Repetto, Diego - IL BACO E LA FARFALLA - Un'incredibile storia vera

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 31 - seconda parte)

Lomellini mi mise a disposizione l’avvocato Saponaro, il migliore sulla piazza. Al magistrato incaricato delle indagini ripetei ciò che avevo già detto al maresciallo che mi aveva arrestato, che ero estraneo ai fatti e non avevo idea di cosa fosse successo all’ingegnere Camorati dopo che ci eravamo salutati all’uscita del ristorante. Passarono i giorni e l’avvocato mi informò che non c’erano nuovi sviluppi nelle indagini. La moglie di Camorati non aveva ricevuto notizie del marito, non erano giunte richieste di riscatto e il corpo non era stato trovato. Aveva inoltrato una richiesta di scarcerazione, ma il giudice l’aveva rifiutata a causa dei miei precedenti penali. Anche la denuncia per le percosse subite durante l’interrogatorio non aveva avuto alcun seguito. La parola di un maresciallo dei carabinieri valeva molto di più di quella di un sospettato di omicidio. I denti, probabilmente, me li ero rotti da solo cadendo.
“Purtroppo” mi disse Saponaro contrito “non c’è molto altro che possa fare, per ora”.
L’avvicinarsi del mese di agosto non giocava a nostro favore, le indagini avrebbero subito un rallentamento in seguito alla riduzione dell’organico in servizio. Le ferie erano sacre e poco importava se c’era un innocente a marcire in galera.
Dietro alle sbarre ritrovai la stessa vergognosa situazione che avevo vissuto nel carcere di Viterbo. Sovraffollamento, condizioni igieniche disastrose, vitto scarso e di pessima qualità.
Verso metà agosto il magistrato incaricato venne sostituito. Il nuovo, non appena nominato, si presentò per un colloquio. Chiesi che fosse presente anche il mio avvocato.
Quando mi ebbe di fronte emise un sonoro sospiro.
“Lei mi ha rovinato il Ferragosto, signor....”.
“Lei è un imbecille” lo aggredii. “Lei mi sta rovinando la vita. Sono tre settimane che sono rinchiuso qui dentro e non sa nemmeno il mio nome!”.
L’avvocato Saponaro fece di tutto per calmarmi.
“Mi hanno informato solamente ieri che mi sarei dovuto occupare del suo caso” provò a giustificarsi il magistrato, colto di sorpresa dalla mia reazione “e come vede non ho perso tempo. Il mio personale interesse, che credo coincida con il suo, è che questa faccenda si risolva il prima possibile. Per questo le chiedo la sua collaborazione, ogni dettaglio può risultare fondamentale per le indagini”.
Avevo i nervi a fior di pelle. La tensione accumulata nelle ultime settimane mi stava soffocando.
“Non ho niente da dire che non sia già stato detto. Si legga il fascicolo, contiene tutte le informazioni che vuole sapere. Se siete degli incapaci non è colpa mia”.
Il magistrato richiuse la cartellina e si rivolse al mio avvocato:
“Se il suo cliente vorrà aggiungere qualcosa, sa dove trovarmi. La terrò informata su eventuali novità. Arrivederci”.
L’avvocato Saponaro mi lanciò un’occhiata di rimprovero.
“Dovrebbe essere più paziente e mostrarsi più collaborativo. In questo modo non fa altro che rendere più difficile il mio compito”.
“Ha parlato con Sara?”.
“Sì, mi ha detto che appena avrà tempo verrà a trovarla”.
“Avvocato, non ce la faccio più. Mi tiri fuori di qui” lo supplicai.
“Sto facendo il possibile, mi creda, sto facendo il possibile”.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 32 - prima parte)

