Diego Repetto
New member
Il baco e la farfalla (capitolo 20)
Febbraio 1960
Sentii un fluido viscoso colare lungo le natiche e un liquido caldo bagnarmi le cosce. Il fetore si diffuse rapidamente nell’atmosfera insalubre della cella. Il fascio di luce che penetrava dalla finestrella vicino al soffitto illuminava il pulviscolo sospeso nell’aria fredda e umida. Immaginai i gas fuoriusciti dalle mie viscere mischiarsi alle molecole di ossigeno e mi domandai se fosse possibile morire soffocati dalle esalazioni dei propri escrementi.
Dall’inclinazione dei raggi solari calcolai che doveva essere pomeriggio inoltrato. Avrei dovuto aspettare ancora due o tre ore prima di essere spruzzato. Rabbrividii al pensiero del metallo bagnato a contatto con la pelle. Erano già due giorni che ero legato, nudo, a quella gelida tavola di ferro con un ampio foro circolare all’altezza del sedere. Isolamento rieducativo, così lo chiamavano. Era la punizione più temuta dai detenuti. C’ero finito per uno stupido screzio con una guardia frustrata. Mi aveva preso di mira da alcune settimane, ogni suo sguardo o parola erano state una provocazione. Quando, saturo della sua subdola prepotenza, avevo reagito insultandola, una smorfia sadica e un ghigno feroce mi avevano gelato il sangue.
Il suono metallico del chiavistello riecheggiò nello spazio vuoto.
“Puah, che schifo! La tua merda puzza più di un animale putrefatto” esclamò la guardia di turno.
“Lavalo” ordinò l’uomo che la accompagnava.
La guardia sollevò la coperta, afferrò il tubo di gomma, aprì al massimo il rubinetto e mi sparò addosso il getto potente di acqua ghiacciata. Quando si accanì sui genitali strinsi i denti e sopportai in silenzio il dolore. Avevo imparato che il sadismo di alcune guardie durava meno se non era alimentato da urla e suppliche.
“È tutto suo, dottore”.
Il medico del carcere si avvicinò e mi analizzò con una rapida occhiata.
“Come si sente?” domandò con tono professionale, lo stesso che avrebbe usato se si fosse trovato di fronte a un paziente nel suo studio privato.
La mia permanenza in quel posto dipendeva dal mio autocontrollo. Il giorno prima, alla medesima domanda, avevo risposto mandandolo a quel paese. Si era rivolto serio alla guardia suggerendole di lasciarmi lì ancora un po’, perché ero troppo nervoso.
“Starei meglio altrove” ribattei, sforzandomi di rimanere calmo.
“Ah sì? E dove?”.
“Nella mia cella”.
“Eppure qui se ne può stare da solo, tranquillo... pensare... riflettere...”.
Si era spostato di fianco ai miei piedi, costringendomi a tenere sollevata la testa per poterlo vedere. La cinghia di cuoio premeva sul pomo d’Adamo, come a volerlo respingere in gola.
“In cella siete in tre in otto metri quadrati”. Chiuse gli occhi. “Nemmeno tre metri quadrati a testa” aggiunse dopo qualche secondo con un sorriso, fiero della propria rapidità di calcolo.
Sentii i muscoli del collo irrigidirsi. Abbandonai la testa all’indietro, cercando di non farla sbattere sulla tavola di ferro. Quell’uomo avrebbe fatto perdere la pazienza anche a un monaco buddista.
“Lo spazio non è un problema” mentii.
Si mosse nuovamente e si posizionò in modo che potessi guardarlo senza sollevare il capo.
“Però deve ammettere che qui ha delle comodità particolari. Per esempio, non deve fare la coda per andare in bagno”.
La guardia soffocò a stento una risata. Il medico si massaggiò il mento con l’indice e il pollice, compiaciuto che la propria ironia venisse apprezzata dal pubblico presente. Avvertii un formicolio propagarsi dalle dita alle mani fino alle braccia. Serrai i pugni. Il medico si accorse del gesto. I suoi occhi si accesero della soddisfazione di chi si considera ormai vincitore. Sentii i nervi cedere. Con un ultimo sforzo provai a ritardare la risposta, sostenuto dalla flebile speranza che accadesse qualcosa che mettesse fine a quel martirio psicologico.
