Quando ho finito questo libro per la prima volta, circa sei anni fa, ero estasiata dal romanzo e dalla percezione di aver scoperto un autore straordinario (non mi sbagliavo... Faulkner è diventato uno dei miei scrittori preferiti). Ma, per quanto impressionata, o forse proprio per questo, non sono riuscita a buttare giù alcun commento “serio”, ovvero ragionato e approfondito, come piacciono a me quando un libro mi prende molto.
Be’, alla fine di questa rilettura e grazie alla compagnia preziosa (direi anzi fondamentale) di Trillo, adesso non saprei nemmeno da dove cominciare per quante cose ho da scrivere! Ok, iniziamo con calma…
Innanzitutto ho avuto la fortuna di rileggere questo libro mentre stavo ascoltando un saggio di Eco molto interessante, che si intitola Sei passeggiate nei boschi narrativi, saggio che “svela” alcune “regole del gioco” della narratività. Mi sono così resa conto che Mentre morivo è uno di quei casi in cui la fabula (quella che noi chiamiamo trama) è povera, poverissima: i fatti sono pochi e non sarebbero neppure così importanti se ad arricchirli ed inserirli in un secondo livello di lettura, non ci fosse un intreccio molto complesso. Questo perché, com’è noto, le voci narranti sono numerose (e con un “peso” molto diverso nell’economia complessiva) e ognuna di esse racconta solo dal proprio personale punto di vista, senza preoccuparsi che la “realtà” dei fatti sia a noi chiara o no. Questo ci fa capire subito che per Faulkner ciò che conta non sono i fatti, bensì la soggettività di ognuno dei quindici personaggi: uno dei temi fondamentali è perciò lo sgretolarsi di una “realtà” oggettiva a fronte di un moltiplicarsi potenzialmente infinito del “vissuto” soggettivo.
Legato a questo vi è il tema fondamentale dell’incomunicabilità della parola, celebrata da Annie nel suo monologo post mortem. I dialoghi in questo romanzo sono pochi, poveri, spesso banali e quasi mai sinceri. La vera comunicazione passa attraverso lo sguardo e infatti gli “occhi” sono assoluti protagonisti: basti pensare che il titolo stesso, nella sua versione originaria As I Lay Dying, citazione di un verso tratto dal libro XI dell’Odissea, fa riferimento agli occhi di Agamennone, appena ucciso da Clitemnestra, che la moglie assassina nemmeno si degna di chiudere, sancendo così la sua assoluta mancanza di pietà (si capisce quindi come l’italiano Mentre morivo rende solo in parte la significatività del titolo).
Nel suo monologo Addie Bundren celebra quindi l’incolmabile dicotomia fra la parola e l’azione, affermando che le parole sono un involucro vuoto inventato da chi nulla sa di ciò che queste parole pretendono di definire: “Mi resi conto che paura era stata inventata da qualcuno che non aveva mai avuto paura; orgoglio, da qualcuno che di orgoglio non ne aveva mai avuto.” Se quindi in teoria le parole che “muovono” (laddove vedremo che nulla in questo romanzo si muove davvero) i personaggi nel loro assurdo viaggio sono “amore”, “rispetto”, “dignità”, dovremmo concludere che essi stessi non sanno nulla di cosa significhi amare, rispettare, essere degni (e questo vale sicuramente per Anse).
Ancora a proposito del nome, un certo “allenamento” che mi sono imposta nello scovare riferimenti biblici, che senza dubbio hanno ispirato questo libro, mi ha spinto a vedere nella negazione del nome proclamata da Addie il rovesciamento dell’atto di attribuire un nome, con il quale Adamo ha preso possesso della realtà quando è stato posto nell’Eden. Se quindi il nome è un involucro, se non ha alcuna effettiva connessione con la realtà, significa che l’uomo ha “perso” il proprio dominio sulle cose, o forse non lo ha mai avuto. E a ben vedere è proprio quello che accade ai Bundren, il cui viaggio sfida le catastrofi naturali primordiali simboleggiate dall’acqua e dal fuoco.
