Faulkner, William - Mentre morivo

ayuthaya

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Quando ho finito questo libro per la prima volta, circa sei anni fa, ero estasiata dal romanzo e dalla percezione di aver scoperto un autore straordinario (non mi sbagliavo... Faulkner è diventato uno dei miei scrittori preferiti). Ma, per quanto impressionata, o forse proprio per questo, non sono riuscita a buttare giù alcun commento “serio”, ovvero ragionato e approfondito, come piacciono a me quando un libro mi prende molto.
Be’, alla fine di questa rilettura e grazie alla compagnia preziosa (direi anzi fondamentale) di Trillo, adesso non saprei nemmeno da dove cominciare per quante cose ho da scrivere! Ok, iniziamo con calma…

Innanzitutto ho avuto la fortuna di rileggere questo libro mentre stavo ascoltando un saggio di Eco molto interessante, che si intitola Sei passeggiate nei boschi narrativi, saggio che “svela” alcune “regole del gioco” della narratività. Mi sono così resa conto che Mentre morivo è uno di quei casi in cui la fabula (quella che noi chiamiamo trama) è povera, poverissima: i fatti sono pochi e non sarebbero neppure così importanti se ad arricchirli ed inserirli in un secondo livello di lettura, non ci fosse un intreccio molto complesso. Questo perché, com’è noto, le voci narranti sono numerose (e con un “peso” molto diverso nell’economia complessiva) e ognuna di esse racconta solo dal proprio personale punto di vista, senza preoccuparsi che la “realtà” dei fatti sia a noi chiara o no. Questo ci fa capire subito che per Faulkner ciò che conta non sono i fatti, bensì la soggettività di ognuno dei quindici personaggi: uno dei temi fondamentali è perciò lo sgretolarsi di una “realtà” oggettiva a fronte di un moltiplicarsi potenzialmente infinito del “vissuto” soggettivo.

Legato a questo vi è il tema fondamentale dell’incomunicabilità della parola, celebrata da Annie nel suo monologo post mortem. I dialoghi in questo romanzo sono pochi, poveri, spesso banali e quasi mai sinceri. La vera comunicazione passa attraverso lo sguardo e infatti gli “occhi” sono assoluti protagonisti: basti pensare che il titolo stesso, nella sua versione originaria As I Lay Dying, citazione di un verso tratto dal libro XI dell’Odissea, fa riferimento agli occhi di Agamennone, appena ucciso da Clitemnestra, che la moglie assassina nemmeno si degna di chiudere, sancendo così la sua assoluta mancanza di pietà (si capisce quindi come l’italiano Mentre morivo rende solo in parte la significatività del titolo).

Nel suo monologo Addie Bundren celebra quindi l’incolmabile dicotomia fra la parola e l’azione, affermando che le parole sono un involucro vuoto inventato da chi nulla sa di ciò che queste parole pretendono di definire: “Mi resi conto che paura era stata inventata da qualcuno che non aveva mai avuto paura; orgoglio, da qualcuno che di orgoglio non ne aveva mai avuto.” Se quindi in teoria le parole che “muovono” (laddove vedremo che nulla in questo romanzo si muove davvero) i personaggi nel loro assurdo viaggio sono “amore”, “rispetto”, “dignità”, dovremmo concludere che essi stessi non sanno nulla di cosa significhi amare, rispettare, essere degni (e questo vale sicuramente per Anse).
Ancora a proposito del nome, un certo “allenamento” che mi sono imposta nello scovare riferimenti biblici, che senza dubbio hanno ispirato questo libro, mi ha spinto a vedere nella negazione del nome proclamata da Addie il rovesciamento dell’atto di attribuire un nome, con il quale Adamo ha preso possesso della realtà quando è stato posto nell’Eden. Se quindi il nome è un involucro, se non ha alcuna effettiva connessione con la realtà, significa che l’uomo ha “perso” il proprio dominio sulle cose, o forse non lo ha mai avuto. E a ben vedere è proprio quello che accade ai Bundren, il cui viaggio sfida le catastrofi naturali primordiali simboleggiate dall’acqua e dal fuoco.

