Repetto, Diego - IL BACO E LA FARFALLA - Un'incredibile storia vera

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 20)

Febbraio 1960

Sentii un fluido viscoso colare lungo le natiche e un liquido caldo bagnarmi le cosce. Il fetore si diffuse rapidamente nell’atmosfera insalubre della cella. Il fascio di luce che penetrava dalla finestrella vicino al soffitto illuminava il pulviscolo sospeso nell’aria fredda e umida. Immaginai i gas fuoriusciti dalle mie viscere mischiarsi alle molecole di ossigeno e mi domandai se fosse possibile morire soffocati dalle esalazioni dei propri escrementi.
Dall’inclinazione dei raggi solari calcolai che doveva essere pomeriggio inoltrato. Avrei dovuto aspettare ancora due o tre ore prima di essere spruzzato. Rabbrividii al pensiero del metallo bagnato a contatto con la pelle. Erano già due giorni che ero legato, nudo, a quella gelida tavola di ferro con un ampio foro circolare all’altezza del sedere. Isolamento rieducativo, così lo chiamavano. Era la punizione più temuta dai detenuti. C’ero finito per uno stupido screzio con una guardia frustrata. Mi aveva preso di mira da alcune settimane, ogni suo sguardo o parola erano state una provocazione. Quando, saturo della sua subdola prepotenza, avevo reagito insultandola, una smorfia sadica e un ghigno feroce mi avevano gelato il sangue.

Il suono metallico del chiavistello riecheggiò nello spazio vuoto.
“Puah, che schifo! La tua merda puzza più di un animale putrefatto” esclamò la guardia di turno.
“Lavalo” ordinò l’uomo che la accompagnava.
La guardia sollevò la coperta, afferrò il tubo di gomma, aprì al massimo il rubinetto e mi sparò addosso il getto potente di acqua ghiacciata. Quando si accanì sui genitali strinsi i denti e sopportai in silenzio il dolore. Avevo imparato che il sadismo di alcune guardie durava meno se non era alimentato da urla e suppliche.
“È tutto suo, dottore”.
Il medico del carcere si avvicinò e mi analizzò con una rapida occhiata.
“Come si sente?” domandò con tono professionale, lo stesso che avrebbe usato se si fosse trovato di fronte a un paziente nel suo studio privato.
La mia permanenza in quel posto dipendeva dal mio autocontrollo. Il giorno prima, alla medesima domanda, avevo risposto mandandolo a quel paese. Si era rivolto serio alla guardia suggerendole di lasciarmi lì ancora un po’, perché ero troppo nervoso.
“Starei meglio altrove” ribattei, sforzandomi di rimanere calmo.
“Ah sì? E dove?”.
“Nella mia cella”.
“Eppure qui se ne può stare da solo, tranquillo... pensare... riflettere...”.
Si era spostato di fianco ai miei piedi, costringendomi a tenere sollevata la testa per poterlo vedere. La cinghia di cuoio premeva sul pomo d’Adamo, come a volerlo respingere in gola.
“In cella siete in tre in otto metri quadrati”. Chiuse gli occhi. “Nemmeno tre metri quadrati a testa” aggiunse dopo qualche secondo con un sorriso, fiero della propria rapidità di calcolo.
Sentii i muscoli del collo irrigidirsi. Abbandonai la testa all’indietro, cercando di non farla sbattere sulla tavola di ferro. Quell’uomo avrebbe fatto perdere la pazienza anche a un monaco buddista.
“Lo spazio non è un problema” mentii.
Si mosse nuovamente e si posizionò in modo che potessi guardarlo senza sollevare il capo.
“Però deve ammettere che qui ha delle comodità particolari. Per esempio, non deve fare la coda per andare in bagno”.
La guardia soffocò a stento una risata. Il medico si massaggiò il mento con l’indice e il pollice, compiaciuto che la propria ironia venisse apprezzata dal pubblico presente. Avvertii un formicolio propagarsi dalle dita alle mani fino alle braccia. Serrai i pugni. Il medico si accorse del gesto. I suoi occhi si accesero della soddisfazione di chi si considera ormai vincitore. Sentii i nervi cedere. Con un ultimo sforzo provai a ritardare la risposta, sostenuto dalla flebile speranza che accadesse qualcosa che mettesse fine a quel martirio psicologico.
Silenzio.
Le gocce d’acqua che cadevano sul pavimento bagnato dalla struttura metallica sulla quale giacevo scandivano il lento e inesorabile scorrere del tempo.
Respirai profondamente. Sentii l’aria fluire per il corpo, allentare le tensioni, massaggiare i muscoli, sciogliere le articolazioni, accarezzare i tendini. Il formicolio stava scomparendo. Ruotai leggermente il collo da una parte, poi dall’altra, come per verificarne la riacquistata mobilità.
“O forse preferisce fare i suoi bisogni in compagnia?”.
Si portò la mano destra davanti alla bocca e spalancò gli occhi, simulando un atteggiamento di scusa per avere azzardato tale ipotesi. La sensazione di scandalo che provava nel visualizzarsi la scena e che traspariva dal suo sguardo era invece reale.
“Ha ragione dottore, qui non ho fretta. Posso concentrarmi con calma, riflettere, pensare, immaginare che la sua orrenda faccia da culo sia qui sotto e ricoprirla di merda”.
Il viso gli si incendiò. Alzò il braccio per colpirmi, ma si ravvide un attimo prima di scaricare sul mio corpo inerme i cocci della sua autorità calpestata e offesa. Visibilmente seccato per aver perso, seppur per un istante, il controllo della situazione, mi diede le spalle e si avviò con passo deciso verso l’uscita, inseguito dalla guardia.
“Ti concederemo ancora un po’ di tempo per le tue fantasie” sentenziò sprezzante. “Non dimenticarti mai che non sei altro che un rifiuto della società, un piccolo stronzo insignificante. Fosse per me, ti lascerei marcire qui dentro per il resto della pena” concluse minaccioso prima di abbandonare la cella.
Il rumore freddo del chiavistello risuonò più forte di quando erano arrivati. La visita giornaliera era finita. Ero di nuovo solo in quel tugurio fetido. Mi assalì il panico. Non avrei resistito fino all’indomani. Ebbi l’impressione che le cinghie di cuoio si stringessero ancor di più intorno ai polsi e alle caviglie e che il soffitto mi crollasse addosso. Chiusi gli occhi con la speranza, vana, di addormentarmi in fretta.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 21)

Maggio 1961

“Sbrigati, il direttore vuole vederti”.
Da quando ero entrato in carcere avevo visto il direttore solamente una volta, il giorno dopo il mio arrivo. Mi aveva informato sulle regole da rispettare, sui miei diritti, pochi, e sui miei doveri, molti. Aveva parlato come se stesse dettando alla governante la lista della spesa, distante anni luce dalla stanza in cui ci trovavamo, evidentemente intento a sbrigare in fretta una pratica noiosa e ripetitiva.
Mi domandai come mai volesse incontrarmi. Saltai giù dalla branda, mi infilai svogliatamente la scarpe e la giacca e seguii la guardia che aveva interrotto la mia quiete pomeridiana. Sfilammo rapidi lungo il corridoio. Dalle celle oscure non si udiva nessun rumore, non si percepiva alcun segno della presenza degli altri reclusi. Sembrava di scorrere di fronte ai loculi freddi e silenziosi di un obitorio. Superammo tre cancelli controllati da altrettante guardie, ognuna delle quali non lesinò un’occhiata di disprezzo nei miei confronti. Finalmente ci fermammo di fronte a una porta bianca. La guardia bussò due volte e senza aspettare alcuna risposta impugnò la maniglia e aprì la porta.
“È qui con me, signor direttore” informò con riverenza.
“Bene, fallo entrare” riecheggiò dall’interno.
Rimasi immobile a un metro dalla soglia. La guardia mi lanciò uno sguardo come per dire: Beh sei sordo? Cosa fai lì impalato? Non indugiai oltre ed entrai nella stanza. Il direttore era seduto alla sua scrivania, un tavolo di legno scuro sul quale erano appoggiati solamente alcuni fogli e una foto in una cornice dorata che ritraeva l’uomo che avevo di fronte in compagnia di una donna e tre ragazzi. Restai in piedi in attesa che mi invitasse a sedermi sulla sedia che avevo di fianco. Non lo fece. Prese un foglio e lo scansionò rapidamente con gli occhi. Sbuffò.
“Sei finito tre volte in isolamento rieducativo negli ultimi sedici mesi. Vuoi stabilire un record?”.
“No” risposi prontamente.
“No, si-gno-re” mi corresse seccato. “Mi risulta che noi due non siamo né parenti né amici”.
“No, signore” ripetei.
“E allora? Mi puoi dare una spiegazione del tuo comportamento... inaccettabile?” domandò allargando le braccia.
“Non è colpa mia, signore” mi giustificai.
“Ah sì? E di chi sarebbe la colpa? Mia?”.
“No, signore. Delle guardie”.
“Smettila di esprimerti a monosillabi e spiegati meglio” mi esortò alzando la voce.
“Non credo di aver fatto nulla di male. Credo che alcune guardie ce l’abbiano con me, senza motivo. Io reagisco in base a come vengo trattato. Chi mi rispetta riceve rispetto. Chi invece non mi rispetta riceve...”. Lasciai in sospeso la frase, non sapendo come concluderla. Il direttore non ci fece caso.
“Bene, bene. Un duro dai solidi principi” disse con un tono di falsa ammirazione e iniziò a picchiettare con i polpastrelli sulla scrivania. Pensai che avrebbe chiamato la guardia e che sarei finito nuovamente in isolamento. L’idea di trascorrere nuovamente alcuni giorni in quel posto d’inferno mi terrorizzò.
“Sai leggere e scrivere?”.
La domanda mi colse di sorpresa.
“Sì... signore” risposi stupito.
“Voglio metterti alla prova e darti un’ultima opportunità. Da domani sarai il nuovo scrivano della tua sezione. È facile, vedrai. Una volta al giorno farai il giro delle celle prendendo nota degli ordini. Tabacco, cartine e il resto delle poche altre cose che sono permesse. Il venerdì passerai due volte, al mattino e al pomeriggio, dato che il sabato e la domenica non si raccolgono ordini. Dovrai anche riscuotere i soldi da ognuno, in anticipo. Verrà una guardia domattina e ti porterà una scatola, dei fogli e una matita. Tutto chiaro?”.
“Sì, signore”.
“Ti consiglio di non deludermi. Ora sparisci”.
Mi voltai di scatto e mi avviai verso la porta, sollevato per lo scampato pericolo e, allo stesso tempo, incuriosito dal mio nuovo incarico.

Il lavoro di scrivano risultò più semplice del previsto. Non tutti i detenuti ricevevano soldi da parenti o amici e in ogni caso le entrate erano dilazionate nel tempo. Ogni giorno gli ordini erano quindi scarsi e prendere nota dei desideri altrui si rilevò un compito tutt’altro che complicato. La nuova attività mi permise comunque di entrare in contatto con la maggior parte dei reclusi. In particolare divenni amico di Francesco Esposito, un ragazzo di Salerno che era dentro per aver rubato cinque lambrette blu. Lo avevano beccato quando provava a rivenderle all’uscita dello stadio dopo averle riverniciate di rosso. Francesco era figlio di un famoso avvocato, grazie al quale gli era stato inflitto il minimo della pena. In famiglia navigavano nell’oro e Francesco non aveva certo bisogno di rubare per poter sopravvivere. Una volta entrati in confidenza, gli domandai come mai avesse preso quella strada. Mi raccontò che suo padre lo aveva iscritto alla facoltà di legge, nonostante lui avesse tutt’altra vocazione rispetto al genitore. Anzi, il diritto gli faceva proprio schifo. Prendeva in mano un libro e gli veniva da vomitare. Provava una ripulsa così violenta nei confronti della legge che un bel giorno, un po’ per diversione, un po’ per ripicca, anziché studiarla, aveva deciso di violarla. La sua era stata una sfida contro la noia e la volontà paterna. Francesco riceveva regolarmente ogni settimana più soldi che tutti gli altri detenuti messi assieme. Appena seppe che io di soldi non ne ricevevo affatto, iniziò a comprare le sigarette anche per me.

Dopo che Enrico era stato scarcerato, avevo iniziato a trascorrere l’ora d’aria da solo. La panchina appariva più grande e quei sessanta minuti utili solamente ad alimentare la nostalgia per un amico che chissà dove si trovava in quel momento. Restavo a guardare la partita distrattamente, una volta avevo avuto perfino la tentazione di mettere in gioco me stesso e le mie caviglie. Mi avevano informato, con una delicatezza fuori dal comune, che di zoppi non sapevano che farsene. Avevo raccolto ciò che restava della mia dignità ed ero ritornato ad accomodarmi al solito posto, domandandomi perché mai avessi deciso di offrire gratuitamente a quell’accozzaglia senz’anima la possibilità di umiliarmi in quel modo.
Ora invece le cose erano cambiate. Ero lo scrivano, non più uno sconosciuto. Le persone mi riconoscevano, mi salutavano, si fermavano a discorrere in un’atmosfera di complicità.
Si consumò così il mio ultimo anno e mezzo di prigione, lentamente, senza più scintille, come l’ultimo tizzone rimasto acceso nel caminetto prima di andare a dormire.

Uscii di galera l’8 gennaio del 1963, tre mesi in anticipo rispetto alla data prevista. Francesco, che era stato scarcerato nell’autunno del ’62, era riuscito a convincere suo padre a pagare la penale per accorciare la mia permanenza dietro alle sbarre.
Il cancello principale si chiuse alle mie spalle con un tonfo sordo. In una borsa di pelle che mi aveva regalato Enrico custodivo le poche cose che mi appartenevano. Un soffio di vento gelido mi sferzò il viso e mi scompigliò i capelli. Pensai che ero libero, finalmente. Libero di correre, libero di urlare, libero di mangiare quando avevo fame e di dormire quando avevo sonno. Esonerato da stupidi, ripetitivi ed inutili compiti. Libero dagli sfoghi improvvisi di aguzzini frustrati e vigliacchi e dai loro ordini assurdi e crudeli. Eppure c’era qualcosa che mi turbava. Mi guardai attorno, spaesato. Non vidi nessuno. Non conoscevo la città, non sapevo dove andare, non avevo idea di come procurarmi un pezzo di pane. Dopo cinque lunghi anni avevo riacquistato la libertà e mi resi conto di non sapere ancora cosa farne.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 22 - prima parte)

Luglio 1963

L’afa avvolgeva la città togliendole il respiro poco a poco, come un boa che si attorciglia stretto intorno alla sua preda prima di ingurgitarla tutta intera. Le strade pullulavano di automobili, aumentate esponenzialmente in quantità e varietà rispetto al periodo precedente al mio ingresso in prigione. Aveva ragione Enrico, in cinque anni il mondo può cambiare. Ora girava tutto più rapidamente e non solamente i mezzi di trasporto. Milano era in continuo movimento, uomini e donne sfrecciavano instancabili giorno e notte, senza un attimo di pausa, accarezzando l’illusione di una nuova vita. Chi si ferma è perduto, ammonivano. Devi cogliere l’attimo, ripetevano. Una frenesia collettiva dalla quale nessuno era immune, una rincorsa furiosa all’avere dimenticandosi per strada l’essere, alla ricerca disperata di una felicità effimera, una raccolta compulsiva di beni di consumo comprati a rate. Meccanismi perversi di una bomba a orologeria pronta a esplodere da un momento all’altro e a infrangere per sempre il sogno comune di un benessere globale.
Per un lavoro non qualificato e sottopagato c’era da fare la coda. Più lunga era la coda, peggiori erano le condizioni offerte dal datore di lavoro. La babele di accenti da ogni parte d’Italia che riecheggiava nel vociare concitato delle persone in attesa era anch’essa un qualcosa di nuovo e sorprendente.
“Ho sentito dire che nei campi in meridione i pomodori stanno marcendo perché non c’è nessuno che li raccoglie” mi disse il ragazzo alle mie spalle nella fila di giovani che si erano presentati in quell’ufficio con la speranza di poter trascorrere le loro giornate future affiggendo in giro per la città cartelloni pubblicitari.
“E perché siamo tutti qui?” domandai.
“Ma tu ci andresti a farti il culo sotto il sole cocente per due lire? Qui è tutta un’altra storia. Fai un po’ di coda, è vero, però prima o poi un lavoro decente lo trovi”.
Cercai di scovare la differenza tra l’essere sotto il sole in mezzo a un campo nella campagna di Siracusa e sotto il sole in bilico su una scala nel centro di Milano. Doveva essere molto piccola, perché non la trovai.
Erano ormai sei mesi che ero fuori, ma ondeggiavo ancora alla ricerca del mio posto all’interno della società. Fino a quel momento mi ero arrangiato accettando qualche lavoretto qua e là, la maggior parte dei quali faticosi e poco gratificanti, e dormendo per strada o in ricoveri di fortuna. I miei trascorsi in carcere, non appena affioravano alla luce, rappresentavano un motivo più che sufficiente per sbattermi la porta in faccia senza troppi complimenti. Mi resi ben presto conto che l’indipendenza acquisita in prigione, quella a cui faceva riferimento Enrico, una volta fuori era a mala pena sufficiente per sopravvivere. Incominciavo a essere stanco della totale mancanza di prospettive per il mio futuro. Il non riuscire a immaginare cosa avrei fatto e dove mi sarei ritrovato nel giro di pochi mesi, a volte addirittura di giorni, mi stava facendo impazzire. Stavo avanzando in equilibrio precario lungo un percorso impervio senza sapere quanto fosse lungo e, soprattutto, cosa mi aspettasse alla meta. Scartai l’ipotesi di trasferirmi al Sud, l’idea di un lavoro stagionale non mi allettava per niente. Finita la stagione dei pomodori cosa sarebbe successo? Sarei andato a raccogliere l’uva? Troppa incertezza. L’assenza di punti di riferimento mi destabilizzava. Costanza aveva smesso di esserlo da tempo. La delusione iniziale per non avere ricevuto sue notizie durante gli anni del carcere si era trasformata prima in rancore e successivamente in odio, un odio molto simile a quello che avevo provato nei suoi confronti parecchi anni prima, quando nella mia testa di bambino che si affacciava all’adolescenza non era altro che una madre sconosciuta che mi aveva abbandonato appena nato.

Fu di fronte a un manifesto attaccato alla porta di un bar che ebbi l’idea di rivolgermi a chi, in un passato che mi sembrava lontanissimo, aveva ricoperto un ruolo importante nella mia vita. Una fotografia di alcune cime innevate occupava gran parte del manifesto. Nella parte superiore, in mezzo al cielo, capeggiava la scritta: “Sciare ad agosto? In Svizzera si può”. Più in basso c’era il nome della località e un numero di telefono. Rinunciai a un colloquio nel pomeriggio per essere assunto da un’azienda di elettrodomestici per le consegne a domicilio e mi avviai direttamente alla stazione.

“Un biglietto per Genova, solo andata”.
Dietro al vetro l’impiegato separò le labbra in un sorriso.
“Si trasferisce al mare? Beato lei, che invidia”.
“Non lo so, forse” risposi enigmatico.

A Genova Principe cambiai treno e salii sul diretto per Nizza. Scesi a Varazze e mi diressi alla stazione degli autobus. Quello per Piani d’Invrea sarebbe partito dopo un’ora. Approfittai per riempire lo stomaco in un bar preso d’assalto dai bagnanti in pausa pranzo.
Appena sceso dall’autobus raggiunsi la spiaggia. Rimasi incantato a fissare l’infinita distesa azzurra. Non riuscivo a credere che fossero trascorsi più di cinque anni dall’ultima volta che avevo visto il mare. Ogni ritaglio di costa però è diverso dall’altro, ogni baia ha la sua forma, ogni metro di spiaggia custodisce geloso il ricordo dei passi che l’hanno calpestato. Lo specchio d’acqua che avevo di fronte non lo vedevo da molto più tempo. Da lì ero partito dodici anni prima alla ricerca di mia madre. Ora lì ero tornato dopo averla persa, o forse senza averla mai veramente ritrovata. Mi spogliai sulla riva, mi immersi lentamente e lasciai che le tiepide acque del Mediterraneo lavassero via i ricordi più dolorosi.

Dopo essermi asciugato al sole, mi rivestii in fretta e presi il sentiero lungo la costa che portava alla Casa Svizzera. Il direttore si ricordava di me e mi accolse con lo stesso calore con cui mi aveva ricevuto quando mi ero presentato all’istituto poco più che bambino. Gli spiegai il motivo della mia visita e mi informò sul posto dove avrei trovato la persona che stavo cercando. Soggiogato dall’impazienza, rifiutai gentilmente l’invito a fermarmi a cena e non mi trattenni oltre. La casa che mi era stata indicata distava, secondo il direttore, una decina di minuti appena. La raggiunsi in meno di cinque. Suonai alla porta in preda a una vibrante eccitazione.
La signora Milton non era cambiata affatto. La vita agiata che aveva condotto durante gli anni in cui ci eravamo persi di vista ne aveva evidentemente rallentato l’invecchiamento. O forse si trattava soltanto di un’abile opera di occultamento e i segni dell’età erano minuziosamente celati sotto la solita generosa quantità di trucco. Io invece dovevo essere cambiato parecchio e dovetti rivelarle la mia identità per sradicare l’espressione di indifferenza che le si era dipinta sul volto quando aveva aperto la porta.
“Sono Guido. Non mi riconosce?”.
“Guido!” esclamò in un miscuglio di stupore e gioia. “Wow! Questa sì che è una sorpresa!”.
Mi abbracciò vigorosamente, mi stampò un paio di baci sulle guance e mi invitò a entrare. Il salone in cui mi fece accomodare era stato arredato senza badare a spese, l’aria che vi si respirava aveva l’odore dei soldi. Quel lusso, a cui non ero abituato, mi trasmise un’improvvisa euforia e la sensazione di essere capitato nel posto giusto. La signora Milton mi chiese un resoconto dettagliato degli ultimi dieci anni. Ascoltò senza distrarsi un attimo il mio racconto, in silenzio, limitandosi ad esternare le emozioni con subitanei movimenti degli occhi e grottesche smorfie del viso. Quando ebbi finito di parlare, si piegò leggermente in avanti per ridurre le distanze tra noi.
“Tutta questa storia è incredibile” sentenziò scuotendo la testa.
Notai con sorpresa che, nonostante fosse trascorso così tanto tempo, strascicava ancora le vocali e non aveva perso l’inconfondibile e divertente accento americano.
“Conosco una persona che potrebbe aiutarti” aggiunse con un sorriso.
Accolsi le sue parole come una liberazione. Le notti all’addiaccio, i pasti saltati e quelli di pessima qualità che sarebbe stato meglio saltare, le code infinite e le attese estenuanti, gli odori rancidi delle cucine dei ristoranti, il sole che brucia senza tregua l’epidermide, il calore emanato dall’asfalto che toglie il respiro, le esalazioni chimiche delle vernici per carrozzerie che saturano i polmoni, i pesi insopportabili di frigoriferi e lavatrici che sfiancano i muscoli e comprimono le articolazioni, tutto ciò mi apparve improvvisamente sfumato, flebile ricordo di un recente passato che già sentivo non appartenermi più.
“Sarebbe fantastico”.
“Allora non perdiamo tempo” disse alzandosi dalla poltrona.
Si avvicinò a una grossa scrivania, aprì un cassetto e ne estrasse un foglio bianco, un boccettino di inchiostro e una stilografica d’oro. Si accomodò su una sedia di legno simile a un trono, si schiarì la voce come se dovesse iniziare un discorso, intinse il pennino e incominciò a farlo scorrere rapido sulla carta, senza esitazioni, come se sapesse esattamente cosa scrivere.
Quando ebbe terminato, rilesse mentalmente ciò che aveva scritto, soffiò delicatamente sul foglio e dopo alcuni secondi me lo porse con un sorriso di soddisfazione. Presi il foglio e lessi a voce alta:

Carissimo Marco,
in nome della profonda e sincera amicizia che ci unisce e sempre ci unirà, ti affido Guido, affinché tu possa proteggerlo e guidarlo verso un futuro prospero e ricco di quella serenità che, senza meritarlo, gli è stata finora negata da un destino cieco e crudele. Perdonami se non mi dilungo oltre, lui stesso ti informerà dettagliatamente del perché della mia richiesta. Guido è per me come un figlio e sono sicura che ne avrai cura come se lo fosse anche per te.
Con immutata stima, auguro ogni bene a te e alla tua famiglia.
Jaqueline Milton


“È un amico, fidati, ti aiuterà” disse quando ebbi finito di leggere.
“Non so come ringraziarla, veramente” replicai emozionato.
“Non ce n’è bisogno. La vita è stata generosa con me, è il minimo che possa fare per una persona che non ha avuto la mia stessa fortuna. Più tardi proverò a contattare Marco per sapere se è a Milano. È sempre in giro per lavoro. Nel caso riuscissi a rintracciarlo, partirai domattina. Stanotte ti fermi qui, ormai è tardi per mettersi in viaggio ”.
La sera ci ritrovammo solamente noi due. Il marito era rientrato al paese natale per la morte improvvisa di un cugino. La cuoca ci deliziò il palato con una cena luculliana a base di pesce. Erano anni che non mi ritrovavo di fronte a tanta quantità e qualità. Divorai con foga antipasto, primo, secondo e dolce, preoccupato più di riempirmi lo stomaco che di assecondare la conversazione. La signora Milton non si offese, al contrario, parve divertita dalla mia voracità. Esagerai con il vino, un bianco profumato e leggero delle Cinque Terre, per la solerzia della mia ospite che si premurò di riempirmi il bicchiere non appena si accorgeva che era vuoto. Mi alzai da tavola barcollando e mi ritirai nella camera che mi era stata assegnata. Non ebbi la forza di spogliarmi e crollai prono con il viso affondato nel cuscino.