D’altra parte il “rovesciamento” o “parodia” dei temi biblici è un altro leit motiv di questo romanzo. Il libro non esalta la fede in Dio, semmai la dissacra, la prende in giro (basti considerare il “valore morale” dei due personaggi che pretendono di amare Dio sopra ogni cosa: Cora, che “rincorre” la sua ricompensa celeste, e il reverendo Whitfield), la rovescia appunto (piccola parentesi: non credo che l’intento effettivo di Faulkner a questo proposito fosse quello di negare Dio, quanto di rimpicciolire l’uomo fin quasi ad annullarlo).
Da qui una continua serie di capovolgimenti grotteschi: il cadavere di Addie viene posto all’incontrario, per far posto al ringonfiamento del vestito da sposa e il suo viso è deturpato dal tentativo di Vardaman di praticare dei buchi nel legno per farla respirare; l’unione dell’uomo e della donna in “una sola carne” si trasforma nella dura sentenza di Addie: “Il mio essere sola era stato violato e poi reso intero dalla violazione”; la sua predizione: “Sarà lui la mia croce e la mia salvezza. Mi salverà lui dall’acqua e dal fuoco” (di per sè già una parodia, poiché non riferisce a Lui/Dio, bensì a lui/Jewel) si realizzerà in tutt’altra forma che quella della salvezza eterna: Jewel “salverà” la bara di sua madre dall’alluvione prima e dall’incendio al fienile poi.
L’intero viaggio, compiuto con il “nobile” scopo di esaudire il desiderio di Addie di riposare nella terra dei suoi avi (un chiaro messaggio del suo volersi negare, persino da morta, alla famiglia che ha generato) non è altro che un’inutile farsa: i sacrifici di Jewel e Cash, la “pazzia” di Darl, le speranze disilluse di Dewey Dell e il trauma di Vardaman di fronte alla morte di sua madre non serviranno a nulla. Solo il pigro, cinico, egoista Anse troverà il suo tornaconto personale, lui che è “la forma e l’eco della sua parola” (Addie).
Un altro tema fondamentale, intrecciato profondamente a tutti questi elementi, è la perdita della propria identità, rappresentata in particolare (ma non solo) dalla “pazzia” di Darl che, a partire dalla morte della madre, entra in crisi: non potendosi più riconoscere come figlio (un figlio oltretutto non desiderato, a differenza di Jewel), sente di non avere più una propria ragione d’essere. Al contrario di Addie, quindi, sembra che Darl suo malgrado si riconosca come individuo solo in quanto appartenente alla famiglia e in particolare a sua madre; da qui tutta una serie di riflessioni quasi ossessive sul concetto di essere e non-essere e soprattutto sulla permanenza dell’essere, dalle quali prenderà avvio un vero e proprio “sdoppiamento” che raggiungerà il culmine a fine libro.
Il personaggio di Darl è molto affascinante (ma a dire il vero tutti i personaggi lo sono, su ognuno di essi si potrebbero spendere pagine e pagine...) in quanto fin dall’inizio pone dei dubbi al lettore: a cosa è dovuta la sua “onniscienza”? Perché è l’unico a rompere i confini della sua coscienza soggettiva e a “vedere” cose che accadono in sua assenza? Di sicuro è la figura più “intellettuale” e razionale; paradossalmente proprio lui, che ci appare come il più lucido di tutti, è dotato di un potere simile alla chiaroveggenza (laddove però non mi riferisco a una dote paranormale e nemmeno a un privilegio conferitogli da Faulkner, bensì a un’estrema sensibilità, la stessa che decreterà, per mano dei suoi fratelli, la sua presunta follia.