D’altra parte il “rovesciamento” o “parodia” dei temi biblici è un altro leit motiv di questo romanzo. Il libro non esalta la fede in Dio, semmai la dissacra, la prende in giro (basti considerare il “valore morale” dei due personaggi che pretendono di amare Dio sopra ogni cosa: Cora, che “rincorre” la sua ricompensa celeste, e il reverendo Whitfield), la rovescia appunto (piccola parentesi: non credo che l’intento effettivo di Faulkner a questo proposito fosse quello di negare Dio, quanto di rimpicciolire l’uomo fin quasi ad annullarlo).
Da qui una continua serie di capovolgimenti grotteschi: il cadavere di Addie viene posto all’incontrario, per far posto al ringonfiamento del vestito da sposa e il suo viso è deturpato dal tentativo di Vardaman di praticare dei buchi nel legno per farla respirare; l’unione dell’uomo e della donna in “una sola carne” si trasforma nella dura sentenza di Addie: “Il mio essere sola era stato violato e poi reso intero dalla violazione”; la sua predizione: “Sarà lui la mia croce e la mia salvezza. Mi salverà lui dall’acqua e dal fuoco” (di per sè già una parodia, poiché non riferisce a Lui/Dio, bensì a lui/Jewel) si realizzerà in tutt’altra forma che quella della salvezza eterna: Jewel “salverà” la bara di sua madre dall’alluvione prima e dall’incendio al fienile poi.
L’intero viaggio, compiuto con il “nobile” scopo di esaudire il desiderio di Addie di riposare nella terra dei suoi avi (un chiaro messaggio del suo volersi negare, persino da morta, alla famiglia che ha generato) non è altro che un’inutile farsa: i sacrifici di Jewel e Cash, la “pazzia” di Darl, le speranze disilluse di Dewey Dell e il trauma di Vardaman di fronte alla morte di sua madre non serviranno a nulla. Solo il pigro, cinico, egoista Anse troverà il suo tornaconto personale, lui che è “la forma e l’eco della sua parola” (Addie).

Un altro tema fondamentale, intrecciato profondamente a tutti questi elementi, è la perdita della propria identità, rappresentata in particolare (ma non solo) dalla “pazzia” di Darl che, a partire dalla morte della madre, entra in crisi: non potendosi più riconoscere come figlio (un figlio oltretutto non desiderato, a differenza di Jewel), sente di non avere più una propria ragione d’essere. Al contrario di Addie, quindi, sembra che Darl suo malgrado si riconosca come individuo solo in quanto appartenente alla famiglia e in particolare a sua madre; da qui tutta una serie di riflessioni quasi ossessive sul concetto di essere e non-essere e soprattutto sulla permanenza dell’essere, dalle quali prenderà avvio un vero e proprio “sdoppiamento” che raggiungerà il culmine a fine libro.
Il personaggio di Darl è molto affascinante (ma a dire il vero tutti i personaggi lo sono, su ognuno di essi si potrebbero spendere pagine e pagine...) in quanto fin dall’inizio pone dei dubbi al lettore: a cosa è dovuta la sua “onniscienza”? Perché è l’unico a rompere i confini della sua coscienza soggettiva e a “vedere” cose che accadono in sua assenza? Di sicuro è la figura più “intellettuale” e razionale; paradossalmente proprio lui, che ci appare come il più lucido di tutti, è dotato di un potere simile alla chiaroveggenza (laddove però non mi riferisco a una dote paranormale e nemmeno a un privilegio conferitogli da Faulkner, bensì a un’estrema sensibilità, la stessa che decreterà, per mano dei suoi fratelli, la sua presunta follia.