Ottobre 1975

Erano trascorsi sessantacinque giorni. Per motivi a me ignoti e che nemmeno l’avvocato Saponaro riusciva a spiegare il magistrato incaricato delle indagini era stato sostituito altre due volte. Sara non si era fatta viva, non era venuta a trovarmi e non aveva lasciato a Saponaro nulla di scritto da darmi. Ignoravo come stessero lei e i bambini.
All’inizio di settembre era invece apparsa Giovanna. Aveva ricevuto la mia lettera e appena possibile si era messa su un treno per Milano. Non la vedevo da sette anni. Mi aveva raccontato che si era sposata con un camogliese nel ’71, nonostante Costanza avesse insistito affinché terminasse l’università prima di sposarsi. Il matrimonio l’aveva distratta dagli studi per un breve periodo, ma alcuni anni dopo aveva conseguito finalmente la laurea in ingegneria chimica. Aveva rinunciato a un lavoro da ingegnere perché era rimasta incinta e a fine maggio era nato il suo primogenito. Aveva appena tre mesi e mezzo e per venire a trovarmi lo aveva lasciato per la prima volta con la baby-sitter, una tedesca che aveva sposato un suo caro amico di Camogli. Anche Costanza e Giacomo si erano sposati, alcuni mesi prima di Giovanna, coronando il sogno di una vita, quello di potersi finalmente amare alla luce del sole dopo venticinque anni di passione clandestina.

“Svegliati, il magistrato vuole vederti” brontolò la guardia sbattendo il manganello sulle sbarre della cella.
Mi avviai all’incontro pensieroso. Non era mai capitato che un colloquio avvenisse di prima mattina. Entrai nella stanza e notai con disappunto che il mio avvocato non era presente. Il magistrato mi sorrise con aria soddisfatta.
“Oggi lei torna ad essere un uomo libero”.
Stavo sognando?
“Ieri sera abbiamo ritrovato l’ingegnere Camorati. Vivo, s’intende. Aveva ragione lei, sa, si era preso una vacanza. Così, all’improvviso. Desiderio di evasione, fuga dalla quotidianità che lo stava consumando poco a poco. Queste sono state le sue prime dichiarazioni per giustificare la sua scomparsa senza avvisare nessuno. Nemmeno la moglie, si rende conto? Dopo aver cenato con lei, invece di tornare a casa ha raggiunto Santa Margherita Ligure, dove era attraccato il suo piccolo yacht. Ha trascorso la notte a bordo e il giorno dopo, all’alba, è salpato da solo, senza una meta, senza sapere quando sarebbe tornato. Ha navigato per oltre due mesi, fermandosi di tanto in tanto in qualche porto per acquistare qualche provvista, senza però parlare con nessuno o comprare un giornale per restare in contatto col mondo. Aveva bisogno di staccare la spina. Non era a conoscenza del suo arresto. Era letteralmente sconvolto quando glielo abbiamo comunicato. Se lo avesse saputo, ha detto, si sarebbe fatto vivo immediatamente”.
Chi mi avrebbe restituito i sessantacinque giorni trascorsi in prigione? Infilai la lingua tra i pochi denti che mi erano rimasti, solleticandomi le gengive. Chi mi avrebbe restituito un sorriso di cui non vergognarsi? Pensai al volto rasato e profumato di Camorati, al suo modo di vestire impeccabile, alla sua collezione infinita di cravatte che gli permetteva sempre un accostamento cromatico perfetto con la camicia che aveva indosso. Pensai al suo cronico sorriso, alla sua erre moscia, al suo incedere caracollante che lo faceva costantemente sembrare in equilibrio precario. Pensai ai problemi di cui mi aveva parlato e alla pena che avevo provato per lui quella sera ormai lontana di fine luglio. Ora la pena era scomparsa. Ora me ne strafottevo dei suoi maledettissimi problemi. Mi sentii scosso da un odio violento, cieco, verso Camorati, ma non solo. Sentii che odiavo anche Sara per non essere venuta a trovarmi nemmeno una volta, per essere sparita anche lei nel nulla. Odiavo infine la galera, diabolico marchingegno concepito per umiliare prima e smantellare poi, pezzo dopo pezzo, la dignità umana dei detenuti.
“Non posso scarcerarla oggi. È sabato e l’ufficio è chiuso. Dovrà aspettare lunedì, mi dispiace”.
“Non importa. Con la bella notizia che mi ha portato non la denuncerò certo per sequestro di persona”.
Il lunedì alle otto del mattino il magistrato venne a prendermi di persona insieme alla sua scorta e mi accompagnò a casa.
Sara non era in casa, a quell’ora era ancora al lavoro, e i bambini erano all’asilo. Le chiavi dell’appartamento erano fortunatamente tra gli oggetti che mi erano stati restituiti all’uscita del carcere. Entrai in ogni stanza con aria circospetta, sentendomi come un ladro in casa mia. Nulla era cambiato. Presi una sedia in cucina, la trascinai in camera, vi montai sopra e tirai giù due grosse valige che giacevano dimenticate sopra l’armadio. Le spalancai sul letto e iniziai a riempirle con i miei vestiti, senza badare a sistemarli con cura, gettandoli con rabbia uno sull’altro. L’interno delle valigie rifletté ben presto la confusione che avevo in testa. Andai poi in sala, prelevai alcuni libri dalla libreria e una cornice d’argento con una foto di Paola e Luca. Sapevo che Sara avrebbe fatto il possibile per non farmeli più rivedere. Aprii un cassetto dove eravamo soliti custodire un po’ di soldi. Era vuoto. Richiusi le valige, mi guardai intorno un’ultima volta e uscii di casa, sbattendo la porta. Trascinai con fatica le valigie giù dalle scale e mi ritrovai in mezzo alla strada, indeciso su dove andare. Non potevo chiedere ospitalità a Lomellini, ogni volta che gli avevo manifestato la possibilità di lasciare Sara si era detto contrario e aveva insistito affinché provassimo a superare i nostri problemi. Pensai che per il momento avrei chiesto ospitalità a un amico. Poi, non appena avessi trovato un lavoro, mi sarei trasferito in affitto da qualche parte.

