Da qualche giorno seguo questa discussione nata per caso e correttamente elevata a livello di 3d autonomo perché in verità fa riflettere assai. Esiste un’età giusta per fare le “cose”? Trovo molto sensate le considerazioni di D e di Ira, come dire di buon senso. La risposta in sostanza è: dipende da caso a caso. Lascia forse il tempo che trova come risposta ma credo ci sia molto del vero: rende conto del fatto che ogni singola individualità, ogni singolo percorso, e questo è un fatto della vita, è unico, e, aggiungerei, irripetibile.
Volendo fare un passetto in più nel ragionamento, mi verrebbe da partizionare in due insiemi queste famose “cose”, ossia l’oggetto di riflessione per cui stiamo qui cercando di stabilire se esista o meno un giusto tempo e se si quale. Ed ancora se e in che misura altri esterni al singolo possano ed a che titolo entrare nel processo decisionale o comunque dire la loro. In generale che ciascuno parli "per sé" e dica "la sua" direi che c'è ben poco da discutere.
Le partizionerei sostanzialmente in due categorie le "cose": quelle che si richiudono su sé stessi, che non hanno conseguenze, o almeno conseguenze primarie al di fuori di noi da un lato, e quelle che non si richiudono su sé stessi, che implicano effetti e conseguenze su altri, implicazioni sulle altrui vite. Nel primo caso ricadono, a titolo di esempio, gli studi: come quando e così via. Nel secondo, sempre a titolo di esempio i rapporti amicali, affettivi, di genitorialità, aspetto quest’ultimo che costituisce un sottoinsieme della seconda tipologia ancor più delicato in quanto relativo a minori, persone cioè che non possono (con forza di legge almeno) dire la loro, della cui vita, fino a maggiore età almeno, sono altri a disporre.
Credo che in questa sostanziale differenza tra ciò che in qualche modo è autoreferenziale e ciò che invece non lo è, sia annidato un crinale discriminate che forza e costringe a considerazioni di diversa natura.
Per la prima tipologia non credo possano sussistere dubbi né credo ci sia granché da discutere: il giusto tempo è interamente demandato alla scelta del singolo che opererà perseguendo come è capace e come può la propria attitudine, soddisfazione, crescita e felicità. Facendosi carico peraltro delle conseguenze nel bene e del male delle sue scelte. Va da sé che lo studio per propria soddisfazione personale non ha tempo mentre quello finalizzato a fini professionali ha i suoi tempi, di mercato, per esempio.
Altrettanto dicasi per le “cose” ricadenti nella seconda categoria sottospecie numero 1, quella relativa ai rapporti tra persone adulte e consenzienti. Potremo approvare o meno in cuor nostro questo o quel comportamento o scelta, ma sicuramente non arrogarci, neppur lontanamente, il diritto di sindacare in merito. Le persone coinvolte saranno ben in grado di decidere cosa è “buono” per loro o di contro, se necessario, di difendersi con i modi che la circostanza richiede.
Resta infine il caso in diversi dei precedenti post discusso della genitorialità. In realtà quel che resta è parte di esso, l’aspetto relativo adozioni in sostanza, nonché quello relativo all’avvalersi dei mezzi di procreazione assistita che la scienza offre. Perché a tutto il resto, ancora una volta, provvede madre natura. Non si può certo impedire a chicchessia di avere rapporti con chi voglia a qualunque età voglia e relative possibilità di procreazione sia egli od ella parte di una coppia che possiamo in cuor nostro (e sottolineo in cuor nostro) giudicare inadeguata o single o qualunque altra tipologia e circostanza de facto ci possa sovvenire alla mente. In questi casi si avrà l’infinita gamma di possibilità che la vita mette in scena da sempre: dall’amore più disinteressato e puro agli egoismi più meschini ed abietti, con ciò attraversando tutte le gradazioni intermedie nessuna esclusa.
Restano infine i due aspetti che menzionavo, dicevo, procreazione assistita ed adozione (la faccio semplice senza dettagliare oltre tra i vari istituti, come l’affido per esempio…) In entrambi i casi si tratta di legiferare, visto che in entrambi i casi é richiesto un intervento pubblico, se non all’ottimo, al meglio possibile per lo meno, e la cosa non è semplice: cosa deve fare lo Stato per agire al meglio, secondo giustizia, tenendo conto di tutti i fattori in gioco?
Quanto sostenuto da alcuni, per esempio da mame (almeno così come l’ho compreso io) sulla base del campionario indubbiamente esistente di varia umanità credo porti ad un inaccettabile approccio al ribasso: poiché tutto, o almeno parecchio fa schifo, e tutto, o almeno parecchio, può capitare in termini di disgrazie varie, difficilmente possiamo far di peggio intervenendo noi: probabilmente possiamo far di meglio.
Se si pone però mente all’unica cosa cui si dovrebbe porre mente cioè il bene del minore, (di cui con sorpresa vedo poche tracce nei precedenti post dove tutto è molto adulto-centrico) non mi sento di condividerlo. Bisogna invece a mio parere, puntare alto, al meglio. Quale che sia questo meglio: questa la questione.
Verosimilmente un padre ed una madre, entrambi, ed i migliori possibili o i migliori che sia umanamente possibile "screenare", nonché in età tale che sperabilmente la salute e la forza li assistano per assolvere al loro compito e non pianificare de jure alcunché di meno. Ritengo infatti che entrambe le figure siano fondamentali e non opzionali.
Si può fare a meno in toto o in parte di quanto sopra? Sono possibili serene e piene felicità “senza” e indicibili disperazioni “con”? Certo. La vita lo dimostra. Ma pianificarne e consentirne per legge la possibilità mi sembra una ingiustizia nei confronti del minore appunto, al quale almeno in termini probabilistici credo vada dato il massimo delle possibilità. Se è vero che le disgrazie possono accadere non credo sia un buon motivo per consentire di pianificare ab origine una massimizzazione delle probabilità, quando non la certezza, di un orfano di padre o di madre.
Non so se le leggi in vigore in Italia siano oppure no le migliori possibili, e sicuramente tutto è perfettibile. Ma credo che a tali criteri debbano essere improntate, a dire con la sola, unica e prevalente cura e preoccupazione di difendere e massimizzare gli interessi del minore. Cioè di chi la “sua” non la può dire, e "per sé" non può parlare.