Ho scritto prima “permanenza dell’essere” ed è questo un concetto che ricorre spesso, basta pensare alla permanenza di Addie come individuo anche dopo morta, alla sua “trasmigrazione” in pesce nella coscienza di Vardaman, alla decomposizione puramente fisica del suo cadavere... Senza scendere troppo nel dettaglio, ne approfitto per legare il concetto del permanere a un elemento che mi ha colpito moltissimo durante questa seconda lettura e cioè il “movimento” e soprattutto il “non-movimento”, quindi l’immobilità, l’inerzia, nella duplice dimensione del tempo e dello spazio (spesso con uno scambio fra l’uno e l’altro). Mi piacerebbe riportare tutti i passaggi legati in qualche modo a questo tema... lo farò solo con quelli che mi hanno colpito di più:
Ecco qual è il guaio di questo paese: tutto, il tempo, ogni cosa dura troppo. Come i nostri fiumi, la nostra terra: opaca, lenta, violenta; che forma e crea la vita dell’uomo nella propria immagine.” (1° Peabody, pag. 46)
Noi andiamo avanti, con un moto così soporifero, così sognante, che neppure fa pensare a un progredire, come se fosse il tempo e non lo spazio a diminuire fra noi e laggiù.” (10° Darl, pag. 97)
È come se lo spazio fra di noi fosse il tempo: un che di irrevocabile. È come se il tempo, non scorrendoci più davanti in una linea a diminuire, adesso scorresse parallelo fra di noi come uno spago a circuito chiuso, con la distanza data non dall’intervallo frammezzo ma dal doppio aumento del filo.” (12° Darl, pag. 131)
Se potessimo finire di dipanarci nel tempo. Sarebbe bello. Sarebbe bello se potessimo finire di dipanarci nel tempo.” (15° Darl, pag. 186)
Insomma, temo di non saperlo spiegare molto bene, ma il punto è che tutta la vicenda sembra incentrata su questa immobilità, intesa come impossibilità di percorrere una distanza, che è sia distanza nel tempo sia distanza nello spazio. Un viaggio che prevedeva poche miglia e una giornata di cammino si trasforma, si deforma direi, in una grottesca odissea durante la quale il cadavere di Addie, che non “permane” e non “aspetta”, si decompone. Questo aspetto mi ha affascinato moltissimo perché, ora che ci penso, sembra la traduzione letteraria di un quadro espressionista, magari proprio L’urlo del mio adorato Munch, in cui tempo e spazio convergono angosciosamente soffocando la coscienza dell’individuo…

Per concludere (dovrò concludere prima o poi, anche se di cose da dire ce ne sarebbero ancora tante!) un romanzo del genere, che incanta e interroga ad ogni nuova lettura (sono certa che se lo leggessi per la terza volta scoprirei qualcosa di nuovo) con la stessa intensità, è qualcosa di eccezionale, qualcosa per cui vale la pena faticare un po’.
 
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Trillo

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È difficile raccogliere i pensieri per cercare di dare un senso ed un’interpretazione chiara e globale ad un romanzo complesso come questo. Quella che mi accingo a scrivere non è quindi una vera e propria recensione, bensì un tentativo di elaborare il romanzo fissandone alcuni punti che ritengo fondamentali e che rappresentano la mia interpretazione e comprensione attuale del romanzo. Ringrazio le compagne di viaggio con cui ho condiviso questa lettura, fonte di motivazione e di tanti spunti interessanti. Essendo il mio commento uno spoiler completo del libro, ne sconsiglio la lettura a chi non lo avesse iniziato e finito.

La complessità del romanzo è dovuta principalmente a due fattori: da una parte, ai tanti e brevi monologhi interiori di cui si compone, che riflettono spesso il caos dei pensieri che vorticano nei personaggi, e che lasciano quindi diverse parti all’interpretazione del lettore; dall’altra, ai numerosi riferimenti simbolici densi di significato, e spesso non chiari ed univoci.

I personaggi su cui si focalizza il romanzo sono Addie e Anse Bundren ed i loro cinque figli: Cash, Darl, Jewel, Dewey Dell e Vardaman, narrando del viaggio che tutti loro intraprendono per seppellire Addie nella sua città natia, in cui giace la sua famiglia d’origine.
Nonostante ad Addie sia riservato solo un monologo centrale post-mortem, è lei l’assoluta protagonista del romanzo, il fulcro del viaggio, una figura onnipresente che si riflette con forza nei pensieri e nei caratteri dei personaggi.

La famiglia Bundren si caratterizza per il suo rappresentare un microcosmo a se sé stante, che vive isolata in una campagna in cima ad una montagna, e che non vuole aiuti da nessuno per non creare legami di dipendenza e di obbligo.
La “creazione” dell’universo della famiglia Bundren si articola in sette tempi proprio come la creazione del mondo da parte di Dio. L’artefice della creazione in questo caso è Addie Bundren, dapprima con la sua decisione di prendere Anse Bundren come consorte, poi dando alla luce ognuno dei loro cinque figli, per poi infine esser pronta a “riposarsi” nella settima fase, quella della sua morte, e che rappresenterà il vero “riposo” della sua famiglia.