Il presunto omicidio dell’ingegnere Camorati era finito su tutti i quotidiani. L’avvocato Saponaro aveva ritagliato gli articoli che parlavano del caso e me li aveva portati in carcere. Uno in particolare, uscito sulle pagine del Corriere della Sera, mi aveva fatto infuriare. Tale Mauro Biffa, giovane cronista rampante, mi aveva descritto come un pericoloso criminale, uno di quelli che mettono a repentaglio la sicurezza dei cittadini e che dovrebbero stare in prigione per far sì che i cittadini onesti possano vivere tranquilli. Nella sua accorata analisi si dilungava inoltre sull’assoluta mancanza di valori che caratterizzava la mia persona, su quanto mi fossi dimostrato infido nel sopprimere la vita di una persona con la quale avevo appena condiviso il piacere di una deliziosa cena. Due colonne sul più importante quotidiano italiano che contenevano una raffica mortale di giudizi, sparata con l’arroganza di chi non teme di essere smentito, un vero e proprio linciaggio pubblico senza diritto di replica del diretto interessato. Era giunto il momento di conoscere di persona l’autore dell’articolo.
All’ingresso della redazione del Corriere domandai dove potevo trovare il signor Biffa. La signorina controllò con una chiamata interna e con un sorriso mi informò che il giornalista si trovava nel suo ufficio, al quinto piano, nel corridoio di sinistra appena uscito dall’ascensore. Avrei trovato il nome sulla targhetta di fianco alla porta. Quando mi aveva chiesto il nome per annunciarmi gliene avevo dato uno falso, il primo che mi era venuto in mente. Bussai e una voce leggermente nasale dal forte accento milanese mi invitò ad entrare.
La stanza era luminosa, l’arredamento sobrio. Sulla scrivania, tra una miriade di fogli e ritagli di giornale, emergeva una vecchia Olivetti. Un tizio piuttosto giovane con una calvizie precoce e un paio di occhiali dalla montatura quadrata mi venne incontro porgendomi la mano. A stento superava il metro e sessanta.
“Mauro Biffa”.
“Michele Santacroce”.
“In che cosa posso esserle utile?”.
Non mi aveva riconosciuto. Quello stronzo non aveva fatto nessuno sforzo per fissare nella sua memoria la fotografia di scarsa qualità che mi ritraeva e che era apparsa sui giornali.
“Ho avuto modo di leggere un suo articolo sul caso Camorati in cui sparava a zero sull’uomo accusato dell’omicidio”.
“Ah sì, ricordo, quel tale di nome Tommasi”.
Il tono era quello di chi accennava a qualcosa di poca importanza, appartenente al passato e di nessun interesse per il presente. Mi trattenni dal chiudere la questione dando sfogo alla violenza che mi ispirava quell’uomo.
“Immagino che sarà al corrente della sua scarcerazione. Le accuse si sono rivelate infondate, quel povero cristo era innocente e si è fatto ingiustamente due mesi di galera”.
Biffa mi fissò sorpreso.
“Scusi, ma lei chi è?”.
“Sono un amico del Tommasi”.
S’irrigidì all’improvviso e s’inumidì le labbra.
“E cosa posso fare per lei?” domandò con una sfumatura di insicurezza nella voce.
Non avevo ancora intenzione di svelargli la mia identità.
“Dall’articolo che ha scritto pare che lei lo conosca molto bene. Ne ha fatto una descrizione accuratissima, dipingendolo come un pericoloso criminale. Posso farle una domanda?”.
“Mi dica”.
“Lei lo ha mai visto di persona? Lo conosce?”.
“Veramente no” rispose imbarazzato.
“Quindi lei si diletta a massacrare una persona di fronte all’opinione pubblica senza mai averla vista in faccia”.
“Senta...”.
“No, mi ascolti lei. Quando il caso si è risolto il suo giornale ne ha dato notizia, ma sono apparse appena due righe che dicevano che il sospettato era stato liberato. Due righe, non una parola di più. E non le ha nemmeno scritte lei, le ha scritte un suo collega. A lei non è nemmeno saltato per la testa di scrivere un articolo di scuse per riabilitare il Tommasi di fronte all’opinione pubblica. Tanto a lei non gliene frega niente se alla gente sono rimasti impressi i giudizi che aveva espresso su di ME dopo il MIO arresto!”.
In un crescendo, gli avevo vomitato addosso tutta la mia ira e rivelato la mia vera identità. Biffa lanciò un’occhiata alla porta chiusa dell’ufficio. Il volto si fece pallido e crollò sulla sedia.
“Sono... sono desolato” balbettò spaventato. “Cerchi di capire, in agosto Milano si svuota. Noi siamo costretti a riempire le pagine di cronaca e per tutto il mese è accaduto poco o niente”.
“E ha ben pensato di riempirle sputtanandomi senza conoscermi con un sacco di balle”.
“Mi dispiace...”.
“Dispiace anche a me” replicai dopo aver recuperato un po’ di calma. “Ora lei, se vuole continuare in futuro a riconoscersi allo specchio, si mette lì e scrive un bell’articolo di scuse in cui ammette di essersi sbagliato sul mio conto e di aver scritto una marea di stronzate. Lo voglio almeno della stessa lunghezza dell’altro articolo“.
L’idea me l’aveva data l’avvocato Saponaro mettendomi a conoscenza di un articolo del codice civile secondo cui la diffamazione poteva essere risarcita attraverso una riabilitazione a mezzo stampa. Il processo di risarcimento, mi aveva spiegato, risultava in questo modo più rapido rispetto a un’azione legale nei confronti dei responsabili della diffamazione e possedeva inoltre il vantaggio di un impatto immediato nei confronti dell’opinione pubblica. I tempi per un processo per diffamazione erano lunghi e un’eventuale condanna, a distanza di mesi dall’episodio incriminato, sarebbe passata inosservata ai più.
“D’accordo, non c’è problema. Guardi, mi ci metto subito” si affrettò a dire il giornalista inserendo un foglio bianco nella macchina da scrivere, evidentemente sollevato per poter uscire da quell’imbarazzante situazione non facendo altro che il suo mestiere.
“Mi aspetto che esca domani stesso. Altrimenti saremo costretti a rivederci” lo minacciai prima di lasciare la stanza.
Il giorno dopo comprai il giornale e l’articolo di Mauro Biffa era riportato in terza pagina. Per quanto riguardava Il Corriere della Sera mi ritenni soddisfatto.
Nei giorni seguenti contattai le redazioni di altri quotidiani che avevano trattato il caso Camorati, danneggiando la mia immagine. Articoli che mi risarcivano del torto subito apparvero nell’arco di una settimana su quasi tutti i giornali.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 32 - seconda parte)