Silenzio.
Le gocce d’acqua che cadevano sul pavimento bagnato dalla struttura metallica sulla quale giacevo scandivano il lento e inesorabile scorrere del tempo.
Respirai profondamente. Sentii l’aria fluire per il corpo, allentare le tensioni, massaggiare i muscoli, sciogliere le articolazioni, accarezzare i tendini. Il formicolio stava scomparendo. Ruotai leggermente il collo da una parte, poi dall’altra, come per verificarne la riacquistata mobilità.
“O forse preferisce fare i suoi bisogni in compagnia?”.
Si portò la mano destra davanti alla bocca e spalancò gli occhi, simulando un atteggiamento di scusa per avere azzardato tale ipotesi. La sensazione di scandalo che provava nel visualizzarsi la scena e che traspariva dal suo sguardo era invece reale.
“Ha ragione dottore, qui non ho fretta. Posso concentrarmi con calma, riflettere, pensare, immaginare che la sua orrenda faccia da culo sia qui sotto e ricoprirla di merda”.
Il viso gli si incendiò. Alzò il braccio per colpirmi, ma si ravvide un attimo prima di scaricare sul mio corpo inerme i cocci della sua autorità calpestata e offesa. Visibilmente seccato per aver perso, seppur per un istante, il controllo della situazione, mi diede le spalle e si avviò con passo deciso verso l’uscita, inseguito dalla guardia.
“Ti concederemo ancora un po’ di tempo per le tue fantasie” sentenziò sprezzante. “Non dimenticarti mai che non sei altro che un rifiuto della società, un piccolo stronzo insignificante. Fosse per me, ti lascerei marcire qui dentro per il resto della pena” concluse minaccioso prima di abbandonare la cella.
Il rumore freddo del chiavistello risuonò più forte di quando erano arrivati. La visita giornaliera era finita. Ero di nuovo solo in quel tugurio fetido. Mi assalì il panico. Non avrei resistito fino all’indomani. Ebbi l’impressione che le cinghie di cuoio si stringessero ancor di più intorno ai polsi e alle caviglie e che il soffitto mi crollasse addosso. Chiusi gli occhi con la speranza, vana, di addormentarmi in fretta.
Febbraio 1960
Sentii un fluido viscoso colare lungo le natiche e un liquido caldo bagnarmi le cosce. Il fetore si diffuse rapidamente nell’atmosfera insalubre della cella. Il fascio di luce che penetrava dalla finestrella vicino al soffitto illuminava il pulviscolo sospeso nell’aria fredda e umida. Immaginai i gas fuoriusciti dalle mie viscere mischiarsi alle molecole di ossigeno e mi domandai se fosse possibile morire soffocati dalle esalazioni dei propri escrementi.
Dall’inclinazione dei raggi solari calcolai che doveva essere pomeriggio inoltrato. Avrei dovuto aspettare ancora due o tre ore prima di essere spruzzato. Rabbrividii al pensiero del metallo bagnato a contatto con la pelle. Erano già due giorni che ero legato, nudo, a quella gelida tavola di ferro con un ampio foro circolare all’altezza del sedere. Isolamento rieducativo, così lo chiamavano. Era la punizione più temuta dai detenuti. C’ero finito per uno stupido screzio con una guardia frustrata. Mi aveva preso di mira da alcune settimane, ogni suo sguardo o parola erano state una provocazione. Quando, saturo della sua subdola prepotenza, avevo reagito insultandola, una smorfia sadica e un ghigno feroce mi avevano gelato il sangue.
Il suono metallico del chiavistello riecheggiò nello spazio vuoto.
“Puah, che schifo! La tua merda puzza più di un animale putrefatto” esclamò la guardia di turno.
“Lavalo” ordinò l’uomo che la accompagnava.
La guardia sollevò la coperta, afferrò il tubo di gomma, aprì al massimo il rubinetto e mi sparò addosso il getto potente di acqua ghiacciata. Quando si accanì sui genitali strinsi i denti e sopportai in silenzio il dolore. Avevo imparato che il sadismo di alcune guardie durava meno se non era alimentato da urla e suppliche.
“È tutto suo, dottore”.
Il medico del carcere si avvicinò e mi analizzò con una rapida occhiata.