Ma se la creazione di Dio era la celebrazione della vita e della bellezza, in un crescendo di opere che erano cosa buona e giusta, la creazione di Addie è la negazione della vita, il risultato di un inganno di cui è vittima, e la portatrice di un’instabilità distruttiva. Le sue opere non sono da lei ritenute buone e giuste, ma terribili e ingiuste, preparatorie solo alla morte, proprio come sostenevano le parole che sue padre da sempre le ripeteva, e che fino ad allora non avevano avuto per Addie un significato chiaro e preciso. Cash, l’incarnazione delle parole del padre che le rivelano questo significato, si fa così “Verbo”, ossia quella “parola” che è preesistente a tutto, creatrice e portatrice di significato, come Gesù Cristo. Non a caso, Cash è anche un falegname, e lui è forse l’unico sinceramente premuroso nei confronti della sua famiglia, l’unico a non lamentarsi mai nonostante la fatica e il dolore, e l’unico sempre attento all’equilibrio della sua famiglia, da quello della madre nella bara a quello delle relazioni famigliari. Ma per Addie, l’unico significato delle parole, e quindi anche di Cash, è l’assenza di significato delle parole e della vita stesse. L’estraneità di Addie alla sua realtà di moglie e di madre che si trova a vivere trova sfogo nella negazione di questa realtà e, di conseguenza, non può che riflettersi nella negazione delle parole che la esprimono, considerate solo come forme vuote, prive di significato.

Ma la creazione che nega e disprezza se stessa si ritorce contro come un inganno e una beffa, perpetrandosi nella nascita del secondogenito Darl, inaspettato ed indesiderato. Il rifiuto del mondo di cui Addie è l’artefice evolve quindi nel desiderio di ribellione e vendetta, che si manifesta con la procreazione di un terzo figlio, Jewel, attraverso un atto primitivo di selvaggia passione, che in apparenza è fonte di autenticità senza quel bisogno delle ipocrite parole che ne spieghino l’essenza e le motivazioni. Jewel sarà infatti l’unico della famiglia, insieme ad Addie, al quale sarà associato un solo monologo, l’unico per cui le azioni e gli atteggiamenti lo caratterizzano più che le sue povere parole, l’unico a sentirsi e a comportarsi come un estraneo alla famiglia stessa.

Ma le pure azioni private delle parole rivelano la loro inconsistenza nel momento in cui Addie viene rifiutata e abbandonata dal padre di Jewel. La creazione del mondo di Addie non può che proseguire attraverso le fasi della sua rassegnazione e dell’espiazione del suo peccato nei confronti del suo mondo di cui diventa vittima e a cui le tocca sottostare, per poi terminare con l’anelato riposo, non colmo della soddisfazione dell’opera compiuta, ma della frustrazione di un’opera che non le appartiene e che ha portato definitivamente alla sua distruzione.

La tragicità e gli effetti di questa condizione sono impressi in Darl, il figlio non desiderato, non aspettato né voluto. Lui è colui che più soffre per le mancanze delle madre. Non vedendosi riconosciuto, non si sente legittimato né come figlio né come persona, è smarrito, la sua identità è profondamente in crisi. Darl rappresenta il punto di vista privilegiato del romanzo, che copre circa un terzo di tutti i monologhi. L’ampiezza di spazio che ricopre è sintomatica del suo bisogno e della sua ricerca di un proprio spazio e significato nel mondo, è rivelatore della grande sensibilità, capacità di analisi e attenzione ai dettagli che rivolge verso se stesso e gli altri, ma che non fanno altro che amplificare i suoi tormenti.

Addie, infatti, una volta morta, gli sembra trasmigrare e vivere definitivamente nel cavallo di Jewel, quel cavallo che Jewel si era procurato unicamente con i suoi sforzi, che appartiene solo a lui e a nessun altro, che solo lui riesce a domare, e con cui condivide un rapporto ed un’intesa speciali. Questo rapporto unico e segreto di cui lui è stato privato, è amplificato dall’osservazione secondo cui, quando Jewel era nato, “Non veniva alcun suono, da loro”, quasi fossero in grado di comunicare, comprendersi e viversi già a quel tempo secondo un rapporto tutto loro, estraneo al resto della famiglia.