La mattina successiva la signora Milton mi informò che era riuscita a parlare al telefono con Marco, il quale si trovava a Milano. Vi sarebbe rimasto un altro paio di giorni. Terminata la colazione, tornai in camera, preparai la borsa, dedicando particolare attenzione nel riporre la lettera in una tasca interna, e raggiunsi l’ingresso dove mi attendeva la signora Milton. Sulla soglia mi abbracciò stretto e mi porse un foglio su cui aveva annotato un nome e un indirizzo: Marco Lomellini, via Petrarca 16.
“Abbi cura di te stesso, ragazzo mio. Buona fortuna”.
“Anche a lei”. E mi avviai a passo rapido verso la stazione.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 22 - seconda parte)

Durante il viaggio fissai ininterrottamente la borsa che giaceva solitaria sul portabagagli. Non sapevo nulla dell’amico misterioso della signora Milton, eppure sentivo che lì dentro, in quella lettera, era contenuta la mia occasione di riscatto.
Alla stazione di Milano presi un taxi, secondo le indicazioni che Lomellini aveva dato alla Milton. Era la prima volta e mentre mi accomodavo sul sedile posteriore pensai che finalmente la mia vita era cambiata.
Il tassista mi lasciò di fronte a un bel palazzo di quattro piani, con le balaustre dei balconi in marmo bianco e con meravigliosi affreschi su ampie zone della facciata. Non feci in tempo ad avvicinarmi che il portone si spalancò e davanti ai miei occhi si materializzò un signore sottile come un filo d’erba, fasciato in maniera impeccabile in un elegantissimo vestito scuro.
“La prego, mi segua. L’ingegnere la sta aspettando” disse dopo aver pagato il tassista.
Attraversammo un ampio ingresso dal quale partiva un lungo corridoio che percorremmo fino al fondo dove, oltrepassando un arco, sbucammo in un salone vasto e luminoso.
“Ben arrivato”.
Un uomo abbronzato di media statura, brizzolato, con il fisico asciutto, mi venne incontro porgendomi la mano. Indossava una camicia bianca con le maniche arrotolate e un paio di calzoni grigio scuro.
“Marco Lomellini” si presentò in un modo che mi parve eccessivamente formale. Poi si rivolse alla persona che mi aveva accompagnato. “Grazie Charles, lasciaci soli. Se ho bisogno ti chiamo”.
Il maggiordomo annuì e si allontanò richiudendo la porta del salone alle sue spalle.
“Bene. Voglio che ti senta come se fossi a casa tua. Ho già dato disposizioni a Charles di preparare la camera degli ospiti e informato Maria che da stasera ci sarà una bocca in più da sfamare. Resteremo qui fino a dopodomani, dopodiché mi accompagnerai in Emilia Romagna. Ho pensato che per il momento farai il custode della mia villa a Piacenza”.
Ero frastornato da tutta quell’efficienza. Restai impalato in mezzo alla stanza con le parole imprigionate in gola.
“Siediti, sarai stanco” mi invitò Lomellini indicandomi il divano. Poi si avviò verso una credenza dalla quale prelevò una bottiglia e due coppe di cristallo. Ne riempì una per metà.
“Vuoi? Cognac. Della migliore cantina francese. L’aroma e il sapore sono inconfondibili”. Avvicinò il naso al bicchiere e dopo averne annusato il contenuto emise un mugolio di piacere e approvazione.
“No, la ringrazio signor Lomellini”.
“Marco, ti prego. Chiamami Marco e dammi del tu. C’è già lo specchio che impietoso ogni mattina mi ricorda che sto invecchiando” sospirò come se si trovasse sul palcoscenico di un teatro. Avvicinò il bicchiere alle labbra e lo svuotò in un paio di sorsi.
Il suo modo di fare mi imbarazzava. Improvvisamente mi ricordai della lettera. Aprii la borsa, estrassi la busta e gliela porsi.
“Questa lettera è per lei... mmm... per te”.
Scosse la testa. Prese la busta e la gettò sul tavolino di fronte al divano.
“Jaqueline mi ha già detto tutto al telefono. Avanti, ti prego, racconta, non vedo l’ora di conoscere la tua storia in tutti i suoi dettagli. Sono tutto orecchi”.
Per quasi due ore mi ascoltò attento, senza mai interrompermi, scolandosi nel frattempo altre due mezze coppe di liquore. Terminai con la gola secca.
“Posso avere un bicchiere d’acqua per favore?”.
“Ma certo!” esclamò Lomellini e premette un bottone nero sulla parete di fianco alla poltrona su cui era seduto. Qualche istante dopo nella stanza entrò Charles.
“Desidera signore?”.
“Portami una caraffa con dell’acqua e un bicchiere. Grazie”.
Quando fummo nuovamente soli, mi appoggiò una mano sulla spalla e sorrise.
“Da oggi inizi una nuova vita. Mi prenderò cura di te come un figlio. Non dovrai più preoccuparti di trovare un lavoro. Non ti mancherà più nulla. Per qualsiasi cosa farai affidamento su di me. I tuoi problemi saranno i miei problemi. La tua felicità sarà la mia felicità”.
Non potevo neanche lontanamente immaginare quanto quelle parole sarebbero risultate vere e quello che Marco Lomellini avrebbe significato per il resto della mia vita. In quel momento mi giunsero solamente come una dolce carezza all’anima.
Con gli anni ebbi modo di conoscere a fondo Marco. Era così diverso dalla signora Milton che era difficile ipotizzare come potessero andare d’accordo. Pomposa e magniloquente lei, controllato e con un senso pratico fuori dal comune lui. Nonostante la curiosità, non gli domandai mai come fosse nato il legame di amicizia che li univa. Né lui mai me lo disse, non svelandomi ciò che per me resta tuttora un mistero.

Il giorno previsto per la partenza Charles mi svegliò quando fuori era ancora buio. Con un pizzico di disappunto dovetti rinunciare all’abbondante colazione che mi era stata servita il giorno prima. Lomellini, mi informò, mi stava già aspettando in garage. Voleva sempre essere presente quando Nino, il meccanico, controllava che l’Alfa fosse in perfette condizioni per affrontare un lungo viaggio.
“Non è che non mi fidi, Nino è in gamba” mi confidò una volta rinchiusi nell’abitacolo. “È che i motori sono una delle mie passioni. Meccanica era la mia materia preferita all’università. Dobbiamo ringraziare due ingegneri tedeschi, Daimler e Benz, se oggi possiamo spostarci così rapidamente da un posto all’altro. Sono loro che hanno inventato il motore a scoppio e costruito le prime automobili intorno al 1880. Non trovi curioso che l’uomo abbia dovuto attendere migliaia di anni dopo aver inventato la ruota per poterne sfruttare appieno le potenzialità?”.
Un’altra delle passioni di Marco era il fumo. Svuotava regolarmente un paio di pacchetti di Winston al giorno e più di una volta mi capitò di vederlo passare da una sigaretta all’altra senza soluzione di continuità.

Usciti dal traffico cittadino, premette deciso sull’acceleratore. Aveva chiaramente fretta di arrivare a Piacenza. Mi spiegò che lo aspettava una riunione importante nel primo pomeriggio e avremmo quindi pranzato prima del solito. Mi limitai ad annuire, ma dentro di me accolsi con gioia la notizia, visto che non ero riuscito a riempire lo stomaco prima della partenza. Marco si estraniò presto dalla conversazione trovando rifugio nel suo mondo interiore e trascorremmo il resto del viaggio in silenzio.
Avevamo da poco superato il cartello che indicava l’inizio della città che svoltammo a destra in una stradina sterrata che si inoltrava in linea retta in mezzo ai campi di grano. Dopo pochi minuti l’Alfa si arrestò con un sussulto di fronte a un grande cancello marrone. Marco scese dall’automobile e dopo averlo spalancato risalì e avanzò lentamente lungo un viale delimitato da due file ordinate di cipressi. Giunti in prossimità di una deliziosa villetta a due piani, spense il motore e mi invitò a seguirlo. Mi accompagnò di persona alla scoperta della mia nuova dimora. L’interno era stato ristrutturato di recente, riponendo particolare attenzione nel mantenere uno stile rustico nel quale pietre e mattoni a vista la facevano da padroni. Al primo piano si trovavano le camere da letto e i servizi. Al piano terra invece la cucina, la sala da pranzo, i servizi diurni, uno studio e una sala per le riunioni. Da quest’ultima si accedeva attraverso una scala a chiocciola al seminterrato in cui erano state ricavate una taverna e la cantina.
Marco mi illustrò il futuro con il suo tipico pragmatismo a cui mi stavo abituando in fretta.
“La tua stanza sarà pronta dopo pranzo. Non avrai compiti particolari, se non quello di controllare che il normale corso delle cose proceda regolarmente. Al giardino ci pensa Peppino, il giardiniere. Per il mangiare non dovrai preoccuparti, se ne occuperà Margherita. Ti farò recapitare ogni mese trentamila lire per soddisfare bisogni e desideri personali. Sono soldi tuoi, potrai farne ciò che vuoi e non dovrai renderne conto a nessuno”.
Servito e riverito, pagato per osservare che il lavoro svolto da altri procedesse senza intoppi. Non poteva essere la realtà, quella era diversa, la conoscevo bene io: era fatta di sudore, rabbia, dolore, morte. Quello che mi stava accadendo era incredibile, non poteva essere vero. Stavo vivendo in un sogno. Sorrisi, ringraziai Marco e sperai con tutto me stesso che fosse per sempre.

Fin dai primi giorni mi resi conto che l’incarico che mi era stato affidato era del tutto superfluo. La vita nella villa era ben organizzata e il lavoro di custode non incideva minimamente nel rendere tale organizzazione migliore o più efficace. Lomellini non aveva bisogno di un supervisore del lavoro altrui, mi aveva parcheggiato a Piacenza per fare un favore a una vecchia amica. Per me rappresentava comunque un’ottima sistemazione e mi limitai a svolgere il mio compito impegnandomi soprattutto a non rompere l’armonia che regnava tra le persone che, senza dubbio, ricoprivano ruoli più importanti del mio. Trascorrevo la maggior parte delle mie giornate nello studio, attingendo con famelica curiosità dagli scaffali ricolmi della libreria letture di ogni tipo. Il resto del tempo lo passavo sprofondato nella poltrona della sala di fronte a uno schermo, ammaliato dalle affascinanti immagini e dal cantico seducente di una sirena fino ad allora quasi sconosciuta che negli ultimi anni stava rapidamente invadendo luoghi pubblici e privati.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 23 - prima parte)

Luglio 1964

Entrai nello studio alla ricerca di una busta. Ne trovai una nel primo cassetto della scrivania. Estrassi dalla tasca dei pantaloni il pezzo di carta ingiallita su cui era annotato l’indirizzo e lo copiai in bella calligrafia sul retro della busta. Non ero sicuro che fosse ancora attuale, ma era l’unico in mio possesso. In ogni caso, pensai, se la famiglia di Francesco aveva nel frattempo cambiato indirizzo la lettera sarebbe ritornata indietro. Su un foglio bianco scrissi due righe scarne di spiegazione. Presi il mazzo di banconote e contai nuovamente i soldi. Li avevo accumulati pazientemente durante l’anno trascorso come custode della villa di Lomellini. Trecentodiecimila lire. La cifra pagata dal padre di Francesco per farmi uscire di prigione con tre mesi di anticipo, più diecimila lire di interessi. Sarei stato curioso di vedere la faccia dell’avvocato Esposito nell’aprire la busta. Sicuro che non si aspettava che gli venissero restituiti quei soldi. Mi sentii orgoglioso del gesto che stavo per compiere. Avvolsi le banconote in una pagina di giornale in modo che non si potessero intravvedere in controluce. Chiusi la busta, la riposi nella borsa di cuoio e lasciai lo studio. Se mi sbrigavo avrei trovato l’ufficio postale ancora aperto. Misi la borsa a tracolla e uscii in cortile. Inforcai la bicicletta e iniziai a pedalare più forte che potevo in direzione della città.
Arrivai trafelato nel momento in cui l’impiegato stava chiudendo la porta. Leggermente seccato, accettò di ritardare di qualche minuto la sua cena. Gli consegnai la lettera con un sorriso di riconoscenza e rimasi in attesa che la affrancasse e la ricoprisse con tutti i timbri necessari. Solamente quando la depose nel contenitore della posta in uscita lo salutai e abbandonai l’ufficio con aria soddisfatta. Ora non avevo più fretta. Presi il sentiero che si perdeva tra i campi. Era più lungo, ma all’improvviso ero stato assalito dal desiderio di respirare a fondo il profumo pulito della campagna.

All’imbrunire il rumore inconfondibile dell’Alfa risuonò nel cortile. Guardai con aria interrogativa Peppino che sollevò le spalle. Lomellini non arrivava mai in villa senza avvisare. Gli andai incontro.
“Ciao Marco. Questa sì che è una sorpresa! Non ti aspettavamo”.
Aveva l’aria stravolta.
“Arrivo da Roma. Ho guidato ininterrottamente per ore. Mi spiace, non mi sono fermato per avvisarvi del mio arrivo perché temevo di non riuscire a raggiungere Piacenza prima che facesse buio. Non è mia abitudine giungere all’improvviso senza avvertire” spiegò contrito.
Era casa sua, era lui il padrone, eppure si scusò come uno studente che ha fatto tardi a scuola. Marco era così, rispettava i suoi dipendenti come se fossero suoi superiori.
“Non ti preoccupare, sai che Margherita in dieci minuti è in grado di prepararti una cena che non mangeresti nemmeno nel miglior ristorante di tutta la provincia” lo rassicurai ridendo.
“Giusto il tempo per una doccia” commentò sollevato.

Avevo già cenato, ma mi sedetti a tavola per fargli compagnia.
“Sai guidare?” mi domandò a bruciapelo.
“Sì. Però non ho la patente” risposi interrogandomi sul perché della domanda.
“Per quella non c’è problema. Conosco un amico che te ne può procurare una provvisoria in attesa di quella vera”.
Col tempo mi sarei abituato al fatto che Lomellini, quando si metteva in testa qualcosa, era disposto a utilizzare anche metodi illegali pur di ottenerla. Per lui ciò che contava veramente era il fine e se quest’ultimo veniva giudicato utile e “legittimo”, il mezzo per raggiungerlo era, secondo una filosofia piuttosto diffusa, automaticamente giustificato. Era però la prima volta che mi scontravo in modo così diretto con questo suo modo di pensare e agire e ne rimasi colpito.
“Sarà questione di qualche settimana appena, non c’è bisogno di fare quella faccia” disse Marco a cui non era sfuggito il mio stupore. Si versò del vino e lo sorseggiò con gusto. “Sarai il mio autista” continuò. “L’azienda si sta espandendo rapidamente, abbiamo aperto filiali in tutta Italia. Entro la fine dell’anno è prevista l’apertura della prima filiale americana a San Paolo, in Brasile. Non faccio altro che muovermi da una parte all’altra per riunioni e incontri di lavoro. Dormo una media di cinque ore a notte. Gli spostamenti ultimamente si sono moltiplicati, non posso più guidare da una città all’altra. Arrivo troppo stanco a destinazione, non sono lucido, non sono efficiente come vorrei e dovrei. Adoro guidare, ma la mia passione per i motori e le automobili deve arrendersi all’evidenza. Da domani mi accompagnerai in giro per la penisola. Sarai la mia ombra”.
L’idea di abbandonare il mio esilio dorato non mi attirava per niente. Lomellini però non mi stava facendo una proposta. Come era nel suo stile, nella sua testa aveva già valutato la situazione, riflettuto sui pro e i contro, e mi stava semplicemente mettendo a conoscenza di una decisione già presa e insindacabile. Non avevo scelta. L’alternativa era ritornare a inseguire lavori precari e mal retribuiti. Fingere entusiasmo era la cosa più furba da fare per mantenere la buona relazione che si era instaurata tra noi.
“Sarò felice di seguirti su e giù per lo stivale” mentii. Poi aggiunsi, più sincero: “Il tuo mondo mi incuriosisce. E poi guidare l’Alfa sarà un’esperienza elettrizzante”.
Era vero, conoscere più a fondo la vita e il lavoro di Marco Lomellini mi intrigava. A quel tempo sapevo solamente che era un abilissimo ingegnere edile che dal nulla aveva costruito un enorme impero del cemento, ma ignoravo completamente la rete di conoscenze negli ambienti politici e il giro stratosferico di affari che ne facevano uno degli imprenditori più potenti di tutto il paese.
“Era quello che speravo di sentirti dire” disse compiaciuto. “Spero solo che non sia una delusione. Mi riferisco al mio mondo. L’Alfa è una garanzia!” e scoppiò in una risata.
Scrutai il volto di Marco. I segni della fatica erano scomparsi. Sprigionava buon umore, alimentato dalla fiducia cieca che riponeva nella sua capacità di far fronte a qualsiasi situazione. Il dubbio gli era alieno, così come la sconfitta. La sua sicurezza era contagiosa e stando con lui si era portati a ridimensionare le proprie paure e a rivedere quelli che si pensava fossero i propri limiti.
“Quando si parte?” domandai.
“Domani andiamo a Milano per vedere di risolvere la questione della patente. Martedì dobbiamo essere a Genova”.
Genova. Pensai ai vicoli stretti e bui del centro storico, agli antichi ed eleganti palazzi nobiliari, agli odori e ai rumori del porto. Ero legato a quella città. Il destino sembrava saperlo e periodicamente, come due amanti indecisi, ci faceva rincontrare.
“Allora vado a preparare la borsa. Ci vediamo domattina”.
“Partiremo presto” precisò Marco, inutilmente. Lui partiva sempre prima che sorgesse il sole.