Lomellini, pur non comprendendo la mia scelta di lasciare Sara, si preoccupò come al solito per la situazione in cui mi trovavo e mi disse che era disponibile ad aiutarmi. Gli confessai che ero stufo di vivere a Milano e che mi sarebbe piaciuto provare a mettermi in proprio. Non avevo ancora bene idea di cosa fare, ma sapevo almeno dove sarei voluto andare. Quando avevo fatto il bagnino a Viareggio, alcuni turisti mi avevano parlato dell’Isola d’Elba, descrivendola come un posto meraviglioso, con un mare molto più azzurro e cristallino di quello della Versilia. Mi mancava però il capitale. A mia insaputa, Marco trasferì sul mio conto in banca cinquanta milioni di lire, una cifra enorme per quegli anni. Quei soldi mi erano senza dubbio utili, ma non avevo certo bisogno dell’intera somma per avviare i miei progetti, mi bastava molto meno. Presi quarantacinque milioni e andai ad Arese. In quell’istituto, che si occupava dell’assistenza a ragazzi adolescenti, c’erano persone, per lo più volontari, che avrebbero speso quel denaro per fini sociali molto più importanti. Lo spiegai al direttore, incredulo di fronte alla mia volontà di donare all’istituto gran parte dei soldi che Marco mi aveva regalato. Non poteva accettare, non prima di essersi consultato con Lomellini. Prese il telefono e compose il numero. Marco, solamente in parte stupito dal mio gesto, gli disse che quei soldi non erano più suoi, erano miei e ne potevo disporre come volevo. Al direttore non restò altro che ringraziarmi e prendersi la valigetta.