Gli effetti distruttivi che porta in sé la figura di Addie nella sua opera di creazione è sottolineata anche dalla figura di Dewey Dell che perpetua nel tempo il disagio della madre e le sue conseguenze, dai sentimenti di odio covati da alcuni dei fratelli, e dal paesaggio in cui si muovono i personaggi.

La condizione di Dewey Dell è infatti analoga a quella della madre, a cui la accomuna un profondo senso di solitudine e il fatto di portare segretamente in grembo un bambino indesiderato che cerca di sopprimere con l’aborto.

Per quanto riguarda il sentimento di odio, questo si manifesta tra i tre fratelli mezzani: Darl, Dewey Dell e Jewel. Darl, infatti, con la sua spiccata sensibilità e attenzione, è l’unico che riesce a penetrare il segreto che cova Dewey Dell, così come la natura di figliastro di Jewel, e non perde l’occasione per stuzzicarli con i suoi giudizi: verso Dewey Dell perché riconosce nel feto da lei portato il perpetrarsi della sua drammatica condizione, e verso Jewel perché geloso del suo rapporto con Addie. Loro, d’altra parte, sentendosi oppressi e minacciati, covano verso Darl un odio così estremo da desiderarne la morte. Gli unici che sembrano immuni da questo tipo di sentimenti sono Cash e Vardaman. Cash, infatti, essendo il primogenito, è stato procreato da Addie ancora in una fase di inconsapevolezza della vita, per cui è il figlio più immune dai sentimenti distruttivi e negativi della madre. Vardaman, al contrario, essendo l’ultimogenito e ancora un bambino, non è ancora completamente cosciente della natura e delle relazioni della sua famiglia.

Il paesaggio e gli eventi che lo caratterizzano contribuiscono ad amplificare l’esito distruttivo dell’opera di Addie, suggerendo alcune analogie con le opere di purificazione bibliche esplicatesi nella distruzione di Sodoma, nel diluvio universale e nella predetta apocalisse. Il colore del cielo e l’odore dell’aria sanno infatti di zolfo, preparano ad una pioggia di fuoco e zolfo che si manifestano da una parte nel diluvio che fa crollare i ponti circostanti, nella piena dei fiumi e la conseguente morte dei muli dei Bundren e nella definitiva rottura della gamba di Cash, e dall’altra nell’incendio appiccato da Darl nel tentativo di liberarsi della malefica presenza della madre. Tutti questi elementi fanno assumere al paesaggio intorno un aspetto morto, desolante, fermo, la cui unica costante è la presenza degli avvoltoi, quasi come un segnale biblico della fine del mondo.

La fissità degli avvoltoi in cielo è un elemento che ricorre spesso, così come un generale senso di immobilità e assenza che caratterizza il paesaggio e la progressione degli eventi. Tutti gli elementi naturali sembrano infatti morti: l’aria, la terra, l’acqua, cosicché il lento incedere dei Bundren verso Jefferson in questo penoso scenario di desolazione comincia a sembrare assurdo e senza alcun senso. In realtà, questi elementi di immobilità e di “non essere”, più che portare ad una condizione di stasi, costituiscono la miccia che fa esplodere tutta l’assurda condizione dei Bundren, e che convoglia verso un suo conseguente assestamento. L’enorme dilatazione dei tempi, che porta all’esasperazione, è preparatoria in questo senso, ed è ben espressa a mio avviso dalle parole di Dewey Dell:

“Ecco che cosa intendono con il grembo del tempo: il tormento e la sofferenza delle ossa che si aprono, la dura cintura entro cui giacciono le viscere degli eventi”

Il tempo, che custodisce le viscere degli eventi, ed in particolare quelli della famiglia Bundren, comincia ad essere causa di tormento con il suo dilatarsi a dismisura, perché spinge a far venire a galla tutto ciò che i Bundren hanno tenuto nascosto o a freno dentro di loro fino a quel momento, e ad evidenziare l'assurdità di tutta la situazione. Il punto di rottura è causato quindi da un tempo che sembra fermarsi, o meglio ristagnare in una ripetitiva circolarità senza alcuna prospettiva di cambiamento:

"È come se il tempo, non scorrendoci più davanti in una linea a diminuire, adesso scorresse parallelo fra di noi come uno spago a circuito chiuso, con la distanza data non dall’intervallo frammezzo ma dal doppio aumento del filo."

