Il baco e la farfalla (capitolo 34 -prima parte)
Giugno 1984
L’inizio di giugno era il periodo migliore per godersi l’isola. Le orde selvagge di turisti non erano ancora sbarcate alla conquista delle spiagge. Una vegetazione rigogliosa ricopriva le colline e spennellate di verde intenso si riflettevano nelle pupille, ovunque si volgesse lo sguardo. Nei campi l’incessante frinire dei grilli annunciava l’arrivo dell’estate. Il mare azzurro chiazzato di blu resisteva ancora all’invasione, ormai prossima, del fitto esercito di natanti.
Girai la manopola e diedi gas, lasciando che il flusso d’aria mi scompigliasse i capelli salati, asciugandoli, e mi facesse lacrimare gli occhi. Spirava maestrale e stavo tornando dalla parte orientale dell’isola dove ero stato alla ricerca di una baia riparata dal vento. Una macchia scura apparve in lontananza sul bordo della carreggiata e, via via che mi avvicinavo, assunse prima i contorni di una figura umana, poi, quando distavo qualche decina di metri appena, quelli di una ragazza seduta a cavalcioni su uno zaino. Stavo per superarla quando alzò un braccio. Schiacciai il freno e fermai la vespa .
“Hai bisogno di qualcosa?” urlai.
“Me lo dai un passaggio fino in paese?”.
Si era messa in piedi, ma non si era allontanata dallo zaino. Con i piedi spinsi la vespa all’indietro. Una maglietta di Jim Morrison le fasciava il corpo sottile, lasciando scoperte due braccia pallide e magre, come il viso. I capelli scarmigliati, castani con sfumature rossicce, non vedevano una spazzola da giorni. Da una gonna variopinta che le scendeva fino alle caviglie spuntavano due sandali marroni di cuoio. Dimostrava quindici o sedici anni. Che cosa ci facesse a sei chilometri da Portoferraio, sola in mezzo alla strada sotto il sole, era un mistero.
“Vieni, monta su”.
In un attimo si mise lo zaino sulle spalle e me la ritrovai seduta dietro.
“Figo”.
“Figo cosa?”.
“Che mi dai un passaggio”.
Ispirava simpatia. Misi in moto.
“Tieniti forte”.
Si avvinghiò a me con entrambe le braccia. Superammo un vecchio in groppa a un asino che trainava un carro pieno di frutta.
“Sei sola?”.
“Cosa hai detto?”.
Il rombo del motore copriva le nostre voci. Girai la testa di novanta gradi.
“Ho chiesto se sei sola” gridai.
“Sì”.
“Sei in vacanza?”.
“Più o meno”.
“Cosa vuol dire più o meno”.
“In un certo senso”.
“In un certo senso cosa?”.
“No, più o meno vuole dire in un certo senso”.
“Ah! E perché sei in vacanza in un certo senso?”.
“Perché non ci sono veramente. Mi andava di fare un viaggio, da sola. Avevo bisogno di capire certe cose. Sono in viaggio, non in vacanza”.
“E che cosa vorresti capire?”.
“Ehi, ma guarda che sei forte tu! Ti ho chiesto un passaggio e mi fai un interrogatorio!”.
“Scusa”.
Continuai a guidare in silenzio. In fondo aveva ragione, non era tenuta a rispondere alle mie domande, ma la curiosità di sapere cosa ci facesse quella ragazzina da sola in giro per l’isola era grande. Arrivammo a Portoferraio. Accostai la vespa di fianco al marciapiede.
“Dove vuoi che ti porti?”.
“Qui va benissimo, grazie”.
Non potevo lasciarla andare via così.
“Senti, se ti va potrei offrirti qualcosa da bere o da mangiare”.
Le si illuminarono gli occhi.
“Figo”.
Ci sedemmo a un tavolo fuori da un bar. Per me ordinai una birra, la ragazza prese un Chinotto. Per mangiare ci trovammo d’accordo per un po’ di pizza.
“Vivi qui?” biascicò con un boccone ancora in bocca.