Abbandonammo la villa cullata dal canto perpetuo delle cicale e prima che fossi completamente sveglio stavamo già correndo sulla statale verso ovest. Marco si dilungò a elogiare le doti aerodinamiche e la potenza del bolide su cui ci trovavamo. L’argomento non mi interessava particolarmente e approfittai di una sua pausa per accendersi una sigaretta per cambiare discorso.
“Non sei mai a casa, Marco, il lavoro ti assorbe completamente. Non ti manca mai la tua famiglia?”.
Era una domanda intima, non avevo idea di come avrebbe reagito.
“Mia moglie e i miei figli sono il mio tesoro. Mi piacerebbe poter trascorrere più tempo insieme a loro, ma so che con il mio lavoro posso garantirgli un avvenire fatto di prosperità e ricchezza in un paese moderno e sviluppato” disse tutto d’un fiato.
Immaginai il vuoto che Marco lasciava tra le sue persone più care, il paradosso di chi un padre lo avrebbe voluto ma non lo aveva più e chi un padre lo aveva ma non poteva goderselo perché impegnato a costruire il futuro piuttosto che condividere il presente. Potevano i soldi ricompensare l’assenza della persona amata? Poteva un futuro agiato fugare il ricordo di un passato che si sarebbe desiderato diverso? Ne aveva mai parlato Marco con sua moglie e con i suoi figli? Gli aveva mai chiesto che cosa pensassero della sua scelta di dedicarsi anima e corpo al lavoro, di agire e vivere per loro invece che insieme a loro?
“Ti sei ammutolito. A cosa pensi?” chiese Marco, interrompendo il flusso dei miei pensieri.
“Nulla” risposi titubante, preoccupato che avesse intuito ciò che mi era passato per la testa.
“In fondo è un tuo diritto non rendermi partecipe delle tue riflessioni”.
La sua replica aumentò ancor di più il mio imbarazzo e fui costretto a volgere lo sguardo fuori dal finestrino. Non vidi altro che una piatta distesa sconfinata. Sembrava che nei dintorni fosse tutto finito sotto una pressa gigantesca. Lo sviluppo invocato e auspicato da Marco consisteva nel rimodellare continuamente quell’enorme substrato, costruendo altre strade, progettando nuovi edifici, impiantando grandi e moderne industrie. Senza alcun timore di apparire presuntuoso, soleva ripetere di sentirsi investito dell’arduo ma allo stesso tempo stimolante compito di completare, con le sue costruzioni, l’opera che Dio aveva lasciato incompiuta. La macchina che aveva ideato e assemblato per realizzare il suo sogno doveva essere complessa e difficile da gestire. Decisi che era il momento di iniziare a conoscere meglio il mondo di Marco Lomellini.
“Come funziona un’azienda così grande come la tua? Come fai a mantenerne il controllo?”.
Socchiuse impercettibilmente gli occhi e stirò leggermente le labbra. Tardò qualche secondo prima di rispondere, come se ciò che stava per rivelare gli stesse particolarmente a cuore.
“Hai mai sentito parlare di olismo?”.
Era la prima volta che udivo quel termine. Scossi la testa.
“È una corrente filosofica secondo la quale le proprietà di un sistema non sono riconducibili a quelle dei singoli componenti. Considera per esempio i mattoncini elementari che compongono la materia. Ogni atomo preso singolarmente ha delle proprietà fisiche che sono diverse da quelle che presenta un insieme di atomi, anche se tutti identici. Sono le interazioni tra i vari atomi che formano il cristallo a determinarne le caratteristiche macroscopiche, per esempio la conducibilità elettrica, la durezza, le proprietà magnetiche”.
Marco soppesava le parole, come se stesse tenendo una lezione all’università di fronte a un’aula gremita. Con la coda dell’occhio si assicurò che lo stessi ascoltando.
“Per un’azienda vale la stessa cosa. Le capacità dei singoli sono certamente importanti. Una selezione oculata del personale è il primo passo verso un’impresa di successo. Ma non basta. Fondamentale è la rete che unisce i vari nodi. Sono le interazioni tra le parti che determinano il risultato finale, iniziando dalla comunicazione tra i vari dipartimenti fino a giungere alle relazioni tra i dipendenti, nessuno escluso. Occorre una struttura leggera, in cui lo scambio di informazioni possa avvenire in modo rapido ed efficace. Sarebbe una follia pretendere di controllare in prima persona ogni decisione, valutare ogni scelta. È necessario delegare e avere fiducia nei propri collaboratori. Uno dei compiti più difficili è far sì che si sentano responsabilizzati e, altro aspetto non trascurabile, soddisfatti del proprio lavoro. Questo vale, senza distinzione, dal capo progetto all’ultimo degli impiegati. Più le persone sono contente, più si impegnano per raggiungere gli obiettivi prefissati. Tanto più regna l’armonia, maggiore è la produttività dell’azienda”.
Era la sua vita e aveva le idee chiare. Interazione, responsabilità, soddisfazione, produttività. Tutte parole chiave per descrivere un gioiello di cui si sentiva estremamente orgoglioso. Dal suo discorso la felicità dei dipendenti appariva molto più uno strumento per ottenere il massimo profitto che un principio su cui basare le relazioni interpersonali. Mi venne in mente il rispetto che portava nei confronti di Margherita e Peppino. In che percentuale era sincero e quanto invece interessato per ricevere un servizio migliore? E anche se così fosse stato, perché avrei dovuto giudicare tale comportamento? In fondo non mi interessava. Avevo molto più di quanto potessi sperare, molto più di quanto mai avessi avuto. Personalmente non avevo nulla da rimproverargli, al contrario, mi sentivo in debito nei suoi confronti. Comunque, più che le questioni morali, erano gli aspetti tecnici a stimolare la mia curiosità. Marco aveva descritto una macchina perfetta. Era efficiente, ben organizzata, snella. Filava sempre tutto liscio o c’erano ogni tanto delle difficoltà da affrontare, dei problemi da risolvere?
“E funziona sempre tutto? O la pratica si discosta ogni tanto dalla teoria?”.
Rise.
“Sarebbe fantastico. Purtroppo non è così. Ci sono decisioni che non vengono prese senza prima consultarmi e l’ultima parola spetta sempre e comunque a me. È per questo che sono costretto a viaggiare in continuazione da una parte all’altra. Nel mio lavoro si incontrano spesso degli ostacoli, il segreto è non vederli mai come insormontabili”.
Il suo ottimismo era incredibile, sembrava che per lui nulla fosse impossibile. Mi accompagnerai in giro per la penisola, sarai la mia ombra. Mi era sempre mancato un punto di riferimento solido e sicuro, sul quale fare affidamento e appoggiarmi senza timore di cadere. Non lo era stato mio padre, troppo impegnato con la politica. Ancor meno mia madre. Lo era stato in parte Enrico, ma in una situazione particolare, circoscritta e difficilmente esportabile al di fuori del carcere. In ogni caso ne avevo perso completamente le tracce. Pensai che forse ora lo avevo incontrato. Si trovava di fianco a me. Guardai Marco e provai una sensazione di dolce euforia.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 23 - seconda parte)

Ci fermammo solamente una volta per una breve sosta. Lomellini non aveva risparmiato l’Alfa e Milano distava meno di venti chilometri. Giunti alla periferia della città, svoltammo sulla tangenziale. Dopo una decina di minuti eravamo a destinazione. Un deposito col tetto di lamiera si stagliava in prossimità di un bosco di faggi. Nonostante la strada proseguisse fino all’ingresso del capannone, Marco fermò la macchina a una cinquantina di metri e spense il motore.
“Dammi la tua foto e aspettami qui”.
Raggiunse a passo svelto l’entrata, bussò e rimase in attesa. Dopo qualche istante un uomo con indosso una tuta da meccanico apparve sulla soglia. Si scambiarono una stretta di mano e una pacca sulla spalla. Parlarono alcuni secondi, poi Marco gli porse la mia foto, lo salutò e ritornò verso la macchina.
“Entro stasera avrai una patente nuova di zecca”.

Lomellini trascorse il resto della mattinata in ufficio, io ingannai il tempo discorrendo con il portiere del palazzo.
Pranzammo in un raffinato ristorante con vista sul Castello Sforzesco. Lomellini conosceva il padrone e ci furono serviti piatti speciali che non facevano parte del menù.
Nel pomeriggio Marco si concesse eccezionalmente una mezza giornata di libertà. Mi propose di entrare nel duomo. Ci sedemmo su una panca uno di fianco all’altro, lui a mani incrociate, mormorando con gli occhi serrati e la bocca socchiusa alcune preghiere, io intento ad ammirare la vastità dello spazio in cui ci trovavamo e a scrutare le mosse dei pochi fedeli presenti all’interno della chiesa. Passeggiammo poi per le vie del centro. Ci infilammo in un negozio di vestiti da uomo e Marco insistette affinché ne provassi uno. L’abito mi calzava a pennello e non aveva bisogno di alcuna rifinitura.
“Ti sta benissimo” commentò compiaciuto.
Dopo aver scelto una cravatta anche per lui, pagò e proseguimmo il nostro giro a piedi.
Conoscevo Milano, uscito dal carcere c’ero sopravvissuto per sei mesi. Ora però era diverso, le mie prospettive erano cambiate. Percorrevo le stesse strade, eppure era come se vedessi quei palazzi per la prima volta, come se indossassi un paio di occhiali attraverso i quali non apparivano più sfumati e grigi, ma, finalmente, nitidi e colorati.
Poco prima del tramonto recuperammo l’Alfa e ritornammo nel luogo in cui eravamo stati al mattino. Di nuovo Marco accostò prima di giungere al capannone e proseguì a piedi. Nella penombra intravvidi un uomo uscire dal magazzino e consegnargli qualcosa. Marco si soffermò un istante ad analizzare ciò che gli era stato dato, poi infilò una mano nella tasca interna della giacca, estrasse alcune banconote e le porse al falsificatore.
La scena mi lasciò attonito. In galera ero entrato in contatto con il vasto e variegato universo della criminalità. Sapevo di persone che all’ombra di un lavoro legale si dedicavano a ben più remunerative attività illecite. Ciò che mi disorientava era come il mondo regolare potesse intrecciarsi con apparente disinvoltura con quello irregolare. Lomellini, che consideravo appartenente al primo, non aveva avuto alcuna difficoltà a rivolgersi al secondo per ottenere un documento falso. L’uomo con la tuta da meccanico costituiva un nodo della rete a cui aveva fatto riferimento Marco per descrivere il funzionamento della sua azienda? Il rumore della portiera interruppe i miei pensieri.
“Ha fatto un ottimo lavoro. Il foglio è stato leggermente consumato di proposito. In un controllo, uno troppo nuovo darebbe adito a sospetti. Ora scendi, siediti qui e fammi vedere se ne è valsa la pena”.
Ci scambiammo di posto. Sentii salire la tensione. Una tensione simile a quella che mi assaliva da bambino prima dei compiti in classe di matematica. Strinsi forte il volante, inserii la prima, mollai la frizione e schiacciai il pedale dell’acceleratore. Il motore rispose con un grugnito sordo e l’Alfa schizzò in avanti con un balzo. La mia avventura come autista di Marco Lomellini era iniziata.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 24 - prima parte)

Gennaio 1966

La visibilità era pessima. Ero proteso in avanti, il mento che sfiorava il volante e il collo allungato verso il parabrezza, come quello di una tartaruga che spinge la testa fuori dal guscio. Il tentativo di ridurre la distanza tra me e la strada era ridicolo e inutile e l’Alfa penetrava incerta la densa coltre di nebbia. Lomellini fumava nervosamente, una sigaretta dopo l’altra, controllando in continuazione sul Rolex d’oro l’inevitabile scorrere del tempo. Sembrava non rendersi conto che il fumo che riempiva l’interno della macchina comprometteva ulteriormente la visuale, obbligandomi a procedere a velocità ridotta. Farglielo presente sarebbe equivalso a scoperchiare un contenitore ad alta pressione, decisi quindi di non infrangere il silenzio e mi limitai a sollevare leggermente il piede dall’acceleratore. Fu una precauzione inutile.
“Con questa andatura da lumaca arriveremo a Torino fra una settimana” sbottò.
“L’alternativa è non arrivarci affatto” replicai piccato, deciso a difendere il mio operato.
“Lo so, lo so, non possiamo andare più veloce. Non ce l’ho con te. Succede sempre così, quando uno ha fretta, spunta la nebbia. È una riunione importante, ci sarà anche l’assessore regionale. Mi hanno detto che non è convinto del nostro progetto, farlo aspettare non aiuterà certo a fugare le sue perplessità”.
In realtà nell’inverno padano la nebbia non era certo un evento eccezionale. Marco se la prendeva con il destino, ma ciò che veramente lo infastidiva era non essere riuscito ad annullare un altro impegno a Milano la mattina di quello stesso giorno. Avevamo posticipato la partenza di due ore e il tempo a disposizione per raggiungere il capoluogo piemontese si era ridotto al minimo necessario nel caso in cui avessimo trovato condizioni climatiche ideali. Invece la nebbia non accennava a diradarsi, di quel passo saremmo giunti a destinazione solamente a metà pomeriggio. Alla fine Marco si arrese all’evidenza e decise di avvisare per telefono che non saremmo arrivati in tempo. Ma poco prima di giungere all’area di servizio, la nebbia svanì come d’incanto.
“Prosegui, non ti fermare. Ce la possiamo ancora fare” esclamò con rinnovato entusiasmo.
Scalai la marcia e diedi gas. Torino distava ancora una settantina di chilometri.

Inchiodai l’Alfa di fronte agli uffici della Regione cinque minuti prima dell’orario previsto per l’inizio della riunione.
“Ne avrò almeno per un paio d’ore. Fatti pure un giro” mi avvisò Marco, e prima di richiudere la portiera aggiunse: “Hai guidato alla grande, Guido, oggi avresti stracciato anche Fangio”.
Non ero mai stato a Torino. Girovagai senza meta per le vie del centro prima di inoltrarmi in un parco ai margini della città. Camminai per un po’ con i piedi che affondavano leggermente nel terriccio umido. Mi guardai intorno. Non c’era anima viva e gli alberi nudi si ergevano spettrali a protezione di un silenzio freddo e surreale. Rimasi a fissarli, quasi intimorito, fino a quando un rombo sempre più forte riecheggiò in alto sopra di me. Una lunga scia bianca squarciava a metà il cielo. All’improvviso venni catapultato indietro nel tempo, su una spiaggia della riviera ligure. Un mio compagno di istituto mi aveva passato un giornale. L’intera prima pagina era occupata dalla notizia dello schianto sulla collina di Superga dell’aereo su cui viaggiava il Grande Torino, l’imbattibile squadra di calcio degli anni quaranta. Il luogo dell’incidente non doveva trovarsi molto lontano dalla città, pensai. L’episodio mi aveva colpito e l’elenco della formazione mi era rimasto impresso nella memoria. Nella quiete del parco ripetei i nomi uno a uno, a voce alta, in una grottesca commemorazione solitaria.
Il frullio di due volatili che amoreggiavano mi riportò al presente. Guardai l’ora e calcolai che la riunione sarebbe terminata di lì a poco. Ritornai alla macchina e, dopo essermi perso un paio di volte, giunsi nuovamente davanti al palazzo della Regione. Non c’era traccia di Marco. Sentii la stanchezza del viaggio affiorare rapidamente. Parcheggiai di fronte all’uscita, reclinai il sedile e cedetti al sonno senza opporre resistenza.

Qualcuno stava bussando sul finestrino. Schiusi gli occhi mezzo intontito. Era Marco, scuro in volto. La riunione non doveva essere andata come sperava. Spalancò la portiera, si accomodò sul sedile e colpì il cruscotto con un gesto di stizza.
“Chi ***** si crede di essere quello!”.
Non l’avevo mai visto così fuori di sé. L’affare andato in fumo doveva essere di quelli grassi, come era solito chiamare Lomellini gli accordi con in ballo cifre al di sopra di un certo numero di zeri. Ignorando la mia presenza, proseguì il suo sfogo.
“Un filosofo assessore all’urbanistica. Vorrei proprio sapere chi è il genio che l’ha pensato. Ma se crede di averla vinta si sbaglia. Oggi ha fatto il duro, ma qualcuno deve ricordargli che non conta nulla. Una telefonata al segretario del suo partito gli farà cambiare idea sul progetto”.
Un altro nodo importante della rete aziendale, il segretario del partito.
Marco espirò profondamente.
“Scusami, è che ho dovuto discutere quasi tre ore con un’idiota circondato da tecnici capaci solamente di leccargli il culo. E io che ho perfino saltato il pranzo. E tu? Hai mangiato qualcosa nel frattempo?”.
“No”.
“Allora andiamo dai, ti porto in un’osteria dove si mangia che è una meraviglia. Ho bisogno di distrarmi con un po’ di cibo e del buon vino”.
Non aveva ancora finito di parlare che già mi si era aperta una voragine nello stomaco.

Il giorno dopo partimmo per Roma. Quando un paio d’anni prima aveva deciso di allargare i suoi interessi al di fuori dell’Italia, Lomellini aveva creato un ufficio nella capitale che si occupava esclusivamente dei progetti all’estero. La scelta del posto non era affatto casuale. Era ubicato a due isolati dalla sede del Ministero degli Esteri.
La sera cenammo nel ristorante dell’albergo.
“Ti va di partecipare alla riunione di domani?” mi chiese Marco prima che ci alzassimo da tavola.
Non mi aspettavo quella domanda, lo guardai stupito.
“È un incontro interno in cui verranno affrontate questioni tecniche, sarà presente solamente personale dell’azienda. Ti ha sempre incuriosito il mio lavoro, non è vero? Domani è una buona occasione per vedere con i tuoi occhi e ascoltare con le tue orecchie”.
“Beh, sì, grazie”.
Quella sera faticai a prendere sonno. Ero nervoso, come se all’improvviso l’esito della riunione dipendesse da me, come se non sapessi che il mio ruolo sarebbe stato esclusivamente quello di spettatore. Non sapevo nemmeno di cosa si sarebbe discusso. Non ero tenuto a saperlo. Eppure mi sentii stupidamente impreparato.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 24 - seconda parte)

Quando entrammo nell’ufficio i tre collaboratori di Lomellini erano già tutti al loro posto intorno a un tavolo rotondo di cristallo. Lanciarono tutti simultaneamente un’occhiata interrogativa a Marco che si limitò a una scarna presentazione.
“Lui è Guido”.
Il più giovane dei presenti, un trentenne con la testa ricoperta da folti riccioli neri, si affrettò ad aggiungere una sedia di fianco all’unica rimasta libera.
“Bene, direi che possiamo incominciare. Partirei con il programma di gestione delle acque nel Basutoland” disse Marco dopo essersi seduto.
“Come già sapete siamo stati costretti a rinunciare all’idea iniziale di sviluppare il progetto in Sudafrica” attaccò un tizio con gli occhiali alla mia destra. “L’affare sarebbe stato decisamente più interessante, ma, dopo il processo di Ruvania e l’incarcerazione dei capi dell’Mk, le indicazioni della comunità internazionale e delle Nazioni Unite sono state chiare. Fino a quando Mandela e soci resteranno in carcere e il presidente Swart e il governo non rinunceranno all’Apartheid, i rapporti economici con lo stato africano sono interrotti”.
“Sembra che Cina, Brasile e Israele se ne fregheranno delle indicazioni dell’ONU” lo interruppe il riccioluto “e, mentre gli altri paesi rispetteranno l’embargo, loro faranno affari d’oro”.
“Noi siamo un’azienda, non uno stato” lo zittì il più anziano. “Il nostro governo ha accettato le direttive provenienti dal Palazzo di Vetro. Fare di testa nostra sarebbe del tutto controproducente”.
“Abbiamo già preso una decisione” intervenne Lomellini spazientito. “Non perdiamo tempo in inutili discussioni”.
Il tizio con gli occhiali riprese il discorso.
“Il Basutoland non va comunque considerato un ripiego, la scelta presenta almeno un paio di aspetti positivi. In primo luogo, l’analisi idrogeografica effettuata per il Sudafrica comprendeva anche il territorio della piccola enclave. La base di dati da cui attingere per sviluppare il programma è già pronta. Inoltre, date le dimensioni ridotte dell’area coinvolta, il progetto da un punto di vista tecnico è notevolmente più semplice e i lavori potrebbero partire entro la fine dell’anno. È già stata affittata un’intera palazzina di tre piani nel centro di Maseru che farà da quartier generale in loco”.
“Bene. C’è dell’altro?” domandò Marco.
“Sì. La situazione politica potrebbe cambiare. Il Basutoland vuole staccarsi dal Commonwealth. Sembra comunque che l’Inghilterra sia disposta a concedere l’indipendenza e, a differenza di altri stati africani, c’è un’unica fazione in lizza per il potere, il Partito Nazionale del Basotho. Il cambio dovrebbe quindi avvenire senza spargimenti di sangue. Il nuovo stato dovrebbe chiamarsi Lesotho”.
Un’espressione corrucciata apparve sul volto di Lomellini.
“Il futuro governo, almeno all’inizio, non baderà a spese” lo rassicurò l’altro. “Vorranno dimostrare che l’indipendenza non influirà negativamente sullo sviluppo del paese. Al contrario, investiranno in grandi opere le montagne di dollari provenienti dal traffico dei diamanti, e noi dovremo essere laggiù, pronti a riempirci le tasche”.
“Speriamo che le tue previsioni siano esatte. In ogni caso segui costantemente l’evolversi della situazione politica e tienimi informato. A che punto è il progetto?”.
“La bozza iniziale è praticamente pronta. I contatti con i partner commerciali sono già stati avviati. In un paio di mesi sarà pronta la versione finale da sottoporre a chi di dovere. I preventivi saranno come al solito gonfiati per godere di ampio margine nella trattativa. È un buon progetto, non saranno necessari troppi soldi per convincere il futuro primo ministro ad accettarlo”.
Lomellini apparve soddisfatto.
“Bene, direi che possiamo passare al progetto della diga sullo Minjiang”.
Il responsabile del progetto africano si tolse gli occhiali e si asciugò il viso imperlato di sudore. Il collaboratore più anziano si schiarì la voce.
“La nostra azienda non è mai stata coinvolta in un progetto di tali dimensioni. Si tratta delle terza diga più grande al mondo. Per la sua costruzione verranno utilizzati sessanta milioni di metri cubi di calcestruzzo. Secondo le stime dei tecnici, verranno invasati cinque miliardi di metri cubi d’acqua e la centrale avrà una potenza di un gigawatt. Una gigantesca opera di ingegneria idraulica. Ci sono però tre questioni da affrontare: la prima tecnica, la seconda economica e la terza sociale. La relazione dei periti è tutt’altro che positiva. Secondo gli studi geologici, nella zona in cui sorgerà il bacino il peso dell’acqua e le infiltrazioni nel terreno potrebbero dar luogo a fratture e a uno spostamento di placche che, nel peggiore dei casi, potrebbero essere la causa di futuri terremoti. La diga inoltre determinerebbe una notevole riduzione del flusso idrico. Le acque dello Minjang rappresentano l’unica fonte per l’irrigazione delle risaie che si estendono per migliaia di chilometri quadrati lungo il corso del fiume. L’attività di migliaia di contadini a valle della diga è a rischio. Infine c’è un problema storico-sociale”.
Fece una pausa. Lomellini e gli altri due collaboratori attesero in silenzio che si dissetasse. Prima di continuare, aprì una cartina sul tavolo e vi appoggiò sopra l’indice.
“Ecco, qui è il punto dove dovrebbe sorgere la diga. E questi sono i villaggi e la città che verrebbero sommersi dal lago artificiale. Si tratta di evacuare un totale di ottantamila persone. Operazione, come ben capite, non affatto semplice. E poi dobbiamo considerare che sono zone abitate fin dall’antichità in cui sorgono numerosi siti archeologici. Oltre alle case, verrebbero ricoperti d’acqua cinquemila anni di storia e di cultura”.
“Sì, ma in cambio gli portiamo modernità e lavoro. La costruzione della diga richiederà un enorme impiego di manodopera, se non sbaglio almeno diecimila operai” fece notare il giovane dai capelli ricci.
“Le ripercussioni sull’economia, la storia e la vita sociale locali non ci riguardano. Se ne occuperà il governo cinese” sentenziò Lomellini. “Mi preoccupa invece il rapporto dei periti. La tragedia del Vajont è ancora viva nella memoria di tutti. Trovare i finanziamenti per la costruzione di nuove dighe è diventato molto più difficile. Senza il finanziamento della Banca Mondiale il progetto della diga sullo Minjiang non sarebbe mai partito. Un nuovo incidente avrebbe conseguenze catastrofiche per l’intero settore idroelettrico”.
“Il governo cinese ha criticato il lavoro dei nostri tecnici e ha già incaricato dei periti di fiducia di ripetere gli studi. I risultati dovrebbero essere noti in aprile” lo informò il collaboratore responsabile del progetto.
“Non c’è bisogno di aspettare tre mesi” sorrise ironico Lomellini. “Il governo ha bisogno di quella diga, gli studi evidenzieranno sicuramente che non c’è alcun pericolo di fratture nel terreno”.
Il tizio con gli occhiali prese la parola.
“Sarà difficile tirarsi indietro di fronte a una valutazione positiva del progetto. E poi credo che sia una scommessa che valga la pena giocare. Per l’azienda si spalancherebbero le porte del successo a livello internazionale. Dopo un progetto del genere, riceveremmo nuove commesse da tutto il mondo”.
“Hai ragione” concordò Lomellini. “Non abbandoneremo l’obiettivo, ma non possiamo sempre farci carico noi imprenditori di tutti i rischi. Da quando abbiamo iniziato a lavorare all’estero c’è sempre andata bene, ma la maggior parte dei lavori in futuro si svolgeranno in paesi dalla forte instabilità politica. Il fallimento di un progetto non dipenderà solamente dalla bontà dello stesso e dalle nostre capacità. Le compagnie di assicurazione private non si assumeranno mai l’onere di risarcimento per progetti di tali dimensioni con in ballo delle cifre così grandi. Dovrebbe intervenire lo stato”.
“Scusa?” domandò il giovane, sobbalzando sulla sedia.
“Sì, hai capito bene, lo stato italiano” ribadì Lomellini. “Solamente il governo di un paese ha a disposizione certe somme di denaro”.
“Ma sono soldi pubblici. Come può lo stato assicurare l’attività di un privato?” domandò il collaboratore più anziano.
“Rispetto al bilancio annuo sarebbero comunque cifre irrisorie. E poi non è detto che debba essere un meccanismo reso pubblico. La riservatezza eviterebbe eventuali proteste dei cittadini. Senza dimenticare, infine, che ciò che esportiamo è pur sempre un prodotto “made in Italy”. Anche lo stato italiano, indirettamente, ha il suo guadagno, se non altro a livello di immagine. Ne parlerò con il ministro”.
I tre assistenti annuirono contemporaneamente.
“Bene signori” concluse Lomellini “avete svolto un buon lavoro. Se non c’è altro, direi che possiamo dichiarare terminata la riunione. Ci siamo meritati un bel pranzo. Oggi invito io”.