Prima di partire chiamai Sara e le dissi che volevo vedere i bambini. Solamente di fronte alla mia insistenza e alla promessa che non glielo avrei più chiesto accettò di incontrarmi un pomeriggio in un parco del centro. Desideravo trascorrere in pace con i miei figli quell’ora che mi era stata concessa, decisi quindi di non parlare con Sara di noi due. Giocai con Luca e Paola, prima a rincorrerci, poi con una palla che avevo comprato per loro prima di andare all’appuntamento. Sara non disse nulla per tutto il tempo che trascorremmo insieme. Quando stavamo per separarci mi domandò:
“Cosa pensi di fare ora?”.
“Non lo so. Andrò in Toscana, là mi inventerò qualcosa”.
Nei suoi occhi freddi non vidi compassione.
“Mi lasci con un affitto da pagare e due figli da sfamare, spero che te ne renda conto”.
“Non preoccuparti, ti farò avere ogni mese dei soldi. Saranno più che sufficienti per prenderti cura dei bambini”.
Non aggiunse altro. Richiamò i suoi figli, i nostri figli, e si allontanò tenendoli per mano. Luca e Paola si voltarono un paio di volte. Avevano sette e cinque anni. Alzai la mano per salutarli, con un groppo in gola. Poi le lacrime mi velarono gli occhi, la vista mi si offuscò e le loro esili figure si dissolsero con il resto della città in un’unica, grande macchia grigia.

Sbarcai a Portoferraio in una tiepida giornata di fine ottobre. La stagione turistica era ormai finita e l’isola mi accolse spoglia e solitaria in tutta la sua genuina bellezza.
Comprai un appezzamento di terra coltivato a vite e con il sostegno di un contadino indigeno iniziai a lavorare come agricoltore. Gli ettari a nostra disposizione non erano molti e non permisero una produzione massiccia, ma la qualità del prodotto era buona e l’attività si rivelò quindi particolarmente redditizia. L’investimento iniziale era stato notevole. Oltre all’acquisto della terra, avevo dovuto comprare i tini e le damigiane, alcuni attrezzi e un piccolo trattore, ma gli introiti provenienti dalla vendita del vino nell’ottobre successivo ammortizzarono i soldi spesi e si rivelarono più che sufficienti per condurre una vita sobria ma dignitosa e contribuire al mantenimento a distanza dei miei figli. A trentasette anni, dopo più di dieci trascorsi a guidare automobili, furgoni e camion, avevo finalmente riscoperto il piacere della campagna, in parte già assaporato durante il periodo in cui ero stato custode della villa di Lomellini a Piacenza. Qui comunque era diverso e il contatto con la terra e la natura era ancora più diretto e intenso. Con il denaro ricavato dal primo raccolto acquistai una vespa di seconda mano e iniziai a muovermi per l’isola. Ne scoprii così i luoghi più selvaggi, le baie più nascoste e le spiagge meno frequentate, godendo di odori fino ad allora sconosciuti, silenzi totali e panorami mozzafiato.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 33)