Ad esasperare ulteriormente la situazione, interviene quindi il fatto che in uno scenario di completa desolazione come questo, ogni cosa è svuotata di senso:

"Le nostre vite, come si dipanano nel non-vento, non-suono, gli stanchi gesti stancamente ricapitolanti: echi di antiche compulsioni con non-mani su non-fili: al tramonto cadiamo in posizioni furiose, gesti morti di fantocci."

Di qui il desiderio di Darl:

"Se potessimo finire di dipanarci nel tempo. Sarebbe bello."

Ovvero, sarebbe bello se in quell’assurdo ed estenuante viaggio senza senso, alla futilità dei gesti si potesse opporre lo stabilirsi di una precisa e definita direzione in cui instradarsi, uno scopo, così come il tempo ha la sua irrevocabile direzione.

Ed è qui che Darl si fa artefice del cambiamento. Ad un tempo che si dilata non corrisponde necessariamente una fissità degli eventi: se le distanze evolvono allo stesso modo, tutto continua a scorrere. Così, la dilatazione delle distanze che accompagna quella temporale, fa sì che il corso degli eventi non si esaurisca in una staticità senza senso, ma prosegua verso una direzione precisa. Darl infatti si accorge che:

"È come se lo spazio fra di noi fosse il tempo: un che di irrevocabile."

Lo spazio percorso, ossia il viaggio stesso e le distanze (fisiche e figurate) che ha creato, comincia a rivelarsi come qualcosa di irreversibile e che, come tale, impone una direzione, una progressione che si oppone alla staticità temporale e che fa prendere alla storia dei Bundren una piega diversa. Il bisogno e l’inevitabilità del cambiamento sono espressi dall’atto incendiario di Darl che scuotono la famiglia dall’inerzia e dalla passività degli eventi.

È così che nel finale, innescato dall’atto coraggioso di Darl, più che una conferma dell’insensatezza del viaggio e della tragica condizione dei Bundren, vedo la possibilità di imprimere alla famiglia una direzione diversa da quella percorsa fino ad allora, la possibilità di ripristinare una certa forma di equilibrio.

Il rinchiudere Darl in un manicomio è funzionale in tal senso, sia per lui, perché come dirà lo stesso Cash:

“è meglio così, per lui. Questo mondo non è il suo mondo; questa vita la sua vita.”

sia per il resto della famiglia, perché da una parte, stando sempre col fiato sul collo di Jewel e Dewey Dell ne causava dei profondi malesseri generali, e dall’altra perché cercava di portare verso i suoi pericolosi pensieri distruttivi anche il piccolo Vardaman, come quando va da Jewel con lui per renderlo consapevole della diversità che li caratterizza:

“Ho portato Vardaman perché ascoltasse.”

Anche l’epilogo che la storia ha per Anse è indicativo della possibilità di un rinnovato equilibrio della famiglia. Per quanto Anse sia un uomo insulso, codardo ed egoista, bisogna pur sempre riconoscere che ha dovuto convivere tutta la vita con quel denigrante senso di insignificanza dovuto al fatto di rappresentare per Addie solo un’eco della sua parola, e di aver rimandato le sue cure personali per il benessere e la cura della famiglia. Così, alla fine del viaggio, la sua possibilità di rifarsi i denti e di trovare una nuova compagna di vita sembra anche una forma di “giustizia” verso Anse, oltre che un modo per ripristinare un suo equilibrio interiore e, di riflesso, quello dell’intera famiglia.

Anche Cash, alla fine del viaggio, ha modo di ritrovare il suo equilibrio, ottenendo quel grammofono che da tanto tempo desiderava e a cui aveva sempre dovuto rinunciare per l’economia della famiglia. La musica che esce da quel grammofono rappresenta il primo vero suono vivo, un suono che fa rivivere, qualcosa "che fa bene", il germoglio di una nuova vita nella pienezza della sua parola.