La riunione mi era parsa interessante e aveva soddisfatto in parte la mia curiosità per un mondo fino allora sconosciuto. Dissi a Marco che non mi sarebbe dispiaciuto in futuro partecipare ad altri incontri di lavoro.
“Quelli istituzionali no, ma per gli altri non c’è problema”. Poi aggiunse scherzoso: “Sfrutterò la tua memoria ed eviterò di deconcentrarmi per prendere appunti durante le riunioni”.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 25 - prima parte)

Luglio 1967

Erano ormai tre anni che consumavo i pneumatici dell’Alfa su e giù per l’Italia, ma era la prima volta che ci spingevamo così a sud, fino al tacco dello stivale. Un politico locale aveva informato Lomellini che l’amministrazione comunale stava valutando la possibilità di ristrutturare integralmente il porto di Taranto. Marco non aveva perso tempo e si stava precipitando in zona come un rapace affamato, per artigliare l’affare prima di chiunque altro.
Dopo l’avvio dei lavori per la costruzione della diga sullo Minjiang e l’incarico ricevuto dal governo del Lesotho per realizzare una serie di sbarramenti per ottimizzare la gestione delle risorse idriche del paese, l’azienda di Lomellini era stata catapultata nella sfera che conta del business internazionale della costruzione. L’attività dell’impresa era in rapida espansione in America e in Asia. I piani futuri prevedevano che le filiali all’estero sarebbero sorte a un ritmo di una ogni sei mesi per i successivi cinque anni. La piccola ditta a conduzione famigliare si stava trasformando a passi spediti in una multinazionale del cemento. La rete aumentava le sue dimensioni senza però allargare le maglie, che restavano fitte e in grado di intrappolare ogni affare ritenuto interessante. Nonostante i successi a livello planetario, Lomellini non aveva infatti nessuna intenzione di trascurare l’ambito nazionale. Preda di un’ossessione bulimica, inseguiva, catturava e fagocitava senza tregua nuovi progetti, lasciando agli altri imprenditori poco più che le briciole. Il rifacimento del porto di Taranto rappresentava un pesce troppo invitante per lasciarselo sfuggire.
Stavamo attraversando una terra disabitata, lungo la strada erano completamente assenti i segni della presenza dell’uomo. La temperatura era torrida e si respirava a fatica. Dai finestrini abbassati entravano folate di aria calda. Rigagnoli di sudore mi colavano dalle tempie, attraversavano le guance, scivolavano lungo il collo e sfociavano poi sul petto e sulla schiena, dove venivano misteriosamente assorbiti da una camicia già fradicia. All’improvviso, in lontananza, vidi sorgere dal nulla una ciminiera che si fece via via più alta mano a mano che ci avvicinavamo. Intorno alla ciminiera, invisibili a prima vista, apparvero poi alcuni capannoni e un grande edificio bianco di tre piani. Dalla bocca del camino fuoriusciva una nuvola densa di fumo nero.
“E quello cos’è?” domandai.
“È un impianto industriale, uno di quelli che suscitano tante polemiche sui giornali e in parlamento. I detrattori, per la maggior parte appartenenti al PCI, li chiamano cattedrali nel deserto. Sostengono che mancano le infrastrutture nei dintorni e per questo motivo non creano indotto. Stabilimenti simili ne sono stati costruiti a decine in meridione negli ultimi anni. Personalmente credo che se si vuole far uscire il meridione dalla condizione di arretratezza in cui si trova rispetto alle regioni del Nord da qualcosa bisogna pur iniziare, e poco importa se prima si impianta la fabbrica e poi ci si costruiscono intorno le infrastrutture o viceversa”.
Il complesso industriale sfilò alla nostra destra e lo vidi sfumare nello specchietto retrovisore, risucchiato dal vuoto al suo intorno. La sua presenza rimase all’interno dell’Alfa sotto forma di un intenso odore di gomma bruciata. Provai a respirare con la bocca aperta, ma la gola, arida come le terre circostanti, si ribellò al flusso di aria calda e pungente. Deglutii la poca saliva che mi restava. Il miraggio di una pozzanghera sull’asfalto aumentò ancor di più la mia sete.
“Abbiamo ancora dell’acqua?”.
“No, è finita. Ma fra qualche chilometro svoltiamo in direzione di Candela. Già che siamo da queste parti, voglio fare un passo a dare un’occhiata a un nostro cantiere lì vicino. L’hanno aperto da poco e non ci sono ancora stato. Tra poco potrai dissetarti a piacimento”.
Sembrava che la sete fosse un problema solamente per me. Invidiai la resistenza di Marco. Soprattutto quando si trattava di lavoro, era capace di non bere e saltare i pasti per un’intera giornata.
Mezz’ora più tardi giungemmo al paese, una manciata di case arroccate su un cucuzzolo, strette in un abbraccio comune a un vecchio campanile di pietra.
“Accosta lì” disse Marco indicando un bar dall’altro lato della strada.
Gli avventori, una coppia seduta al bancone e quattro anziani che giocavano a carte, ci scrutarono sospettosi di sottecchi. Il barista invece, un cinquantenne con un paio di folti baffi neri che adornavano un viso rubicondo, ci venne incontro sorridente domandandoci in che cosa potesse servirci.
“Due birre, possibilmente fredde”.
Sparì per un attimo sotto il bancone e riapparve con in mano due Moretti. Le stappò e ce le porse, insieme a due bicchieri.
“Ecco le birre, appena uscite dal frigo. Desiderate altro? Qualcosa da mangiare?”.
“No grazie” rispose Marco per entrambi, senza consultarmi. In altre circostanze lo avrebbe fatto, ma aveva chiaramente fretta di arrivare a destinazione e non voleva perdere tempo sfamandosi in un bar con qualcosa che con ogni probabilità sarebbe stato di pessima qualità.
Scolai il bicchiere tutto d’un fiato, abbandonandomi al sapore amaro della birra che irrorava le pareti interne della mia cavità orale. Mi asciugai le labbra con il dorso della mano e feci schioccare la lingua sul palato con aria soddisfatta. Ringraziammo il padrone del bar, pagammo e ci avviammo verso l’uscita. Stavo per oltrepassare la porta quando Marco, che si trovava alle mie spalle, iniziò a parlarmi. Mi voltai, senza smettere di avanzare e piombai sul marciapiede senza guardare. Un urlo acuto frenò l’inerzia dei miei movimenti.
“Attentoooooo!”.
Troppo tardi, con il fianco scontrai un qualcosa di duro. Fissai la cassetta rovesciata e le albicocche sparpagliate per terra. Una ragazza osservava il disastro con aria sconsolata, le mani tra i capelli bruni. Un lamento fuoriuscì dalle sue labbra carnose color lampone.
“Mio padre mi ammazza”.
“Mi dispiace, davvero. Sono mortificato” mi scusai imbarazzato. Non sapendo cos’altro aggiungere, mi chinai a raccogliere i frutti dal marciapiede e incominciai a riporli nella cassetta, dopo averla rivoltata. Mi resi conto immediatamente che sarebbe stato un lavoro inutile. Una parte dei frutti era ammaccata o, ancor peggio, spappolata. Una succosa polpa arancione ricopriva le albicocche rimaste intere, rendendole di fatto indistinguibili dalle altre.
“A mio padre piacciono mature” disse la giovane, quasi a voler giustificare il fatto che non avessero retto all’urto. Nella sua voce c’era più sconforto che rabbia. “Sono più dolci. Provane una”. Ne scelse una rimasta intatta e me la offrì.
Rimasi abbagliato dal suo candore. Non mi aspettavo una reazione del genere e per un secondo fissai il frutto imbambolato. Poi allungai la mano e lo colsi dalla sua, sfiorandola. I miei occhi partirono bramosi alla caccia dei suoi, ma la ragazza era già intenta a riempire la cassetta.
Marco la fermò appoggiandole una mano sulla spalla. Aprì il portafoglio ed estrasse un paio di banconote.
“Tieni, questi sono per ricomprare le albicocche e per il disturbo”.
Con quei soldi avrebbe potuto acquistare una decina di casse. Ora era lei ad essere imbarazzata.
“Ma.......”.
“Niente ma” la interruppe Lomellini “è il minimo che possiamo fare. Non ti preoccupare, pensiamo noi a ripulire il marciapiede”.
La ragazza sorrise, infilò le banconote in una tasca del vestito e si allontanò a passo svelto.
“Aspetta” gridai “come ti chiami?”.
Esitò un istante, poi urlò:
“Sara” e sparì dietro un angolo.
Marco non era certo disposto a modificare i suoi piani per un imprevisto.
“Non perdiamo tempo, diamoci da fare. Chiedi al bar un secchio con dell’acqua”.
Allargai le braccia in segno di resa.
“Non solo hai fatto scappare quell’angelo piovuto dal cielo, ma ora ci tocca anche faticare” scherzai.

Ripartimmo poco dopo, diretti al cantiere. La strada disegnava un lungo serpente giù per il pendio, fino in fondo alla valle. Giunti di fronte all’ingresso, dissi a Marco che lo avrei aspettato lì. Avevo voglia di rimanere un po’ da solo. Abbassai le palpebre e ripensai all’incontro casuale di poco prima. Lasciai che i sensi si alternassero nel prendermi per mano e guidarmi nel ricordo. La voce squillante di Sara penetrò il timpano come una lancia acuminata. Ascoltai l’eco rimbalzare ritmicamente da un orecchio all’altro, un timbro acuto appena al di sotto della soglia del dolore, una leggera cantilena nell’intonazione, suadente. La chioma corvina che ricadeva sulle spalle scoperte si proiettò sulla retina, mescolandosi con i fiori rossi del vestito bianco e la macchia arancione sul marciapiede. E gli occhi? Di che colore erano gli occhi? Neri? Forse. Sfiorai con i polpastrelli il dorso scabro della mia mano, ripercorsi lentamente i segni ruvidi e indelebili del tempo. La sua pelle, invece, era vellutata. Mi era bastato lambirla un istante per rendermi conto di quanto fosse sottile e delicata. Inspirai profondamente e le narici si riempirono del profumo intenso della frutta matura. Premetti la lingua contro il palato, un sapore zuccherino si impossessò interamente della bocca. La dolcezza di quell’albicocca era inebriante. Poi, la vidi allontanarsi sulle gambe affusolate ondeggiando i fianchi. Girati, Sara, non mi ricordo di che colore sono i tuoi occhi. Un attimo solo.
Scesi dall’Alfa e strinsi gli occhi, violentati dalla luce. Quando lentamente li riaprii, si persero tra le ginestre che ornavano l’area intorno al cantiere. Una zona isolata, chissà cosa stavano costruendo. L’ennesima cattedrale?
Mi sedetti all’ombra di un ulivo solitario, in attesa del ritorno di Marco. Dopo una ventina di minuti lo vidi uscire dal cantiere e gli andai incontro.
“Possiamo proseguire per Taranto”.
“Che cosa state realizzando?”.
“Il centro di raccolta dei rifiuti della provincia di Foggia. Un’enorme discarica e un edificio in cui verranno sistemati un garage al livello della strada e degli uffici al primo piano”.
Non sapevo che l’azienda si occupasse anche di discariche, ma il fatto non mi sorprese più di tanto. L’eterogeneità dei progetti non era certo una novità e la specialità della casa, il cemento, veniva utilizzata per qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa che portasse dei soldi nelle tasche di Lomellini, si intende.
Misi in moto e ripartii sgommando. Una nuvola di polvere si sollevò alle nostre spalle, nascondendo alla vista l’entrata del cantiere.

L’appuntamento con l’informatore di Marco era sulla terrazza di un piano-bar da cui si godeva un’ampia panoramica sul porto di Taranto. L’uomo era seduto a un tavolo, in compagnia di due bicchieri e una bottiglia di champagne immersa nel ghiaccio. Evidentemente non si aspettava l’arrivo di due persone. Dissimulò la sorpresa e fece aggiungere prontamente un terzo bicchiere. Nella gerarchia del partito non occupava ancora i posti più prestigiosi, ma possedeva la giusta dose di ambizione e le idee chiare per una rapida scalata ai vertici e una ricca e onorata carriera: come prima cosa, stabilì un prezzo per le informazioni in suo possesso. Lomellini increspò le labbra, l’atteggiamento arrogante del politico lo aveva chiaramente infastidito. Non perdendo di vista la ragione del viaggio, però, lo rassicurò che per il compenso non ci sarebbero stati problemi ed ottenne in cambio tutto ciò che desiderava sapere. Il tintinnio delle coppe di cristallo fatte scontrare al centro del tavolo sancì un accordo che soddisfaceva entrambe le parti in gioco.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 25 - seconda parte)

Il lavoro di autista, soprattutto quando Marco si addormentava vinto dalla fatica, mi lasciava molto tempo per pensare, spesso troppo. Durante il viaggio di ritorno, l’immagine di Sara si impossessò con prepotenza dei miei pensieri. Il desiderio di rivederla sbocciò improvviso e inaspettato, senza nemmeno concedermi il tempo di coltivarlo. Più cresceva con il trascorrere dei chilometri, più lo vedevo allontanarsi florido e rigoglioso alle nostre spalle e mi rendevo conto dell’impossibilità di coglierlo. Non sapevo nulla di lei, chi fosse e cosa facesse nella vita, ma l’alone di mistero non faceva altro che alimentare il desiderio. Ignoravo perfino quanti anni avesse. Ne dimostrava sedici o diciassette, non di più. Era molto più giovane di me, almeno così mi era parso. Ribaltai il punto di vista. Era questa la stessa impressione che aveva avuto lei di me? Che fossi molto più grande, cioè, vecchio, di lei? Osservai i miei ventotto anni nello specchietto retrovisore. Quanti ne dimostravo? Pensai alle tappe cruciali della mia esistenza, separate le une dalle altre da un singolo colpo d’arma da fuoco. Il bambino, ammazzato a tradimento insieme a suo padre in una giornata di pioggia, all’età di dieci anni. Poi il ragazzo, deceduto in mezzo a un bosco con una pistola in mano, nove anni dopo. Sparare all’infanzia e all’adolescenza, un modo di crescere piuttosto originale. E doloroso. Infine l’uomo, concepito nella stanza fredda e umida di una prigione, nato dopo una gravidanza durata cinque lunghi anni. Tre vite differenti appartenenti alla stessa persona o forse, così li sentivo, spezzoni di una stessa vita vissuta da tre persone diverse. In fondo la terza ha solamente quattro anni e mezzo, mi dissi sorridendo, non è poi così vecchia.
Avevo bisogno di un pretesto. Un pretesto per tornare in quel paesino, per soddisfare il desiderio di rivedere quella ragazza. Marco russava profondamente, ignaro di ciò che la mia mente, a un metro scarso dalla sua, stava architettando. Non sapevo ancora che cosa gli avrei detto quando si fosse svegliato, nessuna buona idea stava prendendo forma. Più mi sforzavo, più le scuse per un possibile ritorno apparivano ridicole e inverosimili. E, pensandoci bene, anche la verità era assurda. Tornare per incontrare una ragazza alla quale avevo rovesciato una cassetta di albicocche. Non sarebbe certo stata contenta di rivedermi. Marco sarebbe scoppiato a ridere, mi avrebbe preso in giro, e a ragione. Col suo senso pratico, poi, avrebbe giudicato un eventuale ritorno come bizzarro e insensato.
Avevamo da poco oltrepassato il cartello che indicava la fine della Puglia quando Lomellini si destò con un grugnito. Si informò su dove fossimo e mi disse di fermarmi appena possibile che aveva bisogno di un caffè. Si era svegliato troppo presto, sorprendendomi nel bel mezzo delle mie elucubrazioni, senza che fossi giunto ad alcuna conclusione. In mancanza di una valida scusa, propesi per la sincerità.
“Vorrei tornare a Candela” dissi, senza scoprire subito tutte le carte in tavola.
“È per via della ragazza, vero?” sorrise Marco, che evidentemente mi conosceva meglio di quanto pensassi.
“Sì, mi piacerebbe rivederla, conoscerla”.
Marco rifletté, in silenzio. Non potevo crederci, non stava ridendo, anzi, sembrava che stesse valutando seriamente la situazione.
“Fino all’autunno ho bisogno di te. Quest’inverno mi opererò a un ginocchio, un intervento che secondo l’ortopedico non posso più rimandare. Per un po’ di tempo non viaggerò e durante la convalescenza lavorerò esclusivamente dal mio ufficio a Milano. A partire da novembre potresti fare un periodo di apprendistato nel cantiere vicino al paese, qualcosa da farti fare lo troveranno sicuramente. Quattro mesi, non di più, poi avrò nuovamente bisogno di te. Che ne pensi?”.
Se in quel momento la ragazza non sarebbe stata contenta di rivedermi, sei mesi dopo non si sarebbe nemmeno più ricordata di me, ma tutto sommato quello offertomi da Marco mi parve un buon compromesso, meglio di quanto avessi immaginato.
“Affare fatto”.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 26 - prima parte)

Ottobre 1967

Mancava una settimana all’operazione e Marco iniziava a manifestare visibili segni di nervosismo. Quello che lo angustiava non era l’intervento in sé, sulla cui riuscita non nutriva alcun dubbio, come aveva più volte sottolineato tessendo le lodi dell’ortopedico incaricato di ricostruirgli i legamenti del ginocchio. Lo terrorizzavano la convalescenza, il riposo forzato, il non poter lavorare per qualche settimana nella migliore delle ipotesi, o, nella peggiore, per qualche mese. Il periodo di inattività, gli aveva pazientemente spiegato il professor Desio, un luminare della medicina, sarebbe dipeso da come avrebbe reagito l’arto e solamente ventiquattrore dopo l’operazione si sarebbe potuta fare una previsione più accurata sui tempi di recupero. Perfino l’idea di dover trascorrere l’intera giornata con la moglie e i figli era per Lomellini fonte di preoccupazione. Sosteneva che con gli anni aveva imparato ad amarli a distanza, che non era più abituato alla loro presenza. Temeva che una nuova quotidianità potesse incrinare gli equilibri della loro relazione e che questi si rivelassero più deboli di quanto credesse.
Con l’operazione di Marco si avvicinava anche la mia partenza per la Puglia. Ormai non ero più solamente il suo autista, ero molto di più. Col tempo mi ero trasformato nell’amico fidato, nel compagno di viaggi, nel punchball su cui sfogare, in maniera controllata, ire e paure. Marco aveva bisogno di me e io di lui. Sentivo l’imminente partenza come un distacco dal grembo materno, protettivo e conosciuto, verso un mondo nuovo la cui scoperta mi affascinava e, contemporaneamente, mi intimoriva. Era come se mi fossi dimenticato dei mesi precedenti all’incontro con Marco, quando, seppur con alterni risultati, avevo dimostrato di essere in grado di badare a me stesso. Poi però la mia vita era cambiata e il lavoro non aveva più rappresentato un enigma da risolvere giorno per giorno. Uscire dal solido guscio che Lomellini mi aveva costruito intorno significava affrontare nudo e senza difese un cammino incognito. Ma in fondo, mi ripetevo per tranquillizzarmi, quattro mesi sarebbero passati in fretta. La mia era una scommessa che avrebbe avuto in ogni caso un lieto fine. Prima dell’arrivo della primavera infatti sarei tornato ad accomodarmi sul sedile dell’Alfa e avrei ripreso ad accompagnare Marco in giro per riunioni, incontri, cene e appuntamenti mondani. La sua vita, che ormai era diventata anche la mia.
Il giorno prima di finire sotto i ferri, Lomellini mi consegnò una lettera per il capo cantiere nella quale lo invitava a trovare qualcosa da farmi fare nei successivi quattro mesi. Per i miei primi passi avrei avuto ancora Marco al mio fianco, la sua lettera avrebbe reso l’inizio della mia avventura in Puglia molto più semplice.
“Ci vediamo nel mio ufficio a Milano il primo lunedì di marzo. Buona fortuna e mi raccomando, non fare cazzate”.
“Nella mia vita ne ho già fatta una piuttosto grande, non ho intenzione di concedere il bis” risposi ridendo. Quando ci abbracciammo sentii come se stessi salutando un padre più che un amico.

Mi presentai al cantiere stravolto dal lungo viaggio. All’operaio all’entrata dissi che volevo incontrare il capo. Dopo avermi osservato come se fossi un animale raro in via di estinzione, mi informò che sarebbe passato dopo pranzo. Avevo le gambe legnose impregnate di acido lattico e mi lasciai scivolare per terra, con la schiena appoggiata allo zaino.
“Ehi tu, ce l’hai qualcosa da mangiare?”.
Scossi la testa. L’operaio si avvicinò e mi porse un sacchetto di carta.
“Mia moglie esagera sempre, dice che sono pelle e ossa. Prendine uno, per me l’altro è più che sufficiente”.
“Grazie”.
Ero piacevolmente stupito, non mi aspettavo una simile accoglienza. Scartai l’involucro e ne estrassi un panino dall’aria invitante. Il primo morso ebbe l’effetto di un soffio di vento in un viale d’autunno e spazzò via i leggeri e ormai secchi timori della vigilia.

Il capo cantiere mi sorprese addormentato.
“Mi hanno detto che mi cercavi” brontolò scortese.
Gli porsi la lettera. Iniziò a leggerla e l’impazienza che aveva dipinta sul viso svanì immediatamente.
“Troveremo sicuramente un lavoro adatto a te” disse in tono cordiale. “Dimmi, cosa sai fare?”.
Elencai i lavori che avevo svolto nel corso della mia vita, tralasciando volutamente il pastore, il marinaio e il bagnino che ritenni inutili ai fini di un impiego in un cantiere edile.
“Ho proprio bisogno di un autista per il furgone, lo abbiamo appena preso. Farai la spola con il paese”.
Quell’incarico mi avrebbe permesso di andare spesso a Candela durante il giorno. Feci il possibile per mascherare il mio entusiasmo e per non tradire la vera ragione per cui mi trovavo di fronte a quell’uomo.
“Sai già dove andare a dormire?”.
“A dire il vero non ci avevo ancora pensato”.
“Qui dietro c’è una roulotte, puoi restarci un paio di notti. Poi dovrai trovarti una stanza da qualche altra parte”.
Mi strinse vigorosamente la mano.
“Benvenuto al Sud”.

