Baldassarre Embriaco
Sud e magia
L'identità dispersa del Nord
Il Sud è stato massacrato dai piemontesi
che hanno rubato tutto quello
che era possibile prendere ma il
Nord, a conti fatti, si è trovato declassato
in seconda e terza fila. Hanno ragione
i “ter roni” ad alzare la voce ma i “po -
lentoni” hanno argomenti per sostenere
che l’unità d’Italia ha portato solo danni.
Chi ci ha guadagnato? I bersaglieri mandati
in Crimea, a morire di tifo per consentire
a Cavour di “sedersi al tavolo dei
vincitor i” e pronunciare un discorso sull’Italia
sotto il tallone dello straniero? I
fanti mandati all’assalto di San Martino e
stroncati dalla fucileria del generale austriaco
Bendeck? I contadini lombardi
che si trovarono i campi devastati dagli
eserciti che entravano e uscivano per
combattersi?
I VENETI , quando erano sotto il governo
austriaco, pagavano 11 lire di tasse e
ottenevano in cambio servizi di prim’or -
dine. Una volta “l i b e ra t i ”, le imposte sono
salite immediatamente a 31 lire ma senza
benefici. Le strade e i “passanti” li chiedono
ancora oggi, senza risultati apprezzabili.
Chi la voleva l’Italia unita? I milanesi,
nelle cinque giornate, si ribellarono
all’amministrazione austro-ungarica perché
volevano essere indipendenti. A forzare
le categorie della storia, attribuendo
loro un linguaggio più moderno, alzarono
le barricate al grido di “Vienna ladrona”.
Volevano affrancarsi dallo straniero
ma nessuno, nemmeno i più risoluti fra i
patrioti, pensava di diventare suddito di
Torino. La controprova viene dagli avvenimenti
del 1859 quando, con la Seconda
guerra d’indipendenza e l’aiuto di Napoleone
III, il Piemonte si allargò alla Lombardia.
Per dare una rappresentanza compiuta
al nuovo regno, nel governo sabaudo,
venne nominato Gabrio Casati, uno
degli animatori delle “cinque giornate”.
Tempo qualche settimana e il neo ministro
sbatté la porta, presentando
una lettera di dimissioni
che, ridotta in soldoni, diceva:
“Non eravamo d’accor -
do così...!”. Avevano immaginato
uno Stato dove tutte le
realtà potevano esprimersi
autonomamente e dove le eccellenze
degli uni potevano
essere un riferimento per gli
altri. Invece, si scelse la strada
della piemontesizzazione
delle conquiste e, in una notte,
i nuovi cittadini si videro
piombare addosso una montagna
di decreti con migliaia
di articoli di legge che abrogavano
i loro usi e i loro costumi
e li costringevano ad assumere
quelli di altri. Anche
la Sicilia, a ben guardare, si
mosse sulla stessa lunghezza
d’onda. Accolsero Garibaldi e
i Mille con entusiasmo perché
i contadini volevano la terra e gli amministratori
volevano far da sé. Anche
qui, a voler usare il linguaggio più moderno,
insorsero al grido di “Napoli ladrona!”
Ma aspirare all’indipendenza da Napoli
(che era pur sempre la terza capitale europea)
non significava accettare di diventare
cittadini di Torino.
BETTINO Ricasoli, da Firenze, chiedeva
autonomia per la Toscana. Marco Minghetti,
da Bologna, voleva l’autogoverno della
Romagna. Tutti zittiti e tutti delusi. L’Italia
unita – così come è andata costruendosi –
servì a un manipolo di politicanti e di finanzieri
che governavano in piccolo e si
ritrovarono a governare più in grande.
Conveniente. Si arricchirono anche se i loro
guadagni non furono il risultato di aumento
della produzione e non consentirono
la creazione di un posto di lavoro in più.
E troppe storie di vessazioni, ruberie e malversazioni
attraversano le vicende del Risorgimento.