Ho scritto prima “permanenza dell’essere” ed è questo un concetto che ricorre spesso, basta pensare alla permanenza di Addie come individuo anche dopo morta, alla sua “trasmigrazione” in pesce nella coscienza di Vardaman, alla decomposizione puramente fisica del suo cadavere... Senza scendere troppo nel dettaglio, ne approfitto per legare il concetto del permanere a un elemento che mi ha colpito moltissimo durante questa seconda lettura e cioè il “movimento” e soprattutto il “non-movimento”, quindi l’immobilità, l’inerzia, nella duplice dimensione del tempo e dello spazio (spesso con uno scambio fra l’uno e l’altro). Mi piacerebbe riportare tutti i passaggi legati in qualche modo a questo tema... lo farò solo con quelli che mi hanno colpito di più:
“Ecco qual è il guaio di questo paese: tutto, il tempo, ogni cosa dura troppo. Come i nostri fiumi, la nostra terra: opaca, lenta, violenta; che forma e crea la vita dell’uomo nella propria immagine.” (1° Peabody, pag. 46)
“Noi andiamo avanti, con un moto così soporifero, così sognante, che neppure fa pensare a un progredire, come se fosse il tempo e non lo spazio a diminuire fra noi e laggiù.” (10° Darl, pag. 97)
“È come se lo spazio fra di noi fosse il tempo: un che di irrevocabile. È come se il tempo, non scorrendoci più davanti in una linea a diminuire, adesso scorresse parallelo fra di noi come uno spago a circuito chiuso, con la distanza data non dall’intervallo frammezzo ma dal doppio aumento del filo.” (12° Darl, pag. 131)
“Se potessimo finire di dipanarci nel tempo. Sarebbe bello. Sarebbe bello se potessimo finire di dipanarci nel tempo.” (15° Darl, pag. 186)
Insomma, temo di non saperlo spiegare molto bene, ma il punto è che tutta la vicenda sembra incentrata su questa immobilità, intesa come impossibilità di percorrere una distanza, che è sia distanza nel tempo sia distanza nello spazio. Un viaggio che prevedeva poche miglia e una giornata di cammino si trasforma, si deforma direi, in una grottesca odissea durante la quale il cadavere di Addie, che non “permane” e non “aspetta”, si decompone. Questo aspetto mi ha affascinato moltissimo perché, ora che ci penso, sembra la traduzione letteraria di un quadro espressionista, magari proprio L’urlo del mio adorato Munch, in cui tempo e spazio convergono angosciosamente soffocando la coscienza dell’individuo…
Per concludere (dovrò concludere prima o poi, anche se di cose da dire ce ne sarebbero ancora tante!) un romanzo del genere, che incanta e interroga ad ogni nuova lettura (sono certa che se lo leggessi per la terza volta scoprirei qualcosa di nuovo) con la stessa intensità, è qualcosa di eccezionale, qualcosa per cui vale la pena faticare un po’.
Be’, alla fine di questa rilettura e grazie alla compagnia preziosa (direi anzi fondamentale) di Trillo, adesso non saprei nemmeno da dove cominciare per quante cose ho da scrivere! Ok, iniziamo con calma…
Innanzitutto ho avuto la fortuna di rileggere questo libro mentre stavo ascoltando un saggio di Eco molto interessante, che si intitola Sei passeggiate nei boschi narrativi, saggio che “svela” alcune “regole del gioco” della narratività. Mi sono così resa conto che Mentre morivo è uno di quei casi in cui la fabula (quella che noi chiamiamo trama) è povera, poverissima: i fatti sono pochi e non sarebbero neppure così importanti se ad arricchirli ed inserirli in un secondo livello di lettura, non ci fosse un intreccio molto complesso. Questo perché, com’è noto, le voci narranti sono numerose (e con un “peso” molto diverso nell’economia complessiva) e ognuna di esse racconta solo dal proprio personale punto di vista, senza preoccuparsi che la “realtà” dei fatti sia a noi chiara o no. Questo ci fa capire subito che per Faulkner ciò che conta non sono i fatti, bensì la soggettività di ognuno dei quindici personaggi: uno dei temi fondamentali è perciò lo sgretolarsi di una “realtà” oggettiva a fronte di un moltiplicarsi potenzialmente infinito del “vissuto” soggettivo.
Legato a questo vi è il tema fondamentale dell’incomunicabilità della parola, celebrata da Annie nel suo monologo post mortem. I dialoghi in questo romanzo sono pochi, poveri, spesso banali e quasi mai sinceri. La vera comunicazione passa attraverso lo sguardo e infatti gli “occhi” sono assoluti protagonisti: basti pensare che il titolo stesso, nella sua versione originaria As I Lay Dying, citazione di un verso tratto dal libro XI dell’Odissea, fa riferimento agli occhi di Agamennone, appena ucciso da Clitemnestra, che la moglie assassina nemmeno si degna di chiudere, sancendo così la sua assoluta mancanza di pietà (si capisce quindi come l’italiano Mentre morivo rende solo in parte la significatività del titolo).