Due giorni dopo affittai una mansarda nel centro del paese. Il proprietario l’aveva utilizzata negli ultimi anni come ripostiglio, riversandoci tutto ciò di cui non aveva più bisogno, ma che in mancanza di un buon motivo si era sempre rifiutato di buttare via. La mia richiesta aveva rappresentato l’occasione giusta per disfarsi finalmente di quell’accozzaglia di oggetti vecchi. Mi sarei dovuto incaricare dello sgombero, in cambio non avrei pagato l’affitto per la prima settimana. La mansarda si affacciava sulla via principale che tagliava a metà il paese, vicino al bar di fronte al quale era avvenuto lo scontro con Sara. Il posto mi parve un punto di osservazione strategico e accettai la proposta. Antonio, un compagno di lavoro, si offrì gentilmente di aiutarmi a rimetterla in ordine. Impiegammo un’intera giornata e un paio di litri di birra a testa per svuotarla e ripulirla dalla polvere e dalle ragnatele. Tra gli oggetti recuperai le uniche due sedie aventi quattro gambe, una brandina e una lucerna a olio. Antonio mi avrebbe procurato un materasso. Prima di richiudere la porta, diedi un’ultima occhiata al risultato della nostra fatica. Non era certo la villa di Lomellini e non ricordava nemmeno lontanamente una delle stanze degli alberghi di lusso che eravamo soliti frequentare durante i nostri viaggi, ma per il momento poteva bastare. Ora si trattava di attendere con pazienza e avere un po’ di fortuna.

La spola con il paese, su cui avevo riposto le speranze per rincontrare Sara, consisteva in realtà in sporadici viaggi, non più di un paio a settimana, effettuati per lo più per procurarsi piccoli utensili e materiale elettrico in piccola quantità. Giunto all’altezza delle prime case, rallentavo l’andatura e percorrevo il paese a passo d’uomo, spazzando con lo sguardo entrambi i marciapiedi, controllando ogni figura femminile che entrasse nel mio campo visivo, introducendomi con gli occhi in ogni angolo e stradina laterale. Dopo una quindicina di giorni durante i quali di Sara non avevo scorto nemmeno l’ombra, mi resi conto che avrei dovuto escogitare qualcosa per aumentare la frequenza delle mie visite in paese, ma soprattutto, pensai, avrei dovuto cambiare le mie destinazioni. Non l’avrei mai incontrata dal ferramenta, tanto meno dall’elettricista. Sei mesi prima il nostro incontro era avvenuto di mercoledì, lo avevo annotato sul calendario. Il mercoledì era il giorno del mercato, nella piazza del municipio. Era probabile che Sara avesse comprato la cassetta di albicocche proprio lì, forse ci andava ogni settimana a fare la spesa. Dovevo fare in modo di andarci anch’io, al mercato le probabilità di rivederla sarebbero aumentate, ne ero certo.
Il cantiere sorgeva in un luogo isolato lungo la statale e distava cinque chilometri dal centro abitato più vicino. Il collegamento tra Candela e il cantiere era garantito da una corriera che effettuava quattro corse giornaliere. Durante la pausa pranzo gli operai erano costretti a fermarsi al cantiere. Ognuno si portava da casa qualcosa da mangiare, un panino o qualche avanzo della cena del giorno prima. Fu grazie alla pigrizia nel prepararmi il pranzo che ebbi l’idea di come iniziare a frequentare il mercato. Gli operai mostrarono entusiasmo fin da subito, restava da convincere il capo cantiere. All’iniziò si dimostrò restio all’idea di trasformare in una mensa una parte del parcheggio. Tre tavoli di legno avrebbero occupato troppo spazio, e poi chi avrebbe cucinato per venti persone? Chi sarebbe andato a fare la spesa? Gli anni trascorsi al fianco di Lomellini giunsero in mio soccorso e si rivelarono particolarmente utili per persuadere il capo cantiere ad approvare il pranzo in comune. Lo spirito di squadra ne sarebbe uscito rafforzato, gli dissi, e le ripercussioni positive sul lavoro degli operai non avrebbero tardato a farsi notare. Gli operai avrebbero fatto una colletta per coprire i costi e avrebbero cucinato a turno. Per la spesa non c’era problema, mi offrivo io di farla, una volta alla settimana.
Il mercoledì successivo, alle dieci in punto, lasciavo il cantiere a bordo del furgone, col cuore che batteva all’impazzata, diretto al mercato.
Parcheggiai in un viottolo dietro al municipio e proseguii a piedi. All’ingresso della piazza, mi fermai ad osservare il via vai incessante di persone che entravano e uscivano dal mercato. Sembravano un esercito di formiche che diligentemente si intrufolavano una dietro l’altra tra i banchi ricolmi e ne riemergevano poi cariche di provviste, disperdendosi in tutte le direzioni, per far ritorno ognuna al proprio formicaio. Presi il respiro e mi immersi nel cuore del mercato. Venni travolto dalla confusione e sballottato da una parte all’altra. Le grida continue e assordanti dei venditori intenti a declamare le virtù dei propri prodotti si mischiavano a quelle dei compratori che si informavano sulla qualità e i prezzi della merce. Odori forti e profumi intensi riempivano l’aria e saturavano le narici. Trascinato dalla corrente, mi resi immediatamente conto che era impossibile intraprendere un percorso predeterminato e sostare anche solo un istante per guardarsi intorno. Trovare una persona lì dentro equivaleva a vincere alla lotteria. Mi aggirai tra le bancarelle per circa un’ora, sperduto e sempre più demoralizzato. Stavo per rinunciare quando all’improvviso, a una ventina di metri, di fronte a un banco di verdure, notai una ragazza, di spalle, con una folta chioma nera che scendeva fluente lungo la schiena. Ricordavo bene i suoi capelli, avevo impressa l’immagine di lei che si allontanava dopo che Lomellini le aveva detto di non preoccuparsi che alle albicocche sul marciapiede avremmo pensato noi. Con rinnovato entusiasmo, mi feci largo a gomitate per raggiungerla. Mi trovavo ormai a pochi metri quando la vidi salutare il mercante e allontanarsi tra la folla. Accelerai il passo fino a ritrovarmi alle sue spalle e la afferrai per un braccio. La ragazza si voltò di scatto, spaventata, e mi guardò con aria stupita. Non avevo mai visto quel viso prima di allora.
“Scusa, mi eri sembrata un’altra persona” balbettai, profondamente deluso.
Sollevò le spalle e si dileguò tra la calca.
Rassegnato, girai su me stesso per recuperare il senso dell’orientamento e mi avviai in direzione del municipio. Poco prima di abbandonare la piazza, realizzai che mi ero dimenticato di fare la spesa. Recuperai la lista dalla tasca dei pantaloni e ritornai, controvoglia, tra i banchi del mercato. Avrei riempito tre o quattro scatoloni e sarebbero stati necessari altrettanti viaggi. Rimpiansi di non aver parcheggiato il furgone più vicino. Appena fuori dal mercato, diedi una moneta a un bambino dall’aria scaltra affinché controllasse le scatole che mano a mano gli avrei portato. Terminata la spesa, le avrei recuperate tutte insieme, con il furgone.
“Ehi, ma a te ti conosco”.
Mi voltai in direzione della voce.
“Tu un giorno mi rovesciasti una cassetta di albicocche”.
L’avevo ritrovata, era davanti a me, con le braccia tese lungo i fianchi a sorreggere due sporte traboccanti. Sorrideva, disincantata. Lo stesso tono di voce, gli stessi capelli. Neri, aveva gli occhi neri.
“Beh, non dici niente? Che ci fai da queste parti?”.
“Lavoro al cantiere lungo la statale” risposi simulando indifferenza.
“Ma dai. Che caso, no?”.
“Sì, curioso”. Ormai mi ero ripreso dalla sorpresa. “Vivi da queste parti?”.
“A due passi”.
Purtroppo non aveva compiuto nessun gesto per indicare almeno una direzione, per fornirmi un indizio.
“E vieni ogni settimana a comprare al mercato?”.
Mi pentii di averglielo chiesto. Non volevo soffocarla con le domande. Sara sembrò non curarsene.
“Sì, ogni mercoledì”.
Significava attendere una settimana e tentare di ritrovarla tra la moltitudine di gente che affollava il mercato.
“Senti, ti andrebbe se ci incontrassimo un pomeriggio? Sono arrivato da poco, potresti farmi da guida e farmi conoscere il paese e i dintorni” azzardai senza riflettere troppo.
Abbassò lo sguardo, titubante. Forse avevo osato troppo.
“Se sei libero possiamo vederci sabato prossimo” mormorò dopo alcuni secondi di silenzio.
“Per me va benissimo”.
“Dopo pranzo, alle tre, dalle scale del municipio”.
“Dopo pranzo, alle tre, dalle scale del municipio” ripetei come un disco incantato.
“Allora ciao, a sabato”.
“Ciao”.
La osservai allontanarsi, con lo sguardo che lentamente ridiscese lungo la schiena, accarezzandola. Quella sera avrei faticato ad addormentarmi. Sentii il bisogno di condividere l’emozione. Prima di cena avrei telefonato a Marco, per raccontargli dell’incontro e per sapere come procedeva la convalescenza.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 26 - seconda parte)

Tre giorni dopo Sara giunse puntuale all’appuntamento. Ero arrivato dieci minuti in anticipo e la stavo aspettando seduto sui gradini della scalinata. Le andai incontro. I capelli bruni erano raccolti in una lunga coda e le ciocche ribelli erano fissate ai lati da quattro mollette colorate. La pettinatura le lasciava scoperto interamente il viso, in mezzo al quale, nonostante la carnagione scura, risaltavano le turgide labbra scarlatte. Indossava una camicetta bianca piuttosto aderente, con gli ultimi due bottoni sbottonati, che le fasciava il busto sottile lasciando poco spazio all’immaginazione. Una larga gonna turchese scendeva svolazzante fino alle caviglie. Aveva un’aria serena e spensierata.
“Ciao, come stai?” mi domandò mettendo in mostra due file di denti candidi.
“Bene e tu?”.
“In perfetta forma. Vieni, non perdiamo tempo, ti svelerò i segreti e le meraviglie di questo paese”.
Percorremmo tutte le stradine, anche le più recondite. Entrammo nella chiesa e, di nascosto, nella sagrestia e da lì ci arrampicammo per la stretta scala a chiocciola su per il campanile, dalla cui cima si godeva uno splendido panorama sulla campagna circostante. Visitammo una fattoria dove bevemmo latte appena munto. Rubammo una zucca da un orto di un tizio che, secondo Sara, era il più brutto e antipatico di tutta la provincia. Ridemmo, scherzammo e parlammo senza sosta fino al crepuscolo.
“Mi piacerebbe rivederti” le rivelai prima di separarci.
Questa volta non ebbe tentennamenti.
“Sabato prossimo, stesso posto e stessa ora. Anzi no, facciamo dietro alla vecchia torre”.

Al lavoro notarono il buon umore che mi accompagnava da qualche giorno. Alcuni compagni mi domandarono esplicitamente quale fosse la causa di tanta euforia, ottenendo in cambio risposte vaghe e sibilline. Non avevo alcuna intenzione di svelare loro il mio piccolo segreto, consapevole comunque che presto, in un paese così piccolo, lo avrebbero in ogni caso scoperto. Era stata Sara a raccomandarsi di non rendere pubblici i nostri incontri. Suo padre, un uomo conservatore che esecrava le idee libertine che iniziavano a diffondersi in quegli anni, non avrebbe accettato che la figlia minorenne si incontrasse, sola, con un forestiero vicino alla trentina. Del quale, tra l’altro, non sapeva nulla, e a poco gli sarebbe valso ricorrere alla figlia per ottenere maggiori informazioni. Sara, infatti, aveva provato a scavare nel mio passato, interrogandomi sulla mia famiglia. Non ora, non ancora, le avevo sussurrato. E lei, accorgendosi di avere toccato un tasto sbagliato, aveva prontamente cambiato argomento.

Il posto scelto da Sara era piuttosto isolato. La torre, una costruzione in pietra che in passato era stata eretta a difesa del paese e in seguito utilizzata come granaio, sorgeva ai confini del borgo ed era ormai abbandonata da tempo. Lo spiazzo che la circondava era stato invaso da piante e arbusti selvatici, accentuandone l’aspetto decadente. Da dietro la torre si diramavano due sentieri che si perdevano tra i campi. Ne inforcammo uno tra due ulivi che apparivano come sentinelle, contorte su sé stesse. Sara camminava svelta, come se avesse fretta di allontanarsi dal paese. Dopo una ventina di minuti si arrestò e indicò il prato alla sinistra del sentiero. Non vidi nulla e mi limitai a seguirla tra il verde sbiadito dell’erba alta. Avevamo percorso una cinquantina di metri quando Sara si fermò e iniziò a calpestare l’erba. Dopo qualche minuto osservò soddisfatta il risultato e si coricò supina sul giaciglio che aveva realizzato.
“Qui staremo tranquilli. Dai, sdraiati”.
Mi distesi al suo fianco e restammo in silenzio a fissare il cielo.
“Hai mai pensato a come sarai tra dieci anni?” le domandai all’improvviso.
“Tra dieci anni?” ripeté divertita.
“Sì, come ti immagini”.
“Vediamo... tra dieci anni... mi immagino un’attrice famosa, come Sofia Loren o, quella tedesca, come si chiama...”
“Marlene Dietrich?”
“Esatto, Marlene Dietrich. E mi vedo con addosso vestiti di seta e gioielli preziosi. Mi piacerebbe girare il mondo, percorrere le strade di Roma... o di Parigi!”.
“Roma è meravigliosa. È un museo all’aria aperta. Nelle piazze e nelle strade si respira la grandezza dell’antico impero, si è avvolti da un’atmosfera epica, unica. Ogni pietra che calpesti ha una leggenda da raccontare, dietro ogni angolo si nasconde un pezzetto di Storia”.
“Ti invidio, sai, che ci sei stato. Per me è un sogno e resterà tale”.
“Il solo limite ai nostri sogni è la nostra immaginazione”.
Non era una frase mia, non mi ricordavo dove l’avessi sentita, ma mi sembrò appropriata alle circostanze. Ci voltammo contemporaneamente, le guance adagiate sull’erba, i visi l’uno vicino all’altro. Sorrise. Nei suoi occhi luminosi mi parve di scorgere la sagoma inconfondibile del Colosseo.
Senza quasi rendermene conto, iniziai a parlarle del mio passato. Rispetto al suo, vissuto tra le tranquille mura domestiche e le terre intorno al paese in cui era nata, il mio era eccezionalmente burrascoso e, quando terminai di raccontare, commentò strabiliata:
“È la storia più incredibile che abbia mai sentito”.
Era vero, era difficile da credere, eppure era andata proprio così. La signora Milton, quando cinque anni prima ero tornato da lei in cerca di aiuto, aveva usato lo stesso aggettivo: incredibile. E come allora, quando ebbi finito la narrazione, sentii i ricordi, i più pesanti, alleggerirsi. Ricordi che, malgrado gli anni recenti, non avevano smesso del tutto di tormentarmi. Ebbi la conferma che dar fiato agli episodi più dolorosi della mia vita aveva una funzione terapeutica, equivaleva ad aprire una valvola di sicurezza e diminuire la pressione interna. Conservavo comunque una gelosia perversa per tutto ciò che mi era accaduto e, a dispetto degli effetti benefici, riuscivo a rivelare il mio passato solamente a persone che sentivo particolarmente vicino. Sara, nonostante ci conoscessimo da poco, era una di quelle.
“Quando la realtà trascende l’immaginazione, accade ciò che non avevamo né sognato né immaginato” filosofai.
Sara aggrottò la fronte, intimorita.
“Non dire così, mi fai paura”.
Risi.
“Ma si può sempre ricominciare da zero, non è mai troppo tardi” la rassicurai e con il pensiero ripercorsi a ritroso gli ultimi anni fino all’incontro con Marco.
Sfumature rossastre tinsero il cielo.
“Si è fatto tardi, devo tornare a casa. Ho promesso a mia madre di aiutarla a preparare la cena”.
Mi alzai e le porsi la mano.
“Marlene....”.
“Dai, non mi prendere in giro” si lamentò afferrandomi il braccio e sollevandosi in piedi. Ci fissammo un secondo, seri, poi le nostre risate riecheggiarono nella valle.

Ci vedevamo il mercoledì, al mercato, ma erano incontri fugaci. Il sabato, invece, avevamo tutto il pomeriggio per noi. Più stavamo insieme, più mi sentivo attratto, più la desideravo fisicamente. Passarono alcune settimane fino a quando, una sera, prima di separarci, la attirai verso di me e posai la mia bocca sulla sua. Sara non si ritrasse e restò come in attesa. Spinsi allora la lingua tra le sue labbra morbide e trasformai quel contatto casto in bacio lungo e appassionato.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 27 - prima parte)

Febbraio 1968

Mancava soltanto una settimana alla mia partenza. Il mite inverno pugliese era volato via senza lasciare traccia e minuscoli germogli sui rami spogli degli alberi annunciavano timidi l’arrivo della primavera, in largo anticipo rispetto al Nord, dove ad attendermi avrei trovato una nebbia fitta e pungente. Non era solamente il clima a trattenermi al Sud. Erano le mie dita, che si erano abituate a scorrere sul corpo levigato di Sara, a chiedermi di restare. Non erano ancora stanche di esplorare, di impregnarsi del suo odore aspro. Era la mia bocca a pregarmi di non partire, golosa del sapore inebriante delle sue labbra e della freschezza dei suoi seni piccoli e sodi. Era l’eco del concitato ansimare su ruvidi talami di paglia, nascosti in un fienile al riparo da sguardi indiscreti, a supplicarmi di rimandare il mio ritorno a Milano. Lomellini però era stato categorico. Il primo lunedì di marzo avrei dovuto presentarmi nel suo ufficio. Non farlo significava non solo rinunciare a un lavoro sicuro e a una vita al suo fianco fatta di agi e privilegi. Non rispettando l’accordo avrei tradito la sua fiducia. Erano trascorsi quasi cinque anni da quando mi aveva tirato fuori dalla strada. Fin dal primo giorno mi aveva trattato come un figlio, scontrandosi per questo con la sciocca gelosia dei suoi legittimi eredi, incapaci di percepire come l’affetto che provava per me non aveva minimamente intaccato quello incommensurabile che provava per loro. Mi sentivo ancora in debito nei suoi confronti. Marco si era ripreso perfettamente dall’operazione e l’ultima volta che lo avevo sentito al telefono aveva già ripreso a lavorare a pieno ritmo e mi aveva ricordato il nostro appuntamento. Trascorsi una notte insonne arrovellandomi per trovare una soluzione che prese finalmente forma con le prime luci dell’alba. Dovevo parlarne con Sara immediatamente, non potevo perdere due giorni aspettando di incontrarla al mercato.
Dal bancone del bar, mentre ingurgitavo un bicchiere di latte caldo, vidi passare sul marciapiede il fratello minore di Sara. Lo raggiunsi in un attimo, gli misi in mano alcuni spiccioli e gli chiesi di dire a Sara che avevo bisogno di vederla, urgentemente. L’avrei aspettata alle due, al solito posto.

Al lavoro simulai un forte mal di testa e bruciori di stomaco e dissi che avrei trascorso il resto della giornata a casa.
Parcheggiai il furgone dietro alla vecchia torre. Sara sopraggiunse in bicicletta, alcuni minuti dopo.
“Spero sia importante. Ho lasciato mia madre da sola con la cucina che era un disastro, con tutti i piatti e le pentole da lavare”.
Le presi le mani e gliele strinsi forte.
“Non voglio partire senza di te”.
“Allora non partire”.
“Non posso, devo andare, lo sai. Ma tu verrai con me”.
“Con te?”.
“Sì, con me. Mi occuperò io di te, non dovrai preoccuparti di nulla”.
Sospirò, più divertita che sorpresa.
“Anche se volessi, mio padre non mi darebbe mai il permesso”.
“Nemmeno se ci sposiamo?” domandai, per nulla scoraggiato.
Mi guardò incredula.
“Cosa hai detto?”.
“Ti sto chiedendo di sposarmi”.
Picchiettò l’indice contro la tempia.
“Tu sei pazzo”.
“Non sono mai stato così serio in vita mia”.
“Mio padre prima ammazza me, poi viene a cercarti e ammazza pure te”.
“Ho intenzione di chiedergli ufficialmente la tua mano”.
“Vorrà sapere chi sei, cosa fai, conoscere la tua famiglia”.
“Vuoi dire quel che resta della mia famiglia” la corressi con un velo di amarezza nella voce.
Scosse la testa.
“Non conosci mio padre. Non accetterà mai di concedere la sua unica figlia femmina a un forestiero. Il mio destino è legato a questa terra”.
Non sarebbero certo state delle antiche tradizioni famigliari, così aliene al mio mondo, a dissuadermi dal mettere in pratica i miei propositi.
“Lomellini garantirà per me”.
“Te lo ha detto lui?”.
“Non ancora, ma lo farà, non ho dubbi a riguardo”.
Ero sicuro che Marco, sapute le mie intenzioni, avrebbe fatto il possibile per convincere il padre di Sara. Confidavo nelle sue capacità di persuasione che aveva sviluppato e affinato negli anni nell’ambito professionale e dentro di me sapevo che sarebbe riuscito a fargli accettare che sua figlia sposasse uno del Nord.
Sara mi rovesciò addosso uno sguardo carico di compassione.
“Puoi provare, se vuoi”.
Fino a quel momento avevo dato per scontato che Sara sarebbe stata entusiasta dell’idea di trasferirsi al Nord insieme a me. Il tono indulgente delle sue parole, pronunciate senza alcuna enfasi, mi fecero all’improvviso sospettare del contrario.
“Ma tu ci vuoi venire via con me?”.
Una scintilla le accese gli occhi.
“Sì, certo. Mi piacerebbe” e mi abbracciò stretto. Dal contatto col suo corpo trassi nuovo vigore.
“Parlerò con tuo padre, lascia fare a me”.

