misterioso motivo io mi sia decisa così tardi a leggerlo, avendo fra l’altro già fatto esperienza de La storia, uno dei libri più belli che abbia mai letto e che, anche quella volta, chissà perchè, ha atteso parecchio prima di finire fra le mie mani.
L’isola di Arturo è un romanzo bellissimo, che pur non eguagliando La storia, non può non entrare nel cuore.
Tante volte mi ha fatto vagare con la mente questo titolo... se il protagonista è Arturo, perchè l’isola è così importante?
“L’isola” non è solo l’isola di Procida, comunque esplicita, luminosa e straordinaria coprotagonista. L’asprezza dei suoi paesaggi, la sua condizione di naturale confinamento – accentuata dall’essere, come ammette Arturo stesso, un’isola poco conosciuta e battuta rispetto alla vicina Ischia –, il mare che rappresenta insieme un limite e una promessa, l’alone di mistero collegato alla presenza del castello di Torre Murata, ovvero il penitenziario, ne fanno sicuramente un luogo magico, con il quale Arturo instaura una simbiosi profonda, fisica. “L’isola meravigliosa, regno di Arturo, domina la scena.”
Per estensione, quindi, l’isola rappresenta anche il mondo spirituale in cui Arturo è nato e cresciuto e, quindi, tutta la sua fanciullezza. Abbandonare l’isola significherà per il giovane abbandonare un pezzo della sua vita, quello più importante, ma anche quello che gli ha portato le delusioni più cocenti. Ma di questo rompersi dell’“incanto” dell’infanzia – comune a tutti ragazzi e ancor più tragico per il protagonista, cresciuto senza madre e con un padre assente, che lui idealizza fino alla cieca adorazione – non ne riceviamo una percezione amara. L’Arturo che ci racconta la sua storia, quando ormai tutto è finito, presumibilmente da adulto, non è infatti un disilluso, un uomo indurito, anzi.
“L'isola di Arturo è il romanzo di un incanto, del felice gioco segreto della reinvenzione infantile del mondo e del suo infrangersi contro lo scoglio improvviso della maturità, della realtà. Arturo parla in prima persona, eppure la lingua in sui è scritta l’opera non è il calco della lingua di un ragazzo (...), (è) una lingua che racconta la vita di Arturo, le sue invenzioni, i suoi ardimenti, le sue scoperte, le sue miracolose ingenuità, ma le indica con tenerezza, come dall’alto, da un altro tempo, da un altrove. (...) ... uno sguardo incantato e intenerito come di qualcuno ormai cresciuto che guarda se stesso, o come se a raccontare fosse una creatura fantastica, una chimera, che è figlio e madre insieme. Questo sguardo è capace di raccontarci, quasi in un solo movimento, l’incanto e la scabra realtà che nasconde, ma mai, in tutta l’opera di Elsa Morante, come qui ne L’isola di Arturo, fra i due vince l’incanto. Esplode con una gioia narrativa che non tornerà un’idea dell’infanzia capace di nutrirsi di tutto: di libri, di esperienze, di animali, di piante, persino di morti e di assenze, per costruire, a dispetto degli adulti e del loro abbandono, un modo meraviglioso di stare al mondo: iperbolico, vitale, senza limiti, che ha una soglia però terribile nell’età adulta, che spazza via tutto e lascia solo l’arsura o la morte.”
Troppo belle e significative sono queste parole, tratte dall’introduzione di Carola Susani alla mia edizione in audiolibro, per non riportarle integralmente.
“L’incantesimo agisce per davvero e crediamo ad Arturo quanto lui ci crede. La concretezza vitale del mondo naturale sostiene lo sforzo di trasfigurazione della realtà.”
Ecco, “l’isola” del titolo è il luogo di questa straordinaria trasfigurazione e noi ne veniamo pienamente coinvolti: ci dimentichiamo che questo ragazzo di fatto è un selvatico, abbandonato a se stesso, che ha dovuto per forza di cose imparare a cavarsela da solo... dovremmo quasi arrabbiarci che lui possa sentirsi coì fortunato, quando in realtà tutti i beni più preziosi gli sono stati negati: l’amore di una madre, la stima vera di un padre. Eppure, talmente grande è la sua forza creatrice da riuscire a trasmettere lo stesso “incanto” anche a noi, che ripercorriamo gli eventi della sua infanzia con la sua stessa tenerezza.
Un romanzo bellissimo, commovente, eppure intimamente gaio.
Un altro capolavoro firmato Elsa Morante, che spero ne abbia almeno un altro in serbo per me.