Nel suo monologo Addie Bundren celebra quindi l’incolmabile dicotomia fra la parola e l’azione, affermando che le parole sono un involucro vuoto inventato da chi nulla sa di ciò che queste parole pretendono di definire: “Mi resi conto che paura era stata inventata da qualcuno che non aveva mai avuto paura; orgoglio, da qualcuno che di orgoglio non ne aveva mai avuto.” Se quindi in teoria le parole che “muovono” (laddove vedremo che nulla in questo romanzo si muove davvero) i personaggi nel loro assurdo viaggio sono “amore”, “rispetto”, “dignità”, dovremmo concludere che essi stessi non sanno nulla di cosa significhi amare, rispettare, essere degni (e questo vale sicuramente per Anse).
Ancora a proposito del nome, un certo “allenamento” che mi sono imposta nello scovare riferimenti biblici, che senza dubbio hanno ispirato questo libro, mi ha spinto a vedere nella negazione del nome proclamata da Addie il rovesciamento dell’atto di attribuire un nome, con il quale Adamo ha preso possesso della realtà quando è stato posto nell’Eden. Se quindi il nome è un involucro, se non ha alcuna effettiva connessione con la realtà, significa che l’uomo ha “perso” il proprio dominio sulle cose, o forse non lo ha mai avuto. E a ben vedere è proprio quello che accade ai Bundren, il cui viaggio sfida le catastrofi naturali primordiali simboleggiate dall’acqua e dal fuoco.
D’altra parte il “rovesciamento” o “parodia” dei temi biblici è un altro leit motiv di questo romanzo. Il libro non esalta la fede in Dio, semmai la dissacra, la prende in giro (basti considerare il “valore morale” dei due personaggi che pretendono di amare Dio sopra ogni cosa: Cora, che “rincorre” la sua ricompensa celeste, e il reverendo Whitfield), la rovescia appunto (piccola parentesi: non credo che l’intento effettivo di Faulkner a questo proposito fosse quello di negare Dio, quanto di rimpicciolire l’uomo fin quasi ad annullarlo).
Da qui una continua serie di capovolgimenti grotteschi: il cadavere di Addie viene posto all’incontrario, per far posto al ringonfiamento del vestito da sposa e il suo viso è deturpato dal tentativo di Vardaman di praticare dei buchi nel legno per farla respirare; l’unione dell’uomo e della donna in “una sola carne” si trasforma nella dura sentenza di Addie: “Il mio essere sola era stato violato e poi reso intero dalla violazione”; la sua predizione: “Sarà lui la mia croce e la mia salvezza. Mi salverà lui dall’acqua e dal fuoco” (di per sè già una parodia, poiché non riferisce a Lui/Dio, bensì a lui/Jewel) si realizzerà in tutt’altra forma che quella della salvezza eterna: Jewel “salverà” la bara di sua madre dall’alluvione prima e dall’incendio al fienile poi.
L’intero viaggio, compiuto con il “nobile” scopo di esaudire il desiderio di Addie di riposare nella terra dei suoi avi (un chiaro messaggio del suo volersi negare, persino da morta, alla famiglia che ha generato) non è altro che un’inutile farsa: i sacrifici di Jewel e Cash, la “pazzia” di Darl, le speranze disilluse di Dewey Dell e il trauma di Vardaman di fronte alla morte di sua madre non serviranno a nulla. Solo il pigro, cinico, egoista Anse troverà il suo tornaconto personale, lui che è “la forma e l’eco della sua parola” (Addie).