“Come si sente?” domandò con tono professionale, lo stesso che avrebbe usato se si fosse trovato di fronte a un paziente nel suo studio privato.
La mia permanenza in quel posto dipendeva dal mio autocontrollo. Il giorno prima, alla medesima domanda, avevo risposto mandandolo a quel paese. Si era rivolto serio alla guardia suggerendole di lasciarmi lì ancora un po’, perché ero troppo nervoso.
“Starei meglio altrove” ribattei, sforzandomi di rimanere calmo.
“Ah sì? E dove?”.
“Nella mia cella”.
“Eppure qui se ne può stare da solo, tranquillo... pensare... riflettere...”.
Si era spostato di fianco ai miei piedi, costringendomi a tenere sollevata la testa per poterlo vedere. La cinghia di cuoio premeva sul pomo d’Adamo, come a volerlo respingere in gola.
“In cella siete in tre in otto metri quadrati”. Chiuse gli occhi. “Nemmeno tre metri quadrati a testa” aggiunse dopo qualche secondo con un sorriso, fiero della propria rapidità di calcolo.
Sentii i muscoli del collo irrigidirsi. Abbandonai la testa all’indietro, cercando di non farla sbattere sulla tavola di ferro. Quell’uomo avrebbe fatto perdere la pazienza anche a un monaco buddista.
“Lo spazio non è un problema” mentii.
Si mosse nuovamente e si posizionò in modo che potessi guardarlo senza sollevare il capo.
“Però deve ammettere che qui ha delle comodità particolari. Per esempio, non deve fare la coda per andare in bagno”.
La guardia soffocò a stento una risata. Il medico si massaggiò il mento con l’indice e il pollice, compiaciuto che la propria ironia venisse apprezzata dal pubblico presente. Avvertii un formicolio propagarsi dalle dita alle mani fino alle braccia. Serrai i pugni. Il medico si accorse del gesto. I suoi occhi si accesero della soddisfazione di chi si considera ormai vincitore. Sentii i nervi cedere. Con un ultimo sforzo provai a ritardare la risposta, sostenuto dalla flebile speranza che accadesse qualcosa che mettesse fine a quel martirio psicologico.
Silenzio.
Le gocce d’acqua che cadevano sul pavimento bagnato dalla struttura metallica sulla quale giacevo scandivano il lento e inesorabile scorrere del tempo.
Respirai profondamente. Sentii l’aria fluire per il corpo, allentare le tensioni, massaggiare i muscoli, sciogliere le articolazioni, accarezzare i tendini. Il formicolio stava scomparendo. Ruotai leggermente il collo da una parte, poi dall’altra, come per verificarne la riacquistata mobilità.
“O forse preferisce fare i suoi bisogni in compagnia?”.
Si portò la mano destra davanti alla bocca e spalancò gli occhi, simulando un atteggiamento di scusa per avere azzardato tale ipotesi. La sensazione di scandalo che provava nel visualizzarsi la scena e che traspariva dal suo sguardo era invece reale.
“Ha ragione dottore, qui non ho fretta. Posso concentrarmi con calma, riflettere, pensare, immaginare che la sua orrenda faccia da culo sia qui sotto e ricoprirla di merda”.
Il viso gli si incendiò. Alzò il braccio per colpirmi, ma si ravvide un attimo prima di scaricare sul mio corpo inerme i cocci della sua autorità calpestata e offesa. Visibilmente seccato per aver perso, seppur per un istante, il controllo della situazione, mi diede le spalle e si avviò con passo deciso verso l’uscita, inseguito dalla guardia.
“Ti concederemo ancora un po’ di tempo per le tue fantasie” sentenziò sprezzante. “Non dimenticarti mai che non sei altro che un rifiuto della società, un piccolo stronzo insignificante. Fosse per me, ti lascerei marcire qui dentro per il resto della pena” concluse minaccioso prima di abbandonare la cella.
Il rumore freddo del chiavistello risuonò più forte di quando erano arrivati. La visita giornaliera era finita. Ero di nuovo solo in quel tugurio fetido. Mi assalì il panico. Non avrei resistito fino all’indomani. Ebbi l’impressione che le cinghie di cuoio si stringessero ancor di più intorno ai polsi e alle caviglie e che il soffitto mi crollasse addosso. Chiusi gli occhi con la speranza, vana, di addormentarmi in fretta.