[Continuo e concludo nel messaggio successivo]
 

Trillo

Active member
Dewey Dell non riuscirà invece ad ottenere il suo desiderato aborto, ma questa mancata realizzazione si inserisce nel quadro più generale della vita che vince sulla morte, nella speranza che, in una famiglia così completamente rinnovata, la ragazza possa vivere la sua condizione di madre diversamente da come l’aveva vissuta Addie. Questa speranza è avvalorata dal fatto che Dewey Dell sembra nutrire una fede più solida di quella di Addie (“Io credo in Dio”), dal fatto che più volte, durante il romanzo, lei sembra avere una inclinazione materna, e dal fatto che lei in realtà non desiderava del tutto la morte del proprio figlio, ritenendo inopportuno solo il modo ed il momento del concepimento:

“Non è che non vorrei e non l’avrò è che è troppo presto troppo presto troppo presto.”

Vardaman, ormai senza Darl che lo deviava verso la spirale distruttiva dei suoi pensieri, può esser forgiato in una direzione più sana nel rinnovato equilibrio della nuova famiglia, così come Jewel può cominciare a vivere più serenamente la sua vita, liberandosi dalla colpa che non gli appartiene di essere stato procreato dalla vera passione al di fuori del matrimonio.

L’immagine che abbiamo alla fine del viaggio e del romanzo è infatti quella di una famiglia che si ritrova serenamente intorno al grammofono a godersi la musica del momento, mentre Cash dedica un commovente pensiero a Darl:

“era proprio un grammofono, tutto bello chiuso che sembrava dipinto, e tutte le volte che arrivava un nuovo disco ordinato per posta e noi lì seduti in casa d’inverno a ascoltarlo, pensavo che peccato che non ci potesse essere anche Darl a goderselo. Ma è meglio così, per lui. Questo mondo non è il suo mondo; questa vita la sua vita.”

Il viaggio assume quindi ai miei occhi un profondo significato di riscatto della famiglia Bundren, la possibilità e la speranza di un nuovo e sereno equilibrio: andare fino a Jefferson per dare sepoltura ad Addie, l’atto di Jewel di salvare la bara dalla piena del fiume e dall’incendio, così come il suo vendere il suo cavallo per arrivare fino in fondo al viaggio, fornisce l’occasione per lasciarsi alle spalle una volta per tutte la figura negativa che ha rappresentato una madre come Addie, insieme ai suoi effetti collaterali, nella serenità e soddisfazione di un’opera portata a termine e che non potrà essere turbata dai tormenti dell’incompiutezza.

Mentre morivo è un romanzo complesso ma affascinante, che mostra gli effetti devastanti che può indurre la figura di una madre che genera figli senza davvero desiderarli, che non li ama né li riconosce, e che vive in modo tragico il suo essere madre. I rimandi agli episodi biblici catastrofici contribuiscono ad amplificare le proporzioni degli avvenimenti, ma, come nella Bibbia, rappresentano una necessaria opera di purificazione per raggiungere l’equilibrio di un mondo migliore.

Scusatemi per essermi dilungato così troppo, ho dovuto anche dividere il messaggio in due parti perché non mi veniva consentito un unico invio a causa della lunghezza... Mi sa che questa volta sono stato davvero un po' troppo pesante :mrgreen: Ma serviva anche a me per avere un quadro complessivo del romanzo ;)
 
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CarolinaMi

New member
Complesso e straniante

È IL Primo libro di Faulkner che leggo. Mi sembrava di non capirci niente. Poi ho cercato qualche contributo critico e devo dire che, per quanto si dica che è stato scritto velocemente, ha una struttura molto complessa. Credo sia uno di quei libri che andrebbero letti in lingua originale. Lo stile, se non si ha dimesriichezza col blues non rende il ritmo, se invece si ama il blues lo si sente come musica. Ci son riferimenti biblici certo, ma uno straniamento magico che diventa quasi opprimente. Le pagine che paiono umoristiche riescono sarcastiche e dissacranti. Mi è piaciuto.
 