“Sì. E tu di dove sei?”.
“Vigevano. Sai dov’è?”.
“Sì, certo. Vicino a Milano”.
“Bravo. E cosa fai come lavoro?”.
“Produco vino”.
“Figo”.
Aveva letteralmente divorato il suo pezzo di pizza. Mi guardava con aria soddisfatta con il contorno della bocca sporco di pomodoro.
“Avevi fame, eh?”.
Fece cenno di sì con la testa. Quando si avvicinò chiesi al cameriere di portarcene un altro pezzo. La ragazza mi guardò sorridente.
“Non ci siamo nemmeno presentati. Io sono Guido”.
“E io Eleonora, ma tutti mi chiamano Leo”. Poi aggiunse: “Sembri a posto”.
“Scusa?”.
“Sì, sei simpatico”.
“Ti ringrazio”.
Mi fissò un istante, titubante.
“Senti, ti interessa ancora sapere che cosa è che vorrei capire?”.
“Sì, se ti va di dirmelo”.
Si mordicchiò l’unghia del pollice.
“Però mi prometti che non mi prenderai in giro”.
“Promesso”.
“Beh... ecco... vorrei capire se esiste la libertà assoluta. Oppure se la libertà ha dei limiti. E se ce li ha, mi piacerebbe raggiungerli, esplorarli. Mi piacerebbe poter camminare sul confine della mia libertà”.
“Sembra interessante...” commentai in attesa che proseguisse.
“Non ti sei mai chiesto quante cose potresti fare che invece non fai perché non ti senti libero? Oggi ho fatto il bagno nuda. Mi sono concessa al mare senza barriere artificiali. È stata una sensazione meravigliosa. E allora mi sono domandata perché la gente non fa il bagno nuda. E la risposta è stata perché non è libera”.
Quella giovane era in ritardo di una decina d’anni, si sarebbe trovata molto più a suo agio all’inizio degli anni ’70.
“Però non sarebbe giusto imporre a tutti di fare il bagno nudi” obiettai. “Chi volesse coprirsi non sarebbe più libero”.
“Hai centrato il problema. Significa che la mia libertà finisce esattamente dove inizia quella degli altri”.
Si dissetò, poi proseguì infervorata:
“Ma non è solo questo. Perché ci vestiamo tutti allo stesso modo e ascoltiamo tutti le stesse canzoni? Perché deve per forza esserci un genere di musica che ti piace? Perché la musica, tutta la musica, non può farti schifo e basta?”.
“Ma a te piacciono i Doors?” le feci notare.
“Ecco, vedi, il punto è proprio questo. Se ho addosso una maglietta di Jim Morrison allora significa che mi piacciono i Doors. Non può essere che mi piace il disegno sulla maglietta e basta? No, nell’immaginario collettivo non può essere così. La comunicazione non avviene solamente attraverso le parole. Il linguaggio è formato anche dai gesti, dagli oggetti, dai colori. Ma questo impone dei vincoli e limita la nostra libertà. È chiaro, no?”.
“Più o meno”.
Fece un pausa e addentò il secondo pezzo di pizza. Riprese non appena lo ebbe ingoiato.
“Ti faccio un altro esempio. Io non sono libera di indossare una maglietta a strisce verticali nere e azzurre solamente perché mi piacciono quei due colori. Tutti penserebbero che sono una patita di calcio e tifosa dell’Inter, mentre a me del calcio non me ne importa niente. Se non voglio mandare un messaggio sbagliato, non sono più libera”.
Decisi di continuare a stare al gioco e di ricoprire il ruolo di chi deve trovare i punti deboli nella teoria che mi stava esponendo.
“Potresti fregartene di quello che pensa la gente, torneresti ad essere libera”.
Sorrise.
“Ma possiamo veramente fregarcene di quello che pensano gli altri? Temo di no. Le persone ti giudicano a seconda dei messaggi che mandi. Se comunichi un messaggio sbagliato potrebbero non darti un lavoro, oppure potrebbe essere più difficile trovare un compagno o anche semplicemente un amico”.