Marzo 1978

Ancora oggi non so spiegarmi come mai decisi di andare. Deve essere per quel legame che unisce nell’inconscio un figlio a una madre e che nessuna vicenda, anche la più dolorosa, può arrivare mai a spezzare del tutto. Giovanna era riuscita a rintracciarmi tramite Lomellini e mi aveva detto che Costanza stava morendo. Lì per lì la notizia mi aveva lasciato indifferente, in fondo negli ultimi vent’anni avevo trascorso insieme a mia madre solamente qualche ora e da quell’unico incontro erano ormai trascorsi più di due lustri. In quell’occasione avevo anche giurato a me stesso che non l’avrei mai più rivista. Avevo capito che mi aveva fatto soffrire a sufficienza e non le avrei permesso di rovinarmi oltre la vita. Per me Costanza era un capitolo chiuso, almeno così credevo. Le erano rimaste poche settimane da vivere, forse meno. Era malata da tempo e in fondo era meglio così, avrebbe smesso di soffrire. Così aveva detto Giovanna al telefono, con voce triste, ma non disperata.
Quante sentenze di colpevolezza avevo emesso nel corso della mia vita nei confronti di mia madre! Alcune prima ancora di conoscerla, altre dopo averla ritrovata. Tutte sentenze definitive, senza appello. A nulla erano valse le sue spiegazioni, le sue giustificazioni, le sue scuse. Alcune mi avevano fatto traballare, altre avevano dato luogo a ripensamenti, ma si era sempre trattato di una condizione temporanea, alla fine non mi ero fatto impietosire e mi ero dimostrato inflessibile. La decisione che avevo preso alla conclusione del processo personale a cui l’avevo sottoposta era stata univoca. Era colpevole di abbandono del proprio figlio, colpevole di non averlo in seguito cercato, colpevole di mancanza d’affetto materno, colpevole di reiterato tradimento del proprio compagno, colpevole di occultamento di lettere indirizzate ad altri. Senza alcun rimorso l’avevo condannata alla peggiore delle pene, l’assenza perpetua. Ora, con la condannata in punto di morte, inerme, incapace di difendersi, ora che la sentenza poteva essere consegnata alla Storia, ecco che proprio ora sopraggiungeva il dubbio. Si intrufolava nella mente, esile ma inarrestabile, come un rivolo d’acqua sottile che filtra attraverso una roccia all’apparenza impenetrabile. E se avesse avuto ragione lei? Magari non sempre, magari solo in alcuni casi. Se davvero non avesse abbandonato il figlio ma le fosse stato sottratto? Se il tradimento fosse stato giustificato a sua volta da un altro tradimento? Forse la pena era stata troppo severa, forse dieci anni erano stati sufficienti e la pena poteva essere sospesa. O era forse la pietà a spingermi verso il letto di mia madre morente? Pietà che si prova anche nei confronti del peggior nemico, una volta che questi è definitivamente sconfitto e non invoca altro che il perdono. Era quello che ricercavo? La richiesta di Costanza di perdonarla? Era quello che non mi faceva dormire la notte, da quando avevo parlato con Giovanna, e che tormentava i miei pensieri? Cosa mi aspettavo da quell’ennesimo incontro? La riconciliazione finale? Forse niente di tutto ciò. Forse mi ero solamente illuso di aver spezzato il vincolo genetico che ci univa, mentre le emozioni che avevamo vissuto nei periodi comuni, sia quelle positive che quelle negative, avevano contribuito a renderlo ancora più saldo. Era come se con gli sguardi che ci eravamo