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estersable88

dreamer member
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Dopo tanti commenti illumina(n)ti... arrivo io... :(

Dopo aver letto Luce d'agosto (piaciuto molto) e L'urlo e il furore (piaciuto per niente) avevo bisogno di capire, di farmi un'impressione personale più circostanziata su Faulkner. Così ho letto Mentre morivo… e ho capito che Faulkner non fa per me, non mi piace, non incontra il mio gusto, mi annoia. Mi dispiaccio molto di questo, ma sebbene sia stato più gradevole (di poco) rispetto a L'urlo e il furore, Mentre morivo non mi ha conquistata. La storia è, nei fatti che la compongono, tutto sommato semplice: una famiglia, i Bundren, sgangherata e complicata, è alle prese con un grave lutto e con il conseguente funerale: Addie Bundren, madre e moglie, è dapprima in fin di vita (in apertura del libro), poi trapassa e infine deve essere condotta a Jackson per poter essere sepolta, perché questa era stata la promessa strappata al marito quando ancora Addie era viva e vegeta. C'è, palpabile, lo strazio dei familiari che in alcuni casi si tramuta in ossessione; c'è chi si dà da fare, chi non capisce, chi resta pressoché inerte. Tutti, a loro modo, partecipano e sono coinvolti nel lutto. Ma, come anticipato, i Bundren sono tutt'altro che una famiglia normale e piatta… basti leggere il resoconto del viaggio che da casa li ha portati a Jackson con bara al seguito… qualcosa di folle e grottesco. Ora, sebbene la storia in sé sia stata in qualche misura interessante, ciò che proprio non digerisco è la narrazione, la prosa confusa e frammentata di Faulkner, la sua narrazione corale che, mentre è osannata da pubblico e critica, per i miei gusti opinabilissimi, è un minus per il romanzo. Ripeto, mi dispiace per me perché so di perdermi un autore di valore, ma non riesco ad apprezzare Faulkner. Non so davvero, ad oggi, se leggerò altro di suo. Tuttavia, chi lo conosce ignorerà il mio parere com'è giusto che sia, ma a chi non conosce ancora quest'autore dico di provare, di leggerlo.
 

Grantenca

Well-known member
Sono le ultima ore di una madre in una famiglia, povera, della campagna americana.
Ha al capezzale il marito e tutti i suoi figli e anche dei vicini che tentano di confortarla in questo ultimo “passaggio.” Il marito è però un parassita che comanda la famiglia a “suo vantaggio”, e non esita ad allontanare due figli per una missione in città che frutterà qualche dollaro. I due figli così non possono assistere la madre nel momento del “trapasso”. C’è poi una altro figlio, un falegname che sta costruendo la bara, come la madre voleva, e una figlia sempre al capezzale della madre.
L’ultimo desiderio della morente è quello di essere seppellita nel paese di origine, un po’ lontano da dove ora risiede. All’ esaudire questo ultimo desiderio, che la famiglia ritiene sacro, è legata la maggior parte del libro, un viaggio avventuroso.
E’ uno scrittore difficile, complesso. Il libro è fatto di capitoli brevissimi dove all’inizio si capisce ben poco e solo la lettura della parte finale dei capitoli fa capire un po’ più chiaramente quanto letto in precedenza. Certo i concetti ci sono, non certamente banali, anche dei passaggi letterari di un certo peso, la descrizione del carattere dei personaggi, pur con le “contorsioni” sopra evidenziate si staglia con un certo rilievo. Il marito “approfittatore” un figlio tutto dedito alla sua arte di falegname, un altro un po’ ritardato, un altro, frutto sembra di una relazione extra coniugale, un po’ selvaggio, la figlia diciassettenne presa da forti pulsioni sessuali, un altro figlio, piccolo, che pesca un pesce enorme (allegoria?),tutto vero questo, ma non è il tipo di letteratura che prediligo.
In effetti questo libro l’ho in biblioteca da molto tempo e l’ho letto solo adesso, in questi tempi di restrizione coatta della socialità. Avevo qualche timore, giustificato in effetti, dal momento che mi conosco. Quando leggo questo tipo di scrittori, di cui è indubbia la grandezza essendo da tutti riconosciuta, mi ricordo sempre di Joyce. Il suo racconto "i morti” da gente di Dublino, è stata per me una meravigliosa scoperta. Il suo capolavoro l”Ulisse”, non sono riuscito a leggerlo.
Di questo libro per quel che intendo io come “narrativa di grande qualità” la cosa che ho veramente apprezzato è il rapporto di Jewel con il suo cavallo.
 
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