Incontrai il padre di Sara quella stessa sera. Per l’occasione indossai il vestito più elegante che avevo e mi presentai alla porta di casa della mia futura sposa con un mazzo di rose rosse in una mano e nell’altra una bottiglia di vino che mi era costata una fortuna.
Fu un disastro. Mi scontrai con un uomo dal pensiero semplice ma inaccessibile, fortificato nelle sue convinzioni, per nulla disposto a rinunciare alle usanze tipiche della sua famiglia. Famiglia che, sottolineò, non avrebbe mai disonorato accettando la mia proposta. Incapace di trovare argomenti per ribattere a un’esibizione a tratti teatrale di anacronismo culturale, mi ritirai deriso e frastornato, con l’idea che, da solo, non ce l’avrei mai fatta. Dal bar sotto casa telefonai a Marco e lo misi al corrente degli ultimi accadimenti. Sulle prime si mostrò restio all’idea di un viaggio al Sud e solo di fronte alla mia insistenza accettò di incontrare il padre di Sara.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 27 - seconda parte)

Lomellini non visitava spesso i luoghi in cui si svolgevano i lavori dell’azienda. Lasciava che fossero i propri collaboratori a svolgere i controlli periodici e si limitava ad analizzare le loro relazioni comodamente seduto nel suo ufficio. L’annuncio del suo arrivo sorprese quindi il direttore del cantiere, dato che erano trascorsi appena sette mesi dall’ultima visita dell’ingegnere. Convinto che il motivo fosse un interesse particolare del titolare dell’azienda per il progetto pugliese, decise di celebrare l’evento organizzando una cena di accoglienza a cui avrebbero partecipato tutti gli operai e le rispettive famiglie. La serata si sarebbe svolta nel cantiere stesso, nell’area adibita a mensa. Vennero ordinati due maialini da arrostire sulla brace e venne contattato un gruppo locale per rallegrare l’atmosfera con uno spettacolo di musica tradizionale.
Gli operai, rigorosamente in giacca e cravatta, giunsero alla spicciolata, accompagnati dalle mogli, agghindate a festa per l’occasione, e da bambini schiamazzanti ed eccitati. Le coppie varcavano a braccetto l’ingresso del cantiere e avanzavano in direzione della tavola imbandita come se stessero sfilando in passerella.
Alcuni volontari si incaricarono del fuoco, altri iniziarono a stappare le bottiglie e versare il vino, altri ancora disposero le sedie e le panche a semicerchio di fronte a tre sedie sulle quali presero posto i musicisti. In attesa della cena era previsto un assaggio di “pizzica”.
Il suono inconfondibile del violino risuonò stridulo nel cantiere, accompagnato da quello più dolce della chitarra, dall’allegro fischio del flauto e dal ritmico scampanellio del tamburello. Da posizioni diametralmente opposte, una coppia di giovani avanzò lentamente verso il centro, scrutandosi con sguardo fisso e intenso. Giunti a pochi passi l’uno dall’altra, la ragazza sventolò un fazzoletto e finse di avvicinarsi ulteriormente muovendo in avanti il busto e accennando un passo. Un istante dopo afferrò l’estremità della lunga gonna e, con uno scatto repentino, scartò prima di lato e indietreggiò poi con una rapida sequenza di balzi. Il ragazzo, tutt’altro che sorpreso dall’azione improvvisa della ragazza, distese le braccia e la inseguì alternando saltelli leggeri a uno sbattere vigoroso di piedi sul terreno. La ragazza sfuggì all’attacco del ragazzo con vorticosi giri su sé stessa, come una trottola impazzita. Una melodia incalzante e vivace accompagnava i frenetici movimenti dei ballerini, impegnati in una folle danza in cui alternavano brevi momenti di studio ad agili guizzi con i quali un po’ si inseguivano e un po’ si incrociavano, sfiorandosi. Il pubblico, visibilmente eccitato, partecipava con grida infervorate e battiti di mano, aumentando il ritmo quando il ballo si faceva particolarmente scatenato. Il cielo, scuro e stellato, faceva da contorno a quello spettacolo semplice e genuino che possedeva un non so che di magico.
“Secondo la leggenda” mi spiegò Antonio “un giovane marinaio, dopo aver sedotto una fanciulla di nome Arakne e aver trascorso insieme a lei una notte d’amore, partì per un lungo viaggio. La ragazza attese fedele per anni il suo ritorno e quando finalmente intravvide la barca all’orizzonte, essa fu affondata dai nemici, causando la morte di tutti coloro che si trovavano a bordo. Quando Arakne morì, Zeus la trasformò in ragno e la mandò sulla terra affinché potesse vendicarsi per l’amore che gli uomini le avevano rubato”.
Ascoltavo il suo racconto, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dai ballerini e ne seguivo incantato i movimenti.
“Le danze tipiche di queste terre sono nate così. Chi veniva morso dalla tarantola cadeva in un sonno ipnotico e si risvegliava solamente al suono del tamburello. Col tempo, però, la tradizione si è persa. Solo recentemente sono state riscoperte, soprattutto nel Salento. Nel nord della Puglia è ancora piuttosto raro assistere a uno spettacolo di “pizzica””.
Nel frattempo, un invitante profumo di carne arrostita si era sparso nell’aria. I giovani smisero di danzare tra uno scroscio prolungato di applausi. Lentamente gli astanti si alzarono e, trascinando ognuno la propria sedia, presero posto a tavola. Proprio in quel momento, il rombo conosciuto dell’Alfa annunciò l’arrivo dell’ospite d’onore. Il medico gli aveva sicuramente sconsigliato un viaggio così lungo in macchina, in fondo stava ancora recuperandosi dall’operazione e il ginocchio avrebbe risentito dello sforzo. Ma il viaggio in treno era più lungo, considerati i cambi, e Marco non aveva molto tempo da perdere, men che meno dietro alle mie vicende amorose. Quando lo vidi scendere dall’auto pensai che per nessun altro al mondo si sarebbe prodigato in quel modo. Gli andai incontro riconoscente e lo abbracciai. Mi salutò calorosamente e mi domandò come stavo. Quando ritornai verso la tavola notai che gli operai mi stavano osservando stupiti. Nessuno di loro era a conoscenza del rapporto speciale che mi univa a Marco. Neppure il direttore del cantiere, nonostante la lettera di raccomandazione, poteva immaginarsi veramente la realtà delle cose. Provai un certo imbarazzo di fronte a quegli sguardi interrogativi, come se avessi tutto d’un tratto tradito la semplicità e la generosità con cui mi avevano accolto nel gruppo fin dall’inizio. Sentii l’impulso di dar loro una spiegazione, ma non era quello il momento ideale per rivelare come e perché ero diventato l’autista del loro datore di lavoro. Il mio disagio crebbe a dismisura quando Lomellini, dopo essersi informato brevemente col direttore su come procedevano i lavori e ignorando la festa che era stata organizzata in suo onore, mi chiese di accompagnarlo a conoscere il padre di Sara. Salimmo in macchina accompagnati da un mormorio concitato, tra l’incredulità generale dei presenti, ben riassunta nell’espressione sgomenta del direttore, incapace di contrastare lo svolgersi degli eventi e accennare una protesta di fronte all’ingratitudine di Lomellini. Una volta soli, provai a persuaderlo che non era una buona idea presentarsi a quell’ora a casa di uno sconosciuto.
“Non si tratta di uno sconosciuto, si tratta del tuo futuro suocero” tagliò corto.
Quella frase rappresentava la perfetta sintesi del carattere di Marco. L’eventualità di un fallimento della nostra missione non veniva nemmeno presa in considerazione. Quando bussammo alla porta della casa di Sara erano le dieci passate. Ci aprì la madre, in vestaglia, e ci informò che suo marito era fuori, al bar di fronte alla chiesa. Marco la ringraziò per l’informazione senza scusarsi per il disturbo, visibilmente seccato per quel contrattempo inatteso. Sperai con tutto me stesso che ciò lo facesse desistere e rimandare l’incontro al giorno dopo.
“Andiamo al bar” disse, più risoluto che mai.

Il ritrovo era fumoso e affollato. Il padre di Sara stava chiacchierando allegramente con un paio di amici. Dal posto in cui era seduto si godeva un’ampia visione dell’intero locale, inclusa la porta d’ingresso. Quando mi vide entrare appoggiò sul tavolo il bicchiere e mi fulminò con un’occhiata ostile. Afferrai Marco per un braccio.
“Lasciamo perdere”.
“Ho fatto ottocento chilometri e tu mi chiedi di lasciar perdere?”.
“Almeno per stasera”.
Scosse la testa.
“I problemi prima si affrontano e prima si risolvono”.
“Dove si trova?” mi domandò dopo aver fatto scorrere lo sguardo per il locale.
Indicai il tavolo con un cenno del capo. Non fu necessario che gli specificassi chi fosse la persona che stavamo cercando. Il padre di Sara, che mi aveva fissato costantemente da quando eravamo entrati, ci indicò agli amici.
“Vi presento il Casanova del Nord” e proruppe in una risata sguaiata. Aveva esagerato con l’alcol. Se fargli cambiare idea da sobrio sarebbe stata un’impresa ardua, in quelle condizioni sarebbe stato praticamente impossibile, ma sapevo che Marco non si sarebbe dato per vinto facilmente.
“Michele Santacroce?” domandò infatti con tono affabile.
“In persona. Chi lo desidera?”.
“Ingegnere Lomellini” si presentò Marco porgendogli la mano. “Vorrei parlarle, se possibile in un posto più tranquillo”.
Marco non era solito utilizzare il titolo nelle presentazioni. Era chiaro che facesse parte di una precisa strategia, cercava evidentemente di guadagnare autorità agli occhi del padre di Sara. Santacroce scolò in un sorso ciò che restava del vino e strinse svogliatamente la mano di Marco.
“Andiamo”.
Si avviò con passo incerto verso l’uscita.
Si accomodò su una panchina nella piazza antistante e invitò Marco a sedersi al suo fianco. Restai in piedi, a qualche metro di distanza.
“Qui siamo in un posto tranquillo. L’ascolto”.
“Guido mi ha informato delle sue intenzioni di contrarre matrimonio con sua figlia Sara” esordì Lomellini, senza tanti giri di parole.
“Di nuovo questa storia” lo interruppe sbuffando Santacroce.
“Sono qui per garantire la rispettabilità della sua persona e la serietà della sua proposta”.
“E lei chi sarebbe, un parente?”.
“Sono il padre adottivo” mentì Marco. “Suo padre è mancato quando Guido era piccolo”.
“Sì, sì, lo so. Questo me l’ha già detto lui” ribatté il padre di Sara additandomi. “È possibile che la proposta sia seria, ma mia figlia sposerà un giovanotto di queste terre. Quando sarà il momento, tra qualche anno. È ancora troppo giovane”.
“Lei vuole bene a sua figlia, signor Santacroce?” lo incalzò Marco, per nulla scoraggiato.
“Ma che razza di domanda è questa! Certo che le voglio bene”.
“E non pensa che volerle bene significhi fare il possibile affinché possa essere felice?”.
“Sì, ed è per questo che non acconsentirò che sposi un forestiero. Mia figlia sposerà un giovane di qui, un pugliese. Sarà una moglie fedele e si prenderà cura della casa e dei figli. E sarà felice”.
“Ne è sicuro? Ne avete mai parlato?”
“Certe cose si sanno, non c’è bisogno di parlarne”.
“Guido si prenderà cura di sua figlia, l’amerà e la rispetterà”.
Un ghigno beffardo deformò il volto di Michele Santacroce.
“Ma non la capirà. Una persona per essere felice deve essere capita e voi del Nord a noi del Sud non ci capite”.
“Forse ha ragione, non la capisco, infatti. Lei, signor Santacroce, ha già deciso il futuro di sua figlia. Il fatto che Sara abbia manifestato il desiderio di sposare Guido non ha per lei nessuna importanza. La volontà di sua figlia non conta nulla e nemmeno conta qualcosa l’amore che Guido prova per lei”.
“Sara è poco più che una ragazzina, non ha idea di cosa voglia dire amare una persona”.
Lomellini abbassò lo sguardo e tacque. Sotto il peso di quel silenzio improvviso, appena scalfito da un vociare attutito e incomprensibile proveniente dal bar, sentii scricchiolare la speranza che avevo riposto in lui e nella sua capacità di persuasione.
“È probabile che sua figlia sappia molte più cose sull’amore di quanto lei si immagini”.
Ebbi la tentazione di intervenire per confermare quanto detto da Marco. Fu un attimo. Realizzai immediatamente che non si trattava di una buona idea, mi morsi il labbro senza dire nulla.
“Cosa vuole insinuare? Che mia figlia ha disonorato la famiglia? Stia attento a quello che dice” minacciò Santacroce con il volto paonazzo. L’atmosfera si faceva via via più tesa.
“Non voglio insinuare nulla e tanto meno offendere l’onore della sua famiglia. Lungi da me. Non mi riferisco alle azioni bensì alle emozioni. Sto parlando di sentimenti, signor Santacroce. Sono convinto che sua figlia Sara provi per Guido un profondo e sincero amore.”
“I sentimenti possono cambiare”.
Segni di impazienza affiorarono sul volto di Marco. Estrasse una Winston dal pacchetto e l’accese.
“Ma non sta a lei decidere come e quando. Non può opporsi alla forza che attrae questi due ragazzi. Impedendone il matrimonio, non farà altro che alimentare il loro desiderio di stare insieme”.
“Certo che posso, ed è esattamente quello che farò”. Era un’affermazione che non lasciava spazio a repliche.
“Lei sta commettendo un errore”. Era un ultimo e scomposto tentativo di far cambiare idea al padre di Sara e le parole uscirono dalla bocca di Marco cariche di stizza ma senza alcuna convinzione. Santacroce lo fissò torvo.
“Mi sembra che non abbiamo più niente da dirci”. Sollevò la sua possente mole e si congedò senza aggiungere altro.
“Stupido e ottuso ciccione” lo apostrofò Lomellini a bassa voce.
Lo osservai allontanarsi e svanire all’interno del locale, dopodiché mi rivolsi a Marco, facendo il possibile per mascherare la delusione:
“Grazie lo stesso”.
Non rispose. Si limitò a guardarmi, visibilmente contrariato.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 27 - terza parte)

Ripartì il giorno dopo all’alba, infuriato per il viaggio a vuoto, per fortuna più con il padre di Sara che con il sottoscritto. Mi diede appuntamento a Milano per il lunedì successivo. Mi restavano solamente quattro giorni.
Quella sera, in un istante di follia, decisi che la mia incoscienza sarebbe riuscita là dove la diplomazia di Marco aveva fallito. Ne parlai con Sara e con mia grande sorpresa non fu troppo difficile convincerla a fuggire insieme. Bisognava organizzare un piano. Trascorsi l’intero pomeriggio a studiare la cartina e ad analizzare le possibili vie di fuga. La più rapida consisteva nel prendere la corriera per Foggia e da lì un treno verso Ancona. Quando le domandai la sua opinione, Sara mi fece notare che, non appena si fossero accorti della nostra fuga, le ricerche sarebbero avvenute proprio verso est e difficilmente avremmo avuto il tempo di partire dalla stazione di Foggia prima che sopraggiungessero in macchina i nostri inseguitori. Per quanto più lunga, anzi, proprio perché più lunga e per questo meno logica, la via verso ovest sarebbe stata più sicura. Avremmo dovuto prendere la prima corriera del mattino per Benevento. Da lì raggiungere Napoli in treno o in corriera, per poi proseguire in treno per Roma. Era un piano semplice che basava la sua riuscita sull’ipotesi che il padre di Sara, colto alla sprovvista, avrebbe ordinato l’inseguimento verso Foggia. Prima che si accorgessero dell’errore, noi avremmo avuto il tempo di abbandonare Benevento e a quel punto sarebbe stato ormai impossibile raggiungerci. Avevamo il cinquanta per cento di possibilità di successo. Ad un pessimista sarebbe sembrato pochissimo. A noi due, con la ragione annebbiata dall’amore e l’ottimismo alimentato dalla passione, parve una percentuale altissima. Decidemmo di non parlarne con nessuno, nemmeno con le persone delle quali sapevamo poterci fidare. Il pomeriggio precedente il giorno prefissato, nascosti in un granaio, ripassammo il piano tra un bacio e l’altro. Saremmo andati a piedi, attraverso i campi, alla fermata del paesino successivo in modo che nessuno a Candela potesse vederci salire sulla corriera. Mi raccomandai con Sara di non preparare nessuna borsa, nemmeno una piccola, per non insospettire i suoi famigliari. Avevo soldi a sufficienza per comprare tutto ciò di cui aveva bisogno una volta in salvo. L’appuntamento era per le tre del mattino dietro alla torre. Ci sfiorammo l’uno la guancia dell’altro con una carezza e ci allontanammo in direzioni opposte.
Dopo cena scelsi le cose da portare via. Avremmo dovuto camminare parecchi chilometri e non volevo appesantire troppo la mia sacca. In ogni caso si trattava di pochi oggetti: qualche foto, alcuni libri, un po’ di vestiti e il denaro nascosto in una tasca interna della borsa. Appoggiai la sacca di fianco al letto, programmai la vecchia sveglia pregando che non si rompesse proprio quella notte e mi abbandonai sul materasso. Sentii l’eccitazione fluire lentamente dalla testa e impadronirsi poco a poco del mio corpo. Il mio pensiero corse a casa di Sara. Il suo compito era certamente più difficile del mio. Divideva la stanza con la sorella e non poteva mettere l’allarme. Sarebbe dovuta andare a letto e avrebbe dovuto fingere di addormentarsi, rimanendo invece desta fino all’ora prevista. Sarebbe poi sgattaiolata via facendo attenzione a non interrompere il sonno della sorella e degli altri componenti della famiglia. Se tutto fosse andato per il verso giusto, la sua assenza sarebbe stata notata solamente verso le sette. Sara rischiava molto più di me. Se qualcosa fosse andato storto, suo padre gliel’avrebbe fatta pagare carissima. Sara pensava addirittura che avrebbe potuto rinchiuderla in un convento. Pensai a quanto poco al confronto rischiassi io e mi sentii in colpa. Stavamo per compiere una pazzia, ma ormai era tardi per tornare indietro. Non chiusi occhio, eppure quando mi alzai dal letto alle due e mezza non ero affatto stanco. I muscoli vibravano impercettibilmente sotto l’effetto dell’adrenalina. Afferrai la borsa e uscii. Un cane randagio spelacchiato si aggirava per il paese deserto in cerca di cibo. La notte era nitida. Brillava Orione, dominando le altre costellazioni, e la luna sorrideva sottile nel cielo nero. Raggiunsi la torre e restai con l’animo in tormento in attesa di Sara. Dopo alcuni minuti la vidi arrivare di corsa.
“Andiamo, non c’è tempo da perdere” ansimò.
Ci precipitammo giù per i campi col cuore in gola, incuranti di inzupparci di rugiada i pantaloni e le scarpe, voltandoci di tanto in tanto per assicurarci che alle nostre spalle non ci fosse nessuno.
Giungemmo alla fermata in largo anticipo. Iniziai a guardare l’orologio ogni due minuti, maledicendo il tempo che sembrava essersi fermato. Sara scrutava nervosamente il buio circostante. Finalmente in lontananza si intravvidero i fari della corriera, dapprima due minuscoli puntini luminosi poco più grandi di una lucciola, poi sempre più grandi fino a quando la sagoma del veicolo emerse dall’oscurità.
“Due biglietti per Benevento”.
L’autista ci squadrò con aria interrogativa. Sorrisi, cercando di mantenere la calma, e gli porsi i soldi. Prese la banconota e mi diede in cambio due biglietti e il resto. Quando chiuse la porta e ripartì tirai un sospiro di sollievo. La prima parte del piano era riuscita alla perfezione.
Alla stazione di Benevento scoprimmo che il primo treno per Napoli sarebbe partito dopo quasi due ore. Un tizio ci informò che le due città erano collegate da una corriera che effettuava una sola corsa nel primo pomeriggio. Non potevamo fare altro che aspettare il treno. Sara iniziava a dare i primi segni di cedimento, sopraffatta dalla stanchezza. Ci sedemmo per terra in un angolo e si accasciò sulla mia spalla. Ero esausto e lottai strenuamente per tenere gli occhi aperti. Resistetti un’ora, poi, vinto dalla fatica, mi addormentai.
Uno stridore di freni sui binari mi fece sobbalzare. Impiegai un attimo per capire che il treno era arrivato. Risvegliai Sara, che mi seguì ancora mezza addormentata, e salimmo su un vagone a centro treno. Ci sistemammo in uno scompartimento vuoto, ci stringemmo le mani e restammo in attesa. Un fischio acuto e prolungato annunciò la partenza immediata del treno. Quando il convoglio si mosse con un sussulto capimmo che ce l’avevamo fatta. Ci scambiammo un sorriso con gli occhi lucidi e ci abbandonammo sfiniti l’uno nelle braccia dell’altro.
A Napoli mangiammo un piatto di pasta prima di ripartire per Roma. Giunti nella capitale, decidemmo di fare un giro per la città. Comprammo dei vestiti e un borsone per Sara. Percorremmo i Fori Imperiali, visitammo il Colosseo, attraversammo il Circo Massimo, salimmo e scendemmo due o tre volte la scalinata di Piazza di Spagna, sostammo in Piazza Navona, giungemmo infine di fronte alla fontana di Trevi.
“Qui è dove ha fatto il bagno Anita Ekberg ne La Dolce Vita” dissi.
Sara mi guardò commossa.
“Avevi ragione, amore mio. Ogni tanto i sogni diventano realtà”.

Chiamai Lomellini per metterlo al corrente della nostra fuga.
“Siete sempre intenzionati a sposarvi?”.
“Certo. Dopo tutto ’sto casino...”.
“Intorno alla metà di marzo resterò a Piacenza una settimana. Che ne dici di celebrare lì il matrimonio e festeggiare in villa?”.
“Mi sembra un’ottima idea”.

Erano trascorsi più di dieci anni dall’ultima volta che avevo visto mia madre. Avevamo cenato insieme una sera d’autunno. Il giorno dopo avevo lasciato Camogli per vendicare la morte di mio padre. L’odio maturato per il suo silenzio durante gli anni del carcere era via via scemato col passare del tempo. Forse per quello o forse perché Camogli si trovava sulla strada per Milano che ci fermammo nel paesino della riviera ligure.
Costanza, come era prevedibile, fu sorpresa di vedermi e nei suoi occhi notai anche un certo imbarazzo. La gentilezza e l’ospitalità con le quali accolse Sara contrastavano con la freddezza e il distacco che manteneva con me. Non ero andato a Camogli per ricevere la sua approvazione, ero stato spinto solamente dal desiderio che incontrasse la ragazza che sarebbe diventata mia moglie, eppure in un momento in cui eravamo soli le domandai:
“Ti piace?”.
“Sì”.
Mi raccontò che Vincenzo si era ammalato, lo avevano già operato sei volte, ma non si era mai ripreso completamente. Ogni giorno che passava stava sempre peggio, perdeva peso e si indeboliva. Le domandai di Giovanna. Dopo il liceo si era iscritta a ingegneria chimica. Nel 1966, quando aveva ventitré anni, anche lei era stata male per un addensamento ghiandolare al polmone. Era stata costretta a letto per un anno ed era ingrassata venticinque chili. Ora stava di nuovo bene, ma la malattia aveva ritardato gli studi e le mancava ancora qualche anno per laurearsi.
Entrai nella sua stanza. Era seduta alla scrivania, china su un libro.
“Stamattina mi hai detto che volevi parlarmi” dissi per giustificare la mia intrusione.
“Voglio mostrarti una cosa”.
Aprì un cassetto del comodino ed estrasse alcune lettere.
“Guarda”.
Riconobbi immediatamente la calligrafia. Erano le lettere che le avevo scritto dal carcere. Per un attimo fu come se Enrico fosse lì nella stanza insieme a noi. Il ritmo della loro vita è scandito dai loro problemi, non dai nostri.
Le restituii le lettere.
“Non mi hai mai risposto”.
“Non le ho mai ricevute. Le ho trovate per caso un paio di anni fa. Erano nascoste in una scatola in un cassetto in camera di Costanza. Quando le ho chiesto spiegazioni mi ha detto che quando il postino gliele consegnava, lei prontamente le faceva sparire. Non giustificava la tua vendetta e non voleva quindi che mantenessi un contatto con te. Lo ha fatto per proteggermi, mi ha confessato, non per cattiveria nei tuoi confronti. Io non sapevo nulla, non sapevo cosa avevi fatto, non sapevo che eri in carcere. Dopo che sei sparito le ho chiesto di te, diceva che eri via per lavoro. Ho continuato per un po’ a domandarle tue notizie, poi ho smesso. Quando ho trovato le lettere ho telefonato al carcere di Viterbo e mi hanno detto che eri ormai fuori da tre anni e che non sapevano come aiutarmi a ritrovarti”.
Costanza, ancora lei. Il destino voleva che odiassi quella donna.
A cena non dissi nulla, per non litigare in presenza di Sara, ma decisi che in futuro non avrei mai più rivisto mia madre.
La mattina dopo partimmo diretti a Milano.