scambiati, anche quelli carichi d’odio, avessimo unito le nostre anime, come se ci fossimo ulteriormente avvicinati l’uno all’altro. Costanza stava morendo. Eravamo due entità distinte o con lei moriva anche una parte di me? Non riuscivo a capire l’origine del mio turbamento, la ragione ultima che mi sospingeva verso colei che per anni non avevo fatto altro che odiare in modo viscerale, con tutto me stesso. Non me lo spiegavo allora, non sono mai riuscito a spiegarmelo in seguito. So solo che una mattina, alcuni giorni dopo avere ricevuto la notizia, mi imbarcai sul traghetto per Piombino e da lì presi un treno diretto a Genova.
Secondo il parere dei medici non c’era più nulla da fare e Costanza era stata dimessa dall’ospedale per darle la possibilità di spegnersi nel proprio letto, alleviata nel dolore dall’affetto dei suoi famigliari. La situazione era peggiorata più rapidamente del previsto e quando entrai nella stanza ebbi l’impressione che Costanza non fosse in grado di riconoscermi. Le presi la mano e restai ad osservarla, in silenzio. Dopo cinque minuti mi alzai, uscii dalla stanza e me ne andai a passeggiare senza una meta ben precisa. Provai a capire se ero dispiaciuto per essere arrivato tardi, per non avere avuto la possibilità di parlarle. Con mia sorpresa mi resi conto che non lo ero, anzi, ero quasi sollevato. Se fosse stata in grado di ascoltarmi, non avrei saputo cosa dirle.
Costanza spirò il mattino dopo. Per quanto mi sforzassi, sentivo che non ero in grado di condividere il dispiacere di Giovanna. O quello di Giacomo, che aveva sposato Costanza quando era già malata. E neppure quello, forse più lieve, di parenti e amici. Ero semplicemente estraneo al dolore, alieno alle condoglianze, insensibile agli abbracci, ostile alle pacche sulle spalle, refrattario alle lacrime. Nonostante ciò, decisi di rimanere fino al rito funebre. Costanza, comunista convinta, aveva dato disposizione affinché venisse celebrato un funerale laico.
Due giorni dopo, una lunga processione di bandiere rosse accompagnò il feretro dalla casa al cimitero. Più che un corteo funebre sembrava una manifestazione del partito o uno sciopero del sindacato. La bara era ricoperta da una bandiera rossa con la falce e il martello bene in evidenza. Una folla numerosa avanzò composta e silenziosa per le strade del paese. Restai ai margini, diminuendo e accelerando il passo per poter osservare interamente i volti di coloro che avevano sacrificato due ore del loro tempo per venire a dare l’ultimo saluto a mia madre. Ero curioso di vedere in viso chi aveva condiviso con lei parte della propria vita. Dietro al carro funebre, Giovanna procedeva stretta tra il marito e Giacomo. Le prime file erano occupate dai parenti. Poi venivano gli amici più cari e i compagni del partito, infine conoscenti e compaesani. Lungo il percorso si affacciarono dalle finestre e dagli ingressi dei negozi e dei bar decine di persone. C’era chi si faceva un segno della croce rapido e spariva, chi invece seguiva con gli occhi il corteo fino alla fine. Una colonna lunga e lenta che impiegò più di un’ora per percorrere i due chilometri che separavano la casa dal cimitero. Attesi che l’ultima persona oltrepassasse il grande cancello verde e osservai immobile la coda del corteo allontanarsi lungo il viale di cipressi. Ancora oggi non so con esattezza dove sia sepolta mia madre.