Questi 150 anni dell’unità d’Italia
sono una ricorrenza e a ricordarlo è,
prima di tutto, la burocrazia del tempo. Ma
fra tutti – capi di Stato, autorità pubbliche,
convertiti attempati, inventori e sfruttatori
di polemiche politiche – non pretendano
che ci si metta anche
una dose di entusiasmo
supplementare.
di Lorenzo Del Boca
Il Sud è stato massacrato dai piemontesi
che hanno rubato tutto quello
che era possibile prendere ma il
Nord, a conti fatti, si è trovato declassato
in seconda e terza fila. Hanno ragione
i “ter roni” ad alzare la voce ma i “po -
lentoni” hanno argomenti per sostenere
che l’unità d’Italia ha portato solo danni.
Chi ci ha guadagnato? I bersaglieri mandati
in Crimea, a morire di tifo per consentire
a Cavour di “sedersi al tavolo dei
vincitor i” e pronunciare un discorso sull’Italia
sotto il tallone dello straniero? I
fanti mandati all’assalto di San Martino e
stroncati dalla fucileria del generale austriaco
Bendeck? I contadini lombardi
che si trovarono i campi devastati dagli
eserciti che entravano e uscivano per
combattersi?
I VENETI , quando erano sotto il governo
austriaco, pagavano 11 lire di tasse e
ottenevano in cambio servizi di prim’or -
dine. Una volta “l i b e ra t i ”, le imposte sono
salite immediatamente a 31 lire ma senza
benefici. Le strade e i “passanti” li chiedono
ancora oggi, senza risultati apprezzabili.
Chi la voleva l’Italia unita? I milanesi,
nelle cinque giornate, si ribellarono
all’amministrazione austro-ungarica perché
volevano essere indipendenti. A forzare
le categorie della storia, attribuendo
loro un linguaggio più moderno, alzarono
le barricate al grido di “Vienna ladrona”.
Volevano affrancarsi dallo straniero
ma nessuno, nemmeno i più risoluti fra i
patrioti, pensava di diventare suddito di
Torino. La controprova viene dagli avvenimenti
del 1859 quando, con la Seconda
guerra d’indipendenza e l’aiuto di Napoleone
III, il Piemonte si allargò alla Lombardia.
Per dare una rappresentanza compiuta
al nuovo regno, nel governo sabaudo,
venne nominato Gabrio Casati, uno
degli animatori delle “cinque giornate”.
Tempo qualche settimana e il neo ministro
sbatté la porta, presentando
una lettera di dimissioni
che, ridotta in soldoni, diceva:
“Non eravamo d’accor -
do così...!”. Avevano immaginato
uno Stato dove tutte le
realtà potevano esprimersi
autonomamente e dove le eccellenze
degli uni potevano
essere un riferimento per gli
altri. Invece, si scelse la strada
della piemontesizzazione
delle conquiste e, in una notte,
i nuovi cittadini si videro
piombare addosso una montagna
di decreti con migliaia
di articoli di legge che abrogavano
i loro usi e i loro costumi
e li costringevano ad assumere
quelli di altri. Anche
la Sicilia, a ben guardare, si
mosse sulla stessa lunghezza
d’onda. Accolsero Garibaldi e
i Mille con entusiasmo perché
i contadini volevano la terra e gli amministratori
volevano far da sé. Anche
qui, a voler usare il linguaggio più moderno,
insorsero al grido di “Napoli ladrona!”
Ma aspirare all’indipendenza da Napoli
(che era pur sempre la terza capitale europea)
non significava accettare di diventare
cittadini di Torino.
BETTINO Ricasoli, da Firenze, chiedeva
autonomia per la Toscana. Marco Minghetti,
da Bologna, voleva l’autogoverno della
Romagna. Tutti zittiti e tutti delusi. L’Italia
unita – così come è andata costruendosi –
servì a un manipolo di politicanti e di finanzieri
che governavano in piccolo e si
ritrovarono a governare più in grande.
Conveniente. Si arricchirono anche se i loro
guadagni non furono il risultato di aumento
della produzione e non consentirono
la creazione di un posto di lavoro in più.
E troppe storie di vessazioni, ruberie e malversazioni
attraversano le vicende del Risorgimento.
Questi 150 anni dell’unità d’Italia
sono una ricorrenza e a ricordarlo è,
prima di tutto, la burocrazia del tempo. Ma
fra tutti – capi di Stato, autorità pubbliche,
convertiti attempati, inventori e sfruttatori
di polemiche politiche – non pretendano
che ci si metta anche
una dose di entusiasmo
supplementare.
di Lorenzo Del Boca