Arrivammo in villa il 15 marzo, quattro giorni prima della data prescelta per il matrimonio. Lomellini aveva dato disposizioni affinché venisse organizzato un banchetto in grande stile nel giardino della villa. Si incaricò personalmente di scegliere il menù e la carta dei vini. C’era però un ultimo problema da affrontare. Sara era minorenne e la legge permetteva il matrimonio di minori solamente in presenza dei genitori. Grazie ad un amico avvocato, Marco venne a conoscenza di un articolo del codice grazie al quale, in caso di pericolo di morte di almeno uno degli sposi, quella legge poteva essere aggirata. Lomellini in persona comunicò al prete che ero afflitto da una grave malattia. In realtà stavo benissimo e non mostravo alcun segno di qualche infermità incurabile, pensai quindi che, per convincere il prete, Lomellini avesse messo mano al portafoglio. Marco si prodigò in modo incredibile per far sì che il matrimonio tra me e Sara fosse possibile. L’affetto che provava nei miei confronti mi era ben noto, ma non potei fare a meno di sospettare, e la cosa mi faceva sorridere, che tutto quell’impegno nascesse anche da un suo personale sentimento di rivalsa nei confronti di Michele Santacroce.
Sara scelse un abito bianco di raso di seta che le fasciava il busto e si apriva all’altezza della vita per continuare poi in un lungo strascico. Il mio era invece un vestito scuro con i gemelli d’oro, una camicia bianca e una cravatta grigio argento. Il tutto ovviamente a spese di Lomellini.
La cerimonia fu semplice e breve, celebrata alla presenza di una cinquantina di invitati, tra i quali nessun parente della sposa e uno solo dello sposo, Giovanna, accompagnata per l’occasione da Davide, un amico intimo dell’università. Il pranzo, costituito da innumerevoli portate, si protrasse fino a pomeriggio inoltrato. La giornata di festa si concluse con una sorpresa inaspettata organizzata da Marco. Non appena calò il buio, uno spettacolo di fuochi artificiali colorò il cielo sopra la villa.
Restammo alcuni giorni in Emilia Romagna, in attesa che l’appartamento che avevamo preso in affitto a Milano fosse pronto per andarci ad abitare. La sera prima di trasferirci decidemmo di trascorrere qualche ora in giardino, sulle sdraio, per respirare fino all’ultimo l’aria pulita della campagna.
“Guido”.
“Sì”.
“Devo dirti una cosa”.
“Ti ascolto”.
“Sono incinta”.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 28)

Ottobre 1968

Luca nacque all’inizio di ottobre, qualche settimana in anticipo rispetto alla data indicata dal ginecologo.
A quei tempi non era permesso ai padri di assistere al parto e attesi la nascita di mio figlio in un bar vicino all’ospedale. Ogni due o tre ore mi alzavo, raggiungevo il reparto maternità e domandavo all’infermiera se c’erano novità. Per ben quattro volte ritornai al bar. Alla televisione stavano trasmettendo le gare delle olimpiadi di Città del Messico. Un’immagine in particolare mi era rimasta impressa, quella di Tommie Smith e John Carlos con il pugno sollevato avvolto in un guanto nero durante la cerimonia di premiazione dei quattrocento metri. Protestavano per le condizioni di discriminazione dei neri nel loro paese, gli Stati Uniti d’America, paese in cui, nell’aprile di quello stesso anno, era stato assassinato Martin Luther King. Il loro era un segno di protesta anche nei confronti della repressione che il governo messicano aveva attuato nei confronti delle manifestazioni studentesche, repressione che era culminata con la strage della Piazza delle Tre Culture il 2 ottobre, nella quale un centinaio di studenti erano stati ammazzati a sangue freddo dalla polizia. Smith e Carlos pagarono a caro prezzo quel gesto. Una lunga squalifica comminatagli dalla federazione internazionale mise fine alla loro carriera di atleti. Quando il ginecologo ci informò che si trattava di un maschietto, con l’immagine di alcune ore prima ancora in testa, proposi a Sara di aggiungere Tommaso, la traduzione in italiano di Tommie, a Luca, il nome che avevamo scelto.
Lomellini mi concesse due settimane di ferie per restare a casa e aiutare Sara con il piccolo. In realtà Sara non mi faceva fare molto, a parte la spesa e qualche piccola faccenda domestica. Ritornai quindi a lavorare qualche giorno prima del previsto e ad aspettarmi trovai l’ultimo modello uscito quell’anno dagli stabilimenti dell’Alfa Romeo, una splendida Alfa 1750 nuova di zecca che Lomellini si era appena regalato per il compleanno.
Il lavoro d’autista iniziò poco a poco a farsi sempre più pesante, soprattutto perché le lunghe assenze da casa diventarono ben presto fonte di violente discussioni con Sara. Nonostante stessimo a Milano da oltre sei mesi, non si era ancora adattata alla grande città, non conosceva molte persone e quando restavo via per parecchi giorni, a volte anche per un’intera settimana, si sentiva terribilmente sola. Aveva nostalgia del caldo clima pugliese, la innervosiva il ritmo frenetico della metropoli rispetto a quello molto più tranquillo e in armonia con la natura del suo paese d’origine. Le mancava inoltre la sua famiglia. Aveva telefonato un paio di volte a casa per ricevere un po’ di conforto, ma entrambe le volte era stata lei a dover consolare la madre in lacrime. Il padre invece si rifiutava ancora di parlarle.
L’avevo convinta a studiare per prendere la licenza media superiore. Senza un diploma difficilmente avrebbe potuto trovare un buon lavoro in futuro, quando Luca avesse iniziato ad andare all’asilo. Il figlio di Lomellini, che aveva seguito le orme del padre e si era da poco laureato in ingegneria, l’aiutava con matematica e scienze. Con italiano, storia e geografia ce la cavavamo per conto nostro. Il tempo che poteva dedicare allo studio però non era molto ed era in notevole ritardo sul programma che avevamo preparato.
“Impiegherò secoli per arrivare a superare l’esame” si sfogò una sera.
“Non importa quanto ci metterai, conta il risultato. Vedrai che ce la farai” la rassicurai.

Ad Arese, poco distante da Milano, c’era un istituto per ragazzi ai quali genitori era stata temporaneamente sospesa la patria potestà. Lomellini era amico del direttore e quando aveva un po’ di tempo libero si faceva accompagnare a visitarlo. Venni a sapere che aiutava economicamente l’istituto. Finalmente avevo trovato un punto in comune tra Marco e la signora Milton, uno spirito filantropico nei confronti di ragazzi sfortunati. Lomellini mi spiegò che aveva iniziato ad interessarsi del centro da quando un giorno aveva udito un ragazzo confessare a un altro: il paradiso non so se c’è, l’inferno sì, è come casa mia!
Ci stavamo dirigendo verso Arese, percorrendo una strada secondaria che attraversava un bosco di lecci ormai spogli. Mi schiarii la voce.
“So che quello che ti sto per chiedere non ti farà piacere, ma ne va della mia famiglia. Vorrei non doverti più accompagnare nei tuoi viaggi più lunghi. Se si tratta di stare via qualche giorno non c’è problema, ma se mi assento da casa per più tempo per Sara diventa insopportabile. È difficile per lei, lo sai”.
Rimase per un po’ sovrappensiero.
“Farò a meno di te negli spostamenti più lunghi. Prenderò l’aereo e noleggerò un auto sul posto”.
Se non fosse che stavo guidando, me lo sarei abbracciato.
“Grazie Marco, grazie davvero”.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 29)

Dicembre 1969

Erano quasi le cinque, a quell’ora Lomellini sarebbe uscito dall’ufficio e mi aveva chiesto di riaccompagnarlo a casa. Avevo il tempo contato. Se passavo per Piazza Fontana allungavo leggermente ma avrei incontrato meno traffico. Svoltai a destra e trovai la strada sbarrata. Quattro o cinque veicoli fermi davanti a me e poco più avanti il lampeggiante blu di una macchina della polizia. Picchiai le mani sul volante.
“Merda, questa non ci voleva”.
L’ululato lacerante delle sirene giungeva dalla piazza come uno struggente lamento senza fine. Un poliziotto si avvicinava al fianco sinistro delle autovetture e sembrava spiegasse ai guidatori il motivo di quella sosta improvvisa. Quando raggiunse l’Alfa abbassai il finestrino.
“Mi scusi, quando potremo ripartire?”.
“Purtroppo non glielo so dire, ma temo che la strada resterà bloccata a lungo. Le conviene fare retromarcia”.
Diedi un’occhiata alle mie spalle e mi accorsi che altre macchine erano sopraggiunte nel frattempo, imprigionandomi di fatto nel posto in cui mi trovavo.
“Ma non posso!” esclamai innervosito.
“Stia calmo, ora ci attiveremo per liberare la via. Siamo appena arrivati”.
“Ma scusi, cosa è successo?”.
“C’è stato uno scoppio violentissimo all’interno della Banca dell’Agricoltura”.
Trasecolai.
“Uno scoppio?”
Il poliziotto annuì serio.
“Potrebbe trattarsi di una bomba”.
Restai a fissarlo imbambolato.
Quando mi ripresi dallo sconcerto, scesi dall’auto ed entrai in un bar per avvisare Marco. La voce dell’esplosione si era diffusa rapidamente e nell’intera zona regnava il caos. La polizia impiegò più di un’ora a liberare la strada e a far defluire il traffico.
Ero ancora scosso dagli eventi quando arrivai a casa. Sara stava preparando la cena mentre ascoltava il telegiornale.
“Hai sentito?”.
“Sì. Ho rischiato di passare davanti alla banca nel momento dell’esplosione”.
“Ci sono dei morti, una quindicina, forse di più”.
Luca entrò in cucina trotterellando. Lo acchiappai e lo sollevai in alto, con le braccia tese, come piaceva a lui. Emise alcuni gemiti striduli e iniziò a ridere. Nonostante Lomellini mi avesse manlevato dai viaggi più lunghi da oltre un anno, non era molto il tempo che trascorrevo a casa e ancora meno quello che dedicavo a giocare con mio figlio. Pensai a come sarebbe stato da lì a sei mesi, quando sarebbe nato il nostro secondo figlio. Nemmeno la notizia di una nuova gravidanza aveva contribuito in qualche modo a migliorare i rapporti tra me e Sara. Ogni argomento, anche il più futile e insignificante, era motivo di discussione. Una discrepanza di idee rappresentava il pretesto ideale per innescare diverbi che sfociavano spesso in accesi litigi. Vivevamo sotto lo stesso tetto, mangiavamo allo stesso tavolo, dormivamo nello stesso letto, ma spiritualmente era come se fossimo distanti anni luce. Erano trascorsi appena due anni, ma l’intesa e la passione che ci avevano fatto innamorare non erano altro che un lontano e sbiadito ricordo.
Appoggiai dolcemente Luca sul pavimento.
Quanto tempo ancora avremmo potuto resistere? Era possibile ritornare a stare bene o fuggendo precipitosamente dalla Puglia ci eravamo dimenticati di portare con noi la magia dei primi mesi? Di chi era la colpa? Eravamo noi che eravamo cambiati o erano il grigiore della città, il lavoro e la routine che avevano ucciso il nostro amore?
“Ha telefonato Giovanna”.
La voce di Sara mi riportò nella stanza.
“È morto Vincenzo. I funerali saranno dopodomani”.
Mi rividi quattordicenne scendere dal treno a Camogli. Vincenzo mi aveva accolto in casa sua come un figlio. Mi vennero in mente i regali che portava anche a me quando sbarcava, il bellissimo kimono con le frange dorate che mi aveva portato dal Giappone.
“Beh, non dici niente?”.
“La chiamerò. Non penso di andare”.
Non avevo alcuna intenzione di rivedere Costanza.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 30 - prima parte)

Luglio 1970

La prima giornata di lavoro non era andata male. Certo, guidare un furgoncino nei magazzini di un’azienda di legumi in scatola non era la stessa cosa che scaricare sull’asfalto i centoquindici cavalli dell’Alfa 1750, ma il nuovo impiego mi avrebbe permesso di avere un orario fisso, il fine settimana libero e soprattutto di poter rientrare a casa la sera. In fondo ero stato io a insistere con Marco affinché si trovasse un altro autista. Volevo provare a salvare il mio matrimonio. Per mesi aveva temporeggiato, ripeteva che di me si poteva fidare ciecamente e che sarebbe stato difficile se non impossibile trovare un degno sostituto. Era più forte di me, quelle parole mi inorgoglivano e mi spingevano a proseguire al suo fianco procrastinando indefinitamente la ricerca di una soluzione ai miei problemi con Sara. Quando però era nata Paola e gli avevo chiesto, come per Luca, due settimane di pausa, si era convinto che fosse meglio sostituirmi in via definitiva. Era stata una decisione sofferta, mi aveva confessato, e comunque per il mio futuro non dovevo preoccuparmi. Aveva parlato di me al proprietario di una piccola azienda situata alla periferia di Milano che gli aveva detto di avere bisogno di una persona che guidasse il furgone e il montacarichi all’interno dei magazzini. Era esattamente ciò che faceva al caso mio.
Uscii dalla doccia affamato. Sara stava allattando la piccola, Luca le saltellava intorno provando di tanto in tanto ad accarezzare maldestramente la sorellina. Aprii il frigo in cerca di qualcosa per riempire lo stomaco.
Squillò il telefono. Mi avviai sbuffando verso l’apparecchio.
“Pronto?”.
La voce calda di Marco risuonò nel ricevitore.
“Ho bisogno di te”.
“Dimmi”.
“Devi andare in Svizzera”.
Per un attimo avevo sperato che non si trattasse di quello.
“Non puoi chiedermelo, Marco. In passato era diverso, ma ora ho due bambini. È troppo rischioso, non me la sento”.
“L’ultimo viaggio, Guido. Ti prometto che non ce ne saranno altri”.
“Dammi un po’ di tempo per pensarci, ti chiamo domani”.
“Va bene, mi trovi in ufficio. Ciao”.
Restai alcuni secondi in piedi con l’apparecchio attaccato all’orecchio ad ascoltare il silenzio dall’altro capo, incapace di reagire. Raggiunsi la sala e sprofondai nella poltrona. Mi era passata la fame. Ripensai ai viaggi in Svizzera. Ne avevo fatti quattro o cinque, non mi ricordavo il numero esatto, ma ricordavo esattamente le sensazioni provate in ogni viaggio. Brutte. Mi accorsi che stavo tremando. Avevo paura. Sara era a conoscenza dei viaggi, non le avevo mai nascosto la destinazione, ma ne aveva sempre ignorato la vera ragione. Cosa le avrei potuto dire adesso per giustificare un altro viaggio, proprio ora che avevo trovato un lavoro stabile a mezz’ora da casa? Potevo però rifiutare un favore a Lomellini, dopo tutto quello che aveva fatto per me? No, non potevo. Non c’era bisogno di aspettare domani, sapevo già che avrei accettato, e probabilmente lo sapeva anche lui.
Quella stessa sera, a letto, comunicai a Sara la mia decisione.
“Lomellini mi ha chiesto un favore, sai che non posso dirgli di no”.
“Di che si tratta?”.
“Devo andare in Svizzera. C’è da incontrare un cliente importante e consegnargli dei documenti riservati. Marco non può andare e del nuovo autista non si fida ancora. Partirò al mattino e la sera sarò già di ritorno”.
“Ma come farai col nuovo lavoro?”.
“Prenderò una giornata di malattia”.
“Ma non puoi andare il fine settimana?”.
Il sabato e la domenica le banche erano chiuse.
“No, non posso, devo andare di giorno feriale”.
Sara sapeva che non le stavo chiedendo né il suo parere né il suo permesso, la stavo semplicemente mettendo al corrente di un compito che avrei svolto e che non era in discussione. Parlarne oltre, col rischio di litigare, avrebbe avuto come unico risultato quello di rendere più amara e più corta la notte. Stare dietro a due bambini piccoli le succhiava gran parte delle energie, in quel periodo arrivava alla sera esausta. Si voltò dall’altra parte e spense la luce sul comodino. La imitai dopo pochi minuti e ci addormentammo così, con le schiene a fronteggiarsi a pochi centimetri, ma lontani l’uno dall’altro, ognuno perso nei propri sogni.

Il mattino dopo chiamai Lomellini. La macchina era in garage da lui, già pronta. Come sulla vecchia Alfa, anche sulla nuova era stato creato un doppiofondo nel portabagagli nel quale poteva essere nascosta una piccola ventiquattrore. In entrambi i casi era stato Marco ad occuparsi personalmente della modifica. Voleva mantenere il più possibile segreti i trasferimenti illegali di denaro in Svizzera. Le banche del piccolo paese alpino garantivano la massima riservatezza sui movimenti in entrata e in uscita dai vari conti e, particolare ancora più rilevante, sull’identità degli intestatari dei medesimi. Offrivano inoltre degli ottimi interessi, ma soprattutto permettevano ai clienti stranieri di accumulare ingenti capitali sui quali non venivano pagate imposte nei paesi d’origine. Lomellini non era certo l’unico a trasferire i guadagni della propria azienda al sicuro in una banca svizzera. A partire dagli anni del boom economico si era formata una sempre più vasta rete di imprenditori disonesti e finanzieri corrotti, una vera e propria falla all’interno del sistema finanziario italiano, attraverso cui fuoriuscivano enormi somme di denaro che da un lato venivano sottratte all’erario nazionale e dall’altro andavano ad ingrassare le già ricche riserve d’oltralpe. Il tutto era possibile perché i controlli della finanza alla dogana non avvenivano sempre con la stessa accuratezza. Alcuni giorni, scelti a caso, i veicoli venivano esaminati con la massima attenzione, altri invece veniva data loro una semplice e rapida occhiata. La chiave stava proprio lì, nel sapere in anticipo in quali giorni sarebbe stato possibile attraversare la frontiera senza essere controllati a fondo. Una chiave che veniva fornita dall’avidità di alcuni finanzieri e che permetteva di spalancare le porte all’esportazione illegale di capitali. D’altro canto, gli enormi interessi che stavano dietro a questo traffico spingevano gli imprenditori a sacrificare una piccola parte del guadagno per entrare in possesso della lista dei cosiddetti “giorni sicuri”. Non sempre comunque le informazioni venivano ricompensate in contanti. Spesso il favore veniva restituito sotto forma di nuove automobili, vacanze in barca o fine settimana da trascorrere in alberghi di lusso in compagnia di ragazze avvenenti e disinibite.
“Puoi andare venerdì di questa settimana o martedì della prossima” mi informò Marco.
Non ero affatto tranquillo. Con i miei precedenti penali rischiavo grosso. Se mi avessero beccato mi sarei fatto parecchi anni di galera. Avrei lasciato Sara, senza un lavoro, sola con i piccoli.
“Chi ti ha passato l’informazione? Ti puoi fidare?”.
“È sempre andata bene, no?”.
Era vero, era sempre filato via tutto liscio come l’olio. Lomellini non solo possedeva un intuito eccezionale nel settore delle costruzioni, ma aveva dimostrato di saperci fare anche quando si era trattato di corrompere qualche ufficiale della Guardia di Finanza.
“Sì, ma non so perché questa volta non sono sereno”.
“Non ci saranno inconvenienti, vedrai”.
“Va bene, Marco, mi fido di te. Andrò venerdì, prima mi levo il pensiero e meglio è”.
Avevamo finito, non avevo bisogno di altro. Sapevo dove andare, la banca era sempre la stessa. Una volta arrivato, avrei chiesto di essere ricevuto dal direttore. Il giorno prima, come al solito, Lomellini lo avrebbe avvisato telefonicamente dell’operazione.