“Su questo hai ragione” concordai. “Ma dimmi, com’è che sei venuta proprio qui, in quest’isola, a scoprire i confini della tua libertà?”.
“È stato per caso. Quando sono venuta via da casa non avevo definito una meta. Volevo iniziare a sentirmi libera proprio a partire da quello, dal luogo in cui sarei andata. Prima sono andata a Milano, poi ho preso un treno per Genova. Lì ho conosciuto dei ragazzi di Grosseto, ho fatto un pezzo di viaggio insieme a loro. Ci siamo separati a Follonica. Non ero mai stata all’Elba e ho pensato che potesse essere curioso ricercare i propri limiti in un’isola, un posto che in fondo ha dei confini naturali ben definiti, essendo limitato dal mare”.
“Quant’è che sei in viaggio?” domandai incuriosito.
“Una decina di giorni, più o meno. Non sto tenendo il conto, non voglio che sia il tempo che scorre a limitare la mia libertà. Non so quando tornerò indietro. Non so nemmeno se tornerò indietro. Dormo in giro, mangio poco. Per il momento ho ancora un po’ di soldi. Quando finiranno vedrò cosa fare, magari trovo un lavoretto”.
Pensai che Leo fosse un po’ pazza.
“Ma non ce l’hai una famiglia? Cosa ne pensano di questo tuo girovagare senza meta? Non sono preoccupati?”.
“Sì, sì, ce l’ho una famiglia, ma non sanno che sono qui”.
Sobbalzai sulla sedia.
“Come non sanno che sei qui!”.
“No, non lo sanno” ribadì calma. “Prima di uscire ho lasciato un biglietto sul tavolo con scritto di non aspettarmi, che non sapevo quando sarei tornata”.
“Ma non puoi, saranno in pena per te” mi scaldai.
Sollevò le spalle. Non saprei dire bene perché, ma quell’atteggiamento di sufficienza mi infastidì terribilmente. Feci uno sforzo per rimanere calmo.
“Dovresti avvisarli, non puoi comportarti così”.
“Perché?” mi domandò, lanciandomi un’occhiata di sfida.
“Perché non è giusto”.
“È la mia vita, non la tua” replicò seccata.
La fissai serio.
“No Leo, non è solo la tua vita. È anche la loro vita, quella della tua famiglia. Lo hai detto tu stessa, la tua libertà finisce dove inizia quella degli altri. Non puoi calpestare il loro diritto di sapere dove sei, cosa fai, se stai bene. Non puoi limitare la loro libertà di stare bene, di essere tranquilli. Non ne hai diritto”.
Feci una pausa. Leo non disse nulla, ma aveva abbassato lo sguardo. Capii che avevo toccato il tasto giusto. Stava riflettendo su ciò che le avevo appena detto. Dovevo insistere.
“Se la ricerca dei limiti della tua libertà cozza contro i confini della libertà altrui, se oltrepassi i confini e invadi la libertà degli altri, allora la tua ricerca non ha più senso. Crolla tutto, lo capisci?”
Mi guardò senza fiatare.
“Non ti sto dicendo di rinunciare, solo di avvisare la tua famiglia, far sapere loro che stai bene”.
“Ma se chiamo mia madre, quella mi dice di tornare e quando torno mi ammazza”.
“Forse no, se le chiedi prima di tutto scusa e poi provi a spiegarle ciò che ti ha spinto a intraprendere questo viaggio, questa scoperta di te stessa e dei tuoi spazi all’interno del mondo in cui vivi”.
Leo si passò una mano tra i capelli arruffati, pensierosa. Rimase così, assente, qualche secondo, poi accennò un sorriso e due fossette fugaci apparvero sulle sue guance scarne.
“OK, mi hai convinto. Telefonerò a mia madre”.
“Sono sicuro che capirà” azzardai. In fondo era una sconosciuta e non potevo immaginare come avrebbe reagito, ma volevo incoraggiare Leo e farle capire che approvavo la sua decisione.