Un altro tema fondamentale, intrecciato profondamente a tutti questi elementi, è la perdita della propria identità, rappresentata in particolare (ma non solo) dalla “pazzia” di Darl che, a partire dalla morte della madre, entra in crisi: non potendosi più riconoscere come figlio (un figlio oltretutto non desiderato, a differenza di Jewel), sente di non avere più una propria ragione d’essere. Al contrario di Addie, quindi, sembra che Darl suo malgrado si riconosca come individuo solo in quanto appartenente alla famiglia e in particolare a sua madre; da qui tutta una serie di riflessioni quasi ossessive sul concetto di essere e non-essere e soprattutto sulla permanenza dell’essere, dalle quali prenderà avvio un vero e proprio “sdoppiamento” che raggiungerà il culmine a fine libro.
Il personaggio di Darl è molto affascinante (ma a dire il vero tutti i personaggi lo sono, su ognuno di essi si potrebbero spendere pagine e pagine...) in quanto fin dall’inizio pone dei dubbi al lettore: a cosa è dovuta la sua “onniscienza”? Perché è l’unico a rompere i confini della sua coscienza soggettiva e a “vedere” cose che accadono in sua assenza? Di sicuro è la figura più “intellettuale” e razionale; paradossalmente proprio lui, che ci appare come il più lucido di tutti, è dotato di un potere simile alla chiaroveggenza (laddove però non mi riferisco a una dote paranormale e nemmeno a un privilegio conferitogli da Faulkner, bensì a un’estrema sensibilità, la stessa che decreterà, per mano dei suoi fratelli, la sua presunta follia.
Ho scritto prima “permanenza dell’essere” ed è questo un concetto che ricorre spesso, basta pensare alla permanenza di Addie come individuo anche dopo morta, alla sua “trasmigrazione” in pesce nella coscienza di Vardaman, alla decomposizione puramente fisica del suo cadavere... Senza scendere troppo nel dettaglio, ne approfitto per legare il concetto del permanere a un elemento che mi ha colpito moltissimo durante questa seconda lettura e cioè il “movimento” e soprattutto il “non-movimento”, quindi l’immobilità, l’inerzia, nella duplice dimensione del tempo e dello spazio (spesso con uno scambio fra l’uno e l’altro). Mi piacerebbe riportare tutti i passaggi legati in qualche modo a questo tema... lo farò solo con quelli che mi hanno colpito di più:
“Ecco qual è il guaio di questo paese: tutto, il tempo, ogni cosa dura troppo. Come i nostri fiumi, la nostra terra: opaca, lenta, violenta; che forma e crea la vita dell’uomo nella propria immagine.” (1° Peabody, pag. 46)
“Noi andiamo avanti, con un moto così soporifero, così sognante, che neppure fa pensare a un progredire, come se fosse il tempo e non lo spazio a diminuire fra noi e laggiù.” (10° Darl, pag. 97)
“È come se lo spazio fra di noi fosse il tempo: un che di irrevocabile. È come se il tempo, non scorrendoci più davanti in una linea a diminuire, adesso scorresse parallelo fra di noi come uno spago a circuito chiuso, con la distanza data non dall’intervallo frammezzo ma dal doppio aumento del filo.” (12° Darl, pag. 131)
“Se potessimo finire di dipanarci nel tempo. Sarebbe bello. Sarebbe bello se potessimo finire di dipanarci nel tempo.” (15° Darl, pag. 186)
Insomma, temo di non saperlo spiegare molto bene, ma il punto è che tutta la vicenda sembra incentrata su questa immobilità, intesa come impossibilità di percorrere una distanza, che è sia distanza nel tempo sia distanza nello spazio. Un viaggio che prevedeva poche miglia e una giornata di cammino si trasforma, si deforma direi, in una grottesca odissea durante la quale il cadavere di Addie, che non “permane” e non “aspetta”, si decompone. Questo aspetto mi ha affascinato moltissimo perché, ora che ci penso, sembra la traduzione letteraria di un quadro espressionista, magari proprio L’urlo del mio adorato Munch, in cui tempo e spazio convergono angosciosamente soffocando la coscienza dell’individuo…
Per concludere (dovrò concludere prima o poi, anche se di cose da dire ce ne sarebbero ancora tante!) un romanzo del genere, che incanta e interroga ad ogni nuova lettura (sono certa che se lo leggessi per la terza volta scoprirei qualcosa di nuovo) con la stessa intensità, è qualcosa di eccezionale, qualcosa per cui vale la pena faticare un po’.
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