Trascorsi i due giorni successivi con il presentimento che qualcosa sarebbe andato storto.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 30 - seconda parte)

Il venerdì mattina entrai nel garage di Lomellini, controllai che la valigetta fosse al suo posto e iniziai la mia missione, diretto verso il confine. Dovevo raggiungere Lugano, evitando però di attraversare il confine a Chiasso. Lì era impossibile sapere quando i controlli sarebbero stati più o meno accurati. Arrivato a Como costeggiai il lago sul lato sinistro fino a Menaggio, per poi proseguire verso Porlezza. Mancavano una decina di chilometri appena alla frontiera quando si scatenò un temporale. Pioveva così forte che non potevo superare i trenta all’ora. Mano a mano che mi avvicinavo al confine sentivo crescere la tensione e quell’acquazzone improvviso aumentò ulteriormente il mio nervosismo. Presi una sigaretta dal pacchetto, ma non trovai i fiammiferi. Iniziai ad imprecare. Nello specchietto retrovisore notai che una macchina rossa era comparsa alle mie spalle. Era vicina, appena pochi metri separavano le due vetture. Troppo vicina, pensai. Con la strada bagnata avrebbe dovuto mantenersi più lontana, se avessi frenato all’improvviso mi sarebbe certamente venuta addosso. Accelerai leggermente per distanziarla. Niente da fare, l’auto rossa aumentò anche lei la velocità e si piazzò nuovamente a pochi metri di distanza. Diedi una seconda accelerata e anche questa volta, con disappunto, osservai nello specchietto la macchia rossa attaccata dietro all’Alfa. La pioggia non diminuiva d’intensità. In quelle condizioni non era il caso di mettersi a fare le gare, un incidente avrebbe compromesso l’intera missione. Rallentai. Mancavano ormai pochi chilometri alla frontiera, era meglio procedere a velocità ridotta ed essere certi di giungere a destinazione sani e salvi. In un breve tratto rettilineo l’auto rossa mi sorpassò e non appena rientrò in carreggiata, rallentò gradualmente fino a rimanere bloccata in mezzo alla strada.
“Che ***** fa questo” esclamai seccato.
Mi ero avvicinato troppo e non avevo spazio sufficiente per sorpassarla. Ingranai la retromarcia per allontanarmi un po’. In quell’istante le portiere dell’auto rossa si spalancarono e ne uscirono due individui con il volto coperto da un passamontagna. In pochi secondi raggiunsero l’Alfa, puntandomi contro una pistola.
“Scendi dalla macchina e non fare stronzate!” urlò quello che si era avvicinato alla mia portiera.
Ero paralizzato sul sedile, le mani strette sul volante.
“Ti ho detto di scendere!” sbraitò l’uomo appoggiando la canna al finestrino.
Alzai il palmo della mano per indicargli che avevo capito, aprii la portiera e scesi dall’Alfa con le mani ben in vista.
“Sappiamo cosa stai trasportando”. Era impossibile. Doveva esserci un errore. Solamente Lomellini, il direttore della banca ed io sapevamo del trasferimento dei soldi.
“Non credo di essere la persona che state cercando” balbettai. Il frastuono della pioggia sulla carrozzeria era assordante, più che gocce sembravano pietre. Avevo il viso fradicio, l’acqua mi colava dalla fronte e scivolava sugli occhi. A stento riuscivo a tenerli aperti. Battei le palpebre, inutilmente.
“Io invece credo proprio di sì”. Era sempre lo stesso a parlare. L’altro, a cui davo le spalle, non aveva ancora detto niente. “Non abbiamo tempo da perdere, consegnaci la valigetta se non vuoi che ti faccia saltare il cervello”.
Cercavano me, non si erano sbagliati. Un brivido mi attraversò la schiena. Non avevo molta scelta, dovevo dargli i soldi. Andai verso il portabagagli, incredulo. Era tutto così assurdo, come avrebbe reagito Lomellini? Notai che il secondo uomo si era allontanato verso la loro macchina. Avevo appena appoggiato la mano sull’Alfa quando udii il rumore di un motore. Stava sopraggiungendo un auto. Forse c’era ancora una speranza. Il malvivente con un rapido gesto si tolse il passamontagna e nascose alla vista la pistola, mantenendomi però sotto tiro. Era un ragazzo sulla trentina, con i capelli chiari e una voglia amaranto che gli copriva quasi interamente la metà sinistra del viso. Una Cinquecento bianca si fermò dietro l’Alfa. Un signore con gli occhiali si sporse dal finestrino.
“Serve aiuto?”.
“No, grazie. Abbiamo bucato, ma ce la caviamo da soli” rispose il ragazzo.
“Poveretti, con sto tempo”. Richiuse il finestrino, sorpassò le due vetture e sparì dietro a una curva.
“Sbrigati”.
Aprii il portellone e sollevai il doppiofondo, sfilai la valigetta e la porsi al ragazzo. L’afferrò con un gesto brusco e si volse verso il compagno che stava ritornando verso di noi, con il volto coperto.
“Che faccio con sto qui? Mi ha visto in faccia”.
Sentii il sangue gelarmi nelle vene.
“Merda, questa non ci voleva” imprecò l’altro.
Avevo già sentito quella voce, da qualche parte, in passato. Vagai nella memoria, sforzandomi di ricordare dove e quando. Il timbro riaffiorò all’improvviso dall’oblio. Avevo udito quella voce una decina di anni prima, in carcere. Non poteva essere vero.
“E... Enrico”.
L’uomo si avvicinò e mi fissò senza dire nulla. Poi lentamente si sfilò il passamontagna. Era invecchiato, ma lo riconobbi immediatamente. E lui me.
“Guido...”.
“Qualcuno mi può spiegare cosa ***** sta succedendo” sbottò il ragazzo allargando le braccia.
“Siamo stati insieme in galera” disse Enrico, calmo.
“Avrei preferito rincontrarti in altre circostanze” intervenni. “Non ho più saputo nulla di te, ma speravo che con le rapine avessi chiuso”.
“Ricordi cosa ti dissi una volta in prigione? Siamo i reietti della società, un ladro resterà per sempre un ladro. Ho provato a trasformarmi in farfalla e a spiccare il volo, ma non ci sono riuscito”. Le sue parole erano cariche della stessa sconsolata amarezza di allora. “A te però sembra essere andata diversamente” aggiunse.
“È una lunga storia. Sono stato fortunato ad incontrare la persona giusta”.
“I soldi sono suoi, vero?” mi domandò Enrico.
“Sì”.
“Se spariscono immagino che passerai dei guai”.
“Non sarà facile fargli credere che sono stato rapinato”.
“Non voglio metterti nei casini”. Si girò verso il socio. “Restituiscigli la valigetta”.
“Ma Enrico...” protestò il giovane.
“Stai zitto. Tu non sai un ***** dell’amicizia, non puoi capire. Fai come ti ho detto”.
Il ragazzo mi restituì di malavoglia la ventiquattrore. Strinsi la maniglia, frastornato dagli eventi, ma pur sempre sollevato per aver recuperato il denaro e, soprattutto, per essere ancora vivo. Risistemai la valigetta nel doppiofondo dell’Alfa. C’era ancora una cosa che non mi era chiara.
“Come facevate a sapere dei soldi?”.
Enrico sorrise scuotendo leggermente la testa. Non lo disse, ma intuii che la domanda gli era parsa ingenua.
“Davvero pensi che gli imprenditori riescano a soddisfare da soli la sete di denaro dei finanzieri corrotti? Quegli stronzi fanno il doppio gioco. Avvisano prima chi vuole portare in Svizzera i soldi, e poi noi, per intascarsi una doppia ricompensa. Ci forniscono il nome di chi ha chiesto informazioni e la lista dei giorni. Dal nome è facile risalire alla macchina che lo spallone utilizzerà per il trasporto. In questo modo sappiamo quando appostarci e chi seguire. È un lavoretto sicuro. Nessuno si sognerebbe infatti di denunciare il furto. A pochi chilometri dal confine sarebbe imbarazzante giustificare certe somme. Darebbero adito a sospetti e in ballo ci sono interessi troppo grandi per rischiare di mettersi la Finanza alle calcagna”.
Ero sconvolto. Facevo parte di un gioco molto più grande di quanto mai avessi potuto immaginare. Pensai all’ufficiale che aveva passato l’informazione a Lomellini, un tizio affidabile a sentire Marco, e sentii la rabbia montare dentro, inondarmi il cervello. Avrei convinto Lomellini a fargliela pagare cara. Enrico aveva lo sguardo perso lungo la strada. I radi capelli grigi, inzuppati, gli scendevano dal capo come frange argentate.
“Ora sono in debito con te. Come faccio a rintracciarti”.
“Non è necessario, lo sai. Comunque se vuoi incontrarmi chiedi di me al proprietario del bar Nicolini in via XXV Aprile, a Milano. Lui ti dirà dove trovarmi”.
Dopo un breve abbraccio, risalimmo ciascuno sulla propria macchina. Il ragazzo era già al riparo da tempo, da quando mi aveva ridato la valigetta. Aspettai che facessero inversione, dopodiché proseguii verso la frontiera, con il culo sul sedile e la testa da tutt’altra parte. Mi accorsi che stavo tremando.

Giunsi alla frontiera senza accorgermene.
“Documenti”.
Glieli porsi con un gesto meccanico.
...
“Sto parlando con lei”.
“Ehm... mi scusi, ero sovrappensiero. Cosa ha detto?”.
“Le ho chiesto come mai è così bagnato”.
Fortunatamente la risposta mi uscì pronta.
“Ho bucato alcuni chilometri fa e ho dovuto cambiare una ruota sotto la pioggia”.
Il doganiere mi osservò alcuni istanti, sembrava che ci fosse qualcosa che non lo convincesse.
“Tenga. Arrivederci”.
Presi il passaporto, lo ringraziai e partii. Ero in Svizzera, finalmente.

A Lugano comprai alcuni vestiti e mi cambiai. Arrivai alla banca con un paio d’ore di ritardo rispetto all’orario previsto. Il direttore mi accolse come sempre, con un sorriso falso e interessato stampato sulle labbra. Per non farmi aspettare, mi disse senza alcun risentimento nel tono della voce, aveva saltato la pausa pranzo e si era fatto portare un panino in ufficio. Gli consegnai la valigetta. Aveva la pelle ancora umida.
“Mi aspetti qui, faccio in fretta. Nel frattempo le farò portare qualcosa da bere”.
Il direttore uscì dall’ufficio con la ventiquattrore. Era l’unico ad avere libero accesso al caveau.
Ritornò dopo una decina di minuti, il sorriso ancora più accentuato, restituendomi la valigetta. Mi strinse la mano vigorosamente.
“Fatto. Tutto a posto. Dica all’ingegnere Lomellini che i suoi soldi sono al sicuro. Spero di rivederla presto, signor Tommasi. Arrivederci”.
Accennai un sorriso di cortesia. All’uscita constatai con piacere che era tornato il sole. Infilai le chiavi nella portiera . Prima di entrare mi voltai verso la banca. Immaginai il direttore seduto comodamente sulla sua poltrona di pelle nera, soddisfatto per l’affare appena concluso.
“Io spero invece di non vederla mai più”.
Misi in moto e, con la strada libera davanti, pigiai forte sull’acceleratore.

Marco non era ancora rientrato dall’ufficio. Ero troppo stanco per sentirlo per telefono e raccontargli come erano andate le cose. Su un bigliettino scrissi “tutto OK” e lo consegnai al maggiordomo.
Rientrai a casa stremato. Abbracciai Sara a lungo. Poi presi in braccio Luca e lo baciai più volte sulla testa e sul viso. Infine mi incantai a guardare la piccola Paola che dormiva beata nella culla.
“Stai bene?” mi domandò Sara, forse sorpresa da un’affettuosità a cui non era più abituata.
“Sì, sto bene. Sono solo molto stanco”.
“Come è andata con il cliente?”.
“Bene, benissimo”.

Il mattino dopo chiamai Marco a casa, per assicurarmi che non fosse in ufficio, dato che spesso andava a lavorare anche di sabato.
“Devo parlarti, urgentemente, e preferirei farlo di persona”.
“Ti aspetto qui”.

Giunto a casa sua, gli raccontai ciò che mi era successo il giorno prima. Era furioso, per essere stato fregato, e dispiaciuto, per aver messo a repentaglio la mia vita. Continuava a ripetere che a quel figlio di puttana gliela faceva passare lui la voglia di fare il doppio gioco. Quando finalmente si calmò, aprì la piccola cassaforte che aveva nello studio, prese alcune banconote e le infilò in una busta.
“Tieni, queste sono per il tuo amico. Digli di cambiare vita. E se per farlo ha bisogno di un lavoro, digli che non c’è problema, gliene trovo uno io”.
 

Diego Repetto

New member
Il baco e la farfalla (capitolo 31 - prima parte)

Luglio 1975

Negli ultimi cinque anni la relazione con Sara si era gradualmente deteriorata fino a farsi, negli ultimi tempi, insopportabile. Non erano ragioni economiche a tenerci legati. Sara era riuscita infatti a diplomarsi e, con l’aiuto di Marco, aveva trovato un impiego come segretaria in Provincia. Nonostante ci costasse ammetterlo, Luca e Paola rappresentavano l’unica ragione per la quale vivevamo ancora sotto lo stesso tetto. Una ragione alla quale chissà per quanto tempo ancora avremmo potuto appigliarci. Il nostro rapporto era talmente peggiorato che ciascuno non perdeva occasione per umiliare e ferire l’altro, a parole ma non solo. Un giorno, mentre ritornavo a casa, ero stato aggredito da cinque individui che non avevo mai visto in precedenza. Prima che si dessero alla fuga ero riuscito a leggere la targa della loro auto. Dopo essere risalito al proprietario grazie a un piccolo compenso elargito all’impiegato della motorizzazione, con un amico lo avevamo aspettato sotto casa. Dopo averlo portato in un parco e minacciato, eravamo entrati in possesso dei nomi e degli indirizzi degli altri quattro aggressori e, acchiappati uno a uno, avevamo dato loro una lezione. Il sospetto che fosse stata Sara a spingerli ad aggredirmi per vendicarsi di una lite particolarmente violenta che avevamo avuto alcune sere prima non mi ha mai abbandonato, pur non potendolo provare in alcun modo. La sera del litigio avevo colpito Sara con uno schiaffo. Non era mai accaduto prima. L’avevo accusata di avere un amante e di scoparselo nel nostro letto. Lei aveva negato tutto, l’uomo che il giornalaio di fronte a casa vedeva entrare nel palazzo in mia assenza e con il quale l’aveva vista uscire alcune volte non era altro che un caro amico. Spinto più dall’orgoglio ferito che dalla gelosia, decisi che gli avrei fatto passare la voglia di incontrare mia moglie. Da poco più di un anno avevo iniziato a lavorare per una ditta di trasporti. L’ingresso e l’uscita dall’autostrada venivano regolarmente registrati su un dispositivo nella cabina del camion. Per costruirmi un alibi convinsi il solito amico a seguirmi in autostrada con la sua macchina. In una piazzola di sosta parcheggiai il camion, montai sull’auto e lasciammo l’autostrada all’uscita successiva. In poco meno di due ore avevamo rintracciato il presunto amante di Sara, lo avevamo portato in un luogo isolato, lo avevamo picchiato e avevo recuperato il camion. Ero stato risucchiato in una spirale di violenza da cui faticavo a venir fuori. La mia vita passata non era certo paragonabile a quella di un missionario francescano, ma episodi del genere appartenevano esclusivamente a un presente nel quale, guardandomi allo specchio, non ero più in grado di riconoscermi.
Ne parlai con Marco, che continuavo a frequentare abitualmente e con il quale spesso uscivo fuori a cena, occultandogli alcuni dettagli, ma presentandogli nel complesso la situazione, sempre più catastrofica, tra me e Sara.
“Forse dovremmo separarci. Non ha più senso continuare così”.
Scosse la testa con un gesto di disapprovazione.
“Ciò che è stato unito da Dio non può essere separato dall’uomo”.
Non ero d’accordo, ma dopo quell’incontro feci il possibile per instaurare una tregua con Sara. La situazione migliorò leggermente, almeno riuscimmo a sradicare la violenza dalla nostra relazione, senza far sì però che tornasse un’accettabile armonia.

Nell’estate del ‘75 decidemmo di affittare un appartamento in un paesino sull’appennino ligure, vicino a Busalla, con l’idea di fermarci una quindicina di giorni.
Il terzo giorno dal nostro arrivo era il compleanno di Paola. Nel bel mezzo dei preparativi per il pranzo, con la cucina invasa dall’odore di torta al cioccolato, dissi a Sara che andavo a telefonare alla signora incaricata di ritirare la posta e bagnare le piante della casa di Milano.
La cabina nella piazza centrale, l’unica in tutto il paese, era libera.
“Buongiorno, sono Guido. Volevo sapere se è tutto a posto”.
“Oh buongiorno! Meno male che mi ha chiamato. Ieri, quando ero in casa e stavo innaffiando le piante, hanno suonato alla porta. Erano i carabinieri, hanno chiesto di lei. Io mi sono subito preoccupata, ho chiesto perché la stessero cercando ma non mi hanno detto nulla, solo di dirle, se l’avessi sentita, di presentarsi al più presto al comando... quello.... mi spiace non mi ricordo la via, ma è quello qui vicino, dietro al mercato, ha presente?”.
“Sì, in via Moncova. Continui a pensare alle piante e non si crucci che non ho ammazzato nessuno” le dissi ridendo. “Comunque grazie. Ne parlerò con Sara e vedrò se anticipare il ritorno. La richiamerò per farle sapere, arrivederci”.
Riagganciai la cornetta. Non ero allarmato, era sicuramente un errore, forse uno scambio di persona. Mi preoccupava invece la reazione che avrebbe avuto Sara. Non avrebbe accettato di tornare prima del previsto al caldo afoso e soffocante della città.

Non mi ero sbagliato.
“Io non torno, tu fai quello che vuoi”.
Dal tono della voce era lampante che la frase non era stata terminata, mancava un però io non sono d’accordo.
Non la sopportavo quando faceva così. Questa falsa libertà che mi lasciava, quelle parole non dette con lo scopo di apparire democratica e allo stesso tempo alimentare il senso di colpa per abbandonarla con i bambini durante le vacanze. Da impazzirci. E quasi sempre otteneva l’effetto opposto, facevo il contrario di quanto avrebbe desiderato facessi. Decisi che sarei partito l’indomani.

Arrivai alla caserma dei carabinieri di via Moncova subito dopo pranzo, con la spensieratezza di chi ha la coscienza a posto e non ha nulla da temere. Non immaginavo nemmeno lontanamente l’inferno che mi aspettava.
Non sapevo di chi chiedere, all’entrata dissi semplicemente che mi avevano cercato a casa.
“Mi ripeta il suo nome”.
“Guido Tommasi, con due emme”.
“Attenda, per cortesia”.
Il carabiniere sparì dietro a una porta a vetri. Ritornò poco dopo e per un attimo mi parve di scorgere sulle labbra un leggero sorriso.
“Salga pure, primo piano, la stanno aspettando”.
Salii le scale e, per una ragione che non riuscivo bene a identificare, non ero più tranquillo come al mio arrivo. Quel sorriso, invece che rassicurarmi, aveva avuto l’effetto opposto.
In cima alle scale mi attendeva un uomo basso, con un paio di baffi folti. Dimostrava una sessantina d’anni, anche se forse i pochi capelli grigi e un volto marcato da rughe profonde lo facevano apparire più vecchio di quanto in realtà fosse. Mi sorrise, mi strinse energeticamente la mano e, con fare eccessivamente cordiale, mi invitò a seguirlo. L’accento non lasciava dubbi sulle sue origini pugliesi.
Entrammo in una stanza piccola e buia, con una sola finestra. L’ambiente era piuttosto squallido. Sulle pareti erano appesi una stampa di un quadro di Monet, un crocefisso, un tricolore sbiadito e una foto del maresciallo che sorridente stringeva la mano a Rivera.
Mi fece accomodare su una sedia e fu a sedersi dall’altro lato della scrivania. Si accese una sigaretta, fece un paio di tiri, sospirò e scosse la testa.
“Signor Tommasi, lei è nei pasticci. Mercoledì sera, esattamente quattro giorni fa, lei ha cenato con l’ingegnere Camorati in un ristorante di Corso Venezia. Pare che l’ingegnere non sia più tornato a casa. La moglie ha denunciato la scomparsa del marito giovedì pomeriggio. Lei è l’ultima persona ad averlo visto vivo. Oddio, il cadavere non lo abbiamo ancora trovato, ma sospettiamo che l’ingegnere sia già passato a miglior vita. Negli ultimi mesi in città sono stati rapiti un antiquario e la figlia di un facoltoso imprenditore. Se però si trattasse di un sequestro, a quest’ora si sarebbero già fatti vivi per chiedere un riscatto. Non crede?”.
Non risposi alla domanda, anche se era ovvio che il maresciallo non attendeva una risposta. Camorati era un caro amico di Lomellini con il quale più volte mi era capitato di cenare insieme, alcune volte insieme a Marco, altre volte da soli. Ricordavo perfettamente la serata, mi aveva telefonato poco prima di cena chiedendomi di mangiare qualcosa insieme. Il tono della voce era agitato e, nonostante il giorno dopo dovessimo partire per le vacanze, avevo acconsentito e ci eravamo dati appuntamento dopo un’ora.
Non capivo. Pasticci? Sequestro? Cadavere? Dopo un attimo la situazione mi fu chiara, terribilmente e incredibilmente chiara. Mi stavano accusando di omicidio.
Cercai di restare calmo.
“Guardi, deve esserci un equivoco. Siamo usciti dal ristorante, gli ho offerto un passaggio, ma mi ha detto che era venuto in macchina”.
Dal sorriso ironico del maresciallo mi resi conto che non credeva alle mie parole.
“Sarebbe così gentile da riferirmi di cosa parlarono durante la cena?”.
“Niente in particolare. Mi ha parlato dei problemi che ha con il padre. È arteriosclerotico e peggiora in continuazione. Mi ha detto che anche con la moglie le cose non andavano granché bene, aveva il sospetto che avesse un amante. Mi ha detto che era a pezzi, nervoso e stressato. Senta, non voglio intromettermi nel suo lavoro, ma forse l’ingegnere ha deciso di prendersi una vacanza”.
“Una vacanza, eh? Così, all’improvviso. Senza avvisare nessuno, nemmeno la moglie. Questa stronzata, signor Tommasi, poteva risparmiarcela. Senta, non ho tempo da perdere, io. Già ci abbiamo messo quattro giorni per rintracciarla. Cerchi di rinfrescarsi la memoria, mi dica cosa è successo quando siete usciti dal ristorante e la smetta di prendermi per il culo!”.
Non era più calmo e aveva alzato il tono della voce.
“Glielo ripeto, maresciallo, non c’entro niente, non so nulla”.
“Vedremo...”.
Quel vedremo non preannunciava nulla di buono. Conoscevo bene i metodi delle forze dell’ordine. Li avevo sperimentati sulla mia pelle in carcere. Il maresciallo aveva fretta e non avrebbe perso tempo.
In quell’istante, come se li avesse chiamati, entrarono due carabinieri. Uno basso e tarchiato, l’altro invece sembrava il pilone della nazionale australiana di rugby. Un tempo li avrei sfidati fissandoli negli occhi. Ma non ero più quello di una volta, queste prove di forza ormai mi nauseavano. Distolsi lo sguardo, non volevo far vedere che avevo paura. Sì, avevo paura. Una dannata e fottutissima paura perché sapevo esattamente cosa mi aspettava. Avrei voluto essere altrove. Ero già pentito di essermi presentato spontaneamente in caserma. Per un attimo pensai di scappare. Mi resi conto immediatamente che sarebbe stata un’idiozia. Avrei dato loro il pretesto per darmi una lezione. Ma sapevo anche che non ne cercavano uno, non ne avevano bisogno.
Chiusi gli occhi e mi ritrovai a pregare un Dio che non sarebbe giunto in mio soccorso. Il primo colpo mi centrò sulla bocca. Non feci nulla per schivarlo. Ogni mia reazione avrebbe peggiorato la situazione. Non mi ricordo se provai prima un dolore atroce o sentii il suono dell’incisivo che non aveva retto al pugno ben assestato. Ci sapevano fare. Era chiaro che non era la prima volta che rinfrescavano la memoria a qualcuno. Al secondo colpo cedette il canino destro. Avrei voluto svenire, e invece no. Ogni tanto farebbe comodo. Svenire a comando. Quanti furono i colpi? Dieci? Venti? Il tempo spesso scorre alla velocità sbagliata. Quel giorno troppo lentamente e un paio di minuti mi sembrarono un’eternità. Mi parve di udire la voce del maresciallo che li invitava a smettere, che bastava così, per il momento. Sputai sangue e pezzi di denti, senza liberarmi però dal disgustoso sapore metallico che mi aveva invaso la bocca.
“Allora? Non ha nulla da dirci?”.
Non risposi. Avrei voluto urlargli che era un grandissimo figlio di puttana, ma per mia fortuna non riuscii a liberare le parole.
“Signor Tommasi, chissà se un po’ di prigione la aiuterà a ritrovare la memoria. Portatelo a San Vittore”.
Ascoltai in silenzio, pervaso da un miscuglio di rabbia e disperazione. Avrei voluto piangere, ma dagli occhi gonfi non uscirono lacrime. All’improvviso e inaspettatamente si aprivano nuovamente davanti a me le porte del carcere e si chiudevano quelle di un futuro tranquillo da libero cittadino. Il destino, dopo una lunga pausa di riflessione, aveva ripreso ad accanirsi contro di me. Il doloroso ricordo della galera esplose violento, cancellando in un istante tutto ciò che occupava in quel momento la mia mente. Sprofondai in una melma viscida e oscura, risucchiato dai fantasmi di un passato che, malgrado gli ultimi dieci anni di pace, non ero riuscito a dimenticare del tutto. Mi sentii improvvisamente triste e solo, come mai forse mi ero sentito. Mi vennero in mente nitide le parole di mio padre poco prima che venisse ucciso, piuttosto che farmi sbattere dentro mi faccio ammazzare. Provai a consolarmi, in fondo ero ancora vivo ed ero contento di esserlo. All’aldilà preferivo la prigione, per quanto dura sapessi che fosse. E poi ero innocente ed ero sicuro che presto avrei riacquistato la libertà.

continua
 
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