“Speriamo. Sai cosa ti dico? La chiamo subito, così mi tolgo il pensiero. Ce l’hai qualche gettone?”.
Aprii il mio portamonete.
“Sei fortunata, ne ho tre”.
Prese i gettoni e sparì dentro al bar.
Trascorsero alcuni minuti senza che Leo facesse ritorno. La storia di quella ragazza mi aveva coinvolto e ora attendevo che tornasse tamburellando nervosamente le dita sul tavolo. Erano già trascorsi almeno dieci minuti e di Leo nemmeno l’ombra. Accesi una sigaretta e iniziai a fissare l’ingresso del bar, sempre più teso. Finalmente la vidi uscire e ritornare verso il tavolo. Aveva il volto inespressivo.
“Beh, allora? Come è andata? Ci hai messo un sacco”.
“Ma no, c’era uno prima di me che non finiva più di parlare con la moglie. È andata così così. Era contenta di sentirmi. Poi però si è incazzata e ha iniziato a urlare. Venerdì scorso ha denunciato la mia scomparsa alla polizia. Non sono riuscita a spiegarle molto. Mi ha detto di restare qui e di non muovermi. Viene a prendermi, parte domattina”.
“Vedrai che durante il viaggio sbollirà la rabbia e quando arriverà qui le sarà rimasta solamente la gioia di rivederti”.
“Parli così perché non la conosci”. L’inflessione della voce era quella di un condannato a morte rassegnato al suo destino. Non potevo credere che sua madre fosse davvero così tremenda come Leo la dipingeva.
“Se vuoi posso offrirti un letto per stanotte. Oggi pomeriggio ho da fare alcune cose e dovrai fare a meno di me per ammazzare il tempo, ma stasera possiamo cenare insieme, se ti va”.
Gli occhi di Leo tornarono vivi. Le pupille, rimpicciolite dal sole, sembravano due schegge d’onice incastonate in due grandi topazi celesti.
“Te ne sarei grata. È da quando sono partita che non dormo su un materasso”.
“Ti vengo a riprendere qui alle sette, va bene?”.
“Ci sarò”.
Pagai il conto, montai sulla vespa e partii. Nello specchietto, Leo si fece sempre più piccola fino a scomparire.
Durante la cena Leo mi raccontò della sua vita. Viveva insieme alla madre, a un fratello e due sorelle. Lei era la maggiore. Il padre era morto quando aveva sei anni. La scuola l’annoiava, sosteneva che non le insegnavano ciò che avrebbe potuto interessarla davvero, tipo psicologia, pittura e scultura, danze e filosofie orientali. Coltivava i tipici sogni di una ragazza della sua età, oltre alla libertà assoluta era alla ricerca dell’amore perfetto. Lottava strenuamente per emanciparsi e uscire dall’adolescenza, inseguiva un’indipendenza non ancora possibile che costituiva più un mito che un bisogno reale. Amava la vita e non si era ancora scontrata con l’individualismo, il materialismo e gli altri orrori della società nella quale suo malgrado sarebbe stata costretta a vivere.
Mi chiese di me. Come al solito ero restio a parlare del mio passato e le narrai la mia storia infarcendola di lacune, omettendo quasi interamente le vicende più dolorose.
Le preparai un letto in una stanzetta che utilizzavo come ripostiglio per cose vecchie e inutili che mi rifiutavo ostinatamente di buttare via.
“Posso chiederti un favore?” mi domandò Leo prima di chiudere la porta.
“Dimmi”.
“Domani mia madre arriverà con l’ultimo traghetto del pomeriggio. Non è che verresti con me al porto ad aspettarla?”.
Quella ragazzina che era scappata di casa alla ricerca della libertà assoluta mi appariva ora in tutta la sua fragilità. Mi fece tenerezza. Le sorrisi.
“Certo, non c’è problema. Fai dei bei sogni Leo”.
Ricambiò il sorriso.
“Grazie, anche tu”.
continua