Incontrai Giovanna poco prima di ripartire per la Toscana.
“Tieni, questa l’ho trovata nel portafoglio di Costanza” disse porgendomi un pezzo di carta che stringeva tra pollice e indice. Era una mia vecchia fotografia in bianco e nero di quando ero ragazzo. Era stata scattata sul molo di Camogli. Sorridevo all’obiettivo. Costanza l’aveva conservata e la portava con sé. Mia madre non finiva di stupirmi nemmeno da morta.
“Tienila tu, così ti ricorderai di me” le dissi.
Prese la foto, la fissò un attimo, poi alzò lo sguardo.
“Abbi cura di te, Guido”.
“Anche tu, sorellina”.
“Fammi avere tue notizie, ogni tanto”.
“Cercherò. Ma tu scrivimi, chiamami, non aspettare che lo faccia io”.

Passarono due anni nei quali nessuno dei due si fece vivo. Nel settembre del 1980 mi telefonò per dirmi che all’inizio di agosto era nata la sua secondogenita, Valeria. Poi un grigio silenzio spezzò nuovamente il debole vincolo di sangue che ci teneva legati.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 34 -prima parte)

Giugno 1984

L’inizio di giugno era il periodo migliore per godersi l’isola. Le orde selvagge di turisti non erano ancora sbarcate alla conquista delle spiagge. Una vegetazione rigogliosa ricopriva le colline e spennellate di verde intenso si riflettevano nelle pupille, ovunque si volgesse lo sguardo. Nei campi l’incessante frinire dei grilli annunciava l’arrivo dell’estate. Il mare azzurro chiazzato di blu resisteva ancora all’invasione, ormai prossima, del fitto esercito di natanti.
Girai la manopola e diedi gas, lasciando che il flusso d’aria mi scompigliasse i capelli salati, asciugandoli, e mi facesse lacrimare gli occhi. Spirava maestrale e stavo tornando dalla parte orientale dell’isola dove ero stato alla ricerca di una baia riparata dal vento. Una macchia scura apparve in lontananza sul bordo della carreggiata e, via via che mi avvicinavo, assunse prima i contorni di una figura umana, poi, quando distavo qualche decina di metri appena, quelli di una ragazza seduta a cavalcioni su uno zaino. Stavo per superarla quando alzò un braccio. Schiacciai il freno e fermai la vespa .
“Hai bisogno di qualcosa?” urlai.
“Me lo dai un passaggio fino in paese?”.
Si era messa in piedi, ma non si era allontanata dallo zaino. Con i piedi spinsi la vespa all’indietro. Una maglietta di Jim Morrison le fasciava il corpo sottile, lasciando scoperte due braccia pallide e magre, come il viso. I capelli scarmigliati, castani con sfumature rossicce, non vedevano una spazzola da giorni. Da una gonna variopinta che le scendeva fino alle caviglie spuntavano due sandali marroni di cuoio. Dimostrava quindici o sedici anni. Che cosa ci facesse a sei chilometri da Portoferraio, sola in mezzo alla strada sotto il sole, era un mistero.
“Vieni, monta su”.
In un attimo si mise lo zaino sulle spalle e me la ritrovai seduta dietro.
“Figo”.
“Figo cosa?”.
“Che mi dai un passaggio”.
Ispirava simpatia. Misi in moto.
“Tieniti forte”.
Si avvinghiò a me con entrambe le braccia. Superammo un vecchio in groppa a un asino che trainava un carro pieno di frutta.
“Sei sola?”.
“Cosa hai detto?”.
Il rombo del motore copriva le nostre voci. Girai la testa di novanta gradi.
“Ho chiesto se sei sola” gridai.
“Sì”.
“Sei in vacanza?”.
“Più o meno”.
“Cosa vuol dire più o meno”.
“In un certo senso”.
“In un certo senso cosa?”.
“No, più o meno vuole dire in un certo senso”.
“Ah! E perché sei in vacanza in un certo senso?”.
“Perché non ci sono veramente. Mi andava di fare un viaggio, da sola. Avevo bisogno di capire certe cose. Sono in viaggio, non in vacanza”.
“E che cosa vorresti capire?”.
“Ehi, ma guarda che sei forte tu! Ti ho chiesto un passaggio e mi fai un interrogatorio!”.
“Scusa”.
Continuai a guidare in silenzio. In fondo aveva ragione, non era tenuta a rispondere alle mie domande, ma la curiosità di sapere cosa ci facesse quella ragazzina da sola in giro per l’isola era grande. Arrivammo a Portoferraio. Accostai la vespa di fianco al marciapiede.
“Dove vuoi che ti porti?”.
“Qui va benissimo, grazie”.
Non potevo lasciarla andare via così.
“Senti, se ti va potrei offrirti qualcosa da bere o da mangiare”.
Le si illuminarono gli occhi.
“Figo”.
Ci sedemmo a un tavolo fuori da un bar. Per me ordinai una birra, la ragazza prese un Chinotto. Per mangiare ci trovammo d’accordo per un po’ di pizza.
“Vivi qui?” biascicò con un boccone ancora in bocca.
“Sì. E tu di dove sei?”.
“Vigevano. Sai dov’è?”.
“Sì, certo. Vicino a Milano”.
“Bravo. E cosa fai come lavoro?”.
“Produco vino”.
“Figo”.
Aveva letteralmente divorato il suo pezzo di pizza. Mi guardava con aria soddisfatta con il contorno della bocca sporco di pomodoro.
“Avevi fame, eh?”.
Fece cenno di sì con la testa. Quando si avvicinò chiesi al cameriere di portarcene un altro pezzo. La ragazza mi guardò sorridente.
“Non ci siamo nemmeno presentati. Io sono Guido”.
“E io Eleonora, ma tutti mi chiamano Leo”. Poi aggiunse: “Sembri a posto”.
“Scusa?”.
“Sì, sei simpatico”.
“Ti ringrazio”.
Mi fissò un istante, titubante.
“Senti, ti interessa ancora sapere che cosa è che vorrei capire?”.
“Sì, se ti va di dirmelo”.
Si mordicchiò l’unghia del pollice.
“Però mi prometti che non mi prenderai in giro”.
“Promesso”.
“Beh... ecco... vorrei capire se esiste la libertà assoluta. Oppure se la libertà ha dei limiti. E se ce li ha, mi piacerebbe raggiungerli, esplorarli. Mi piacerebbe poter camminare sul confine della mia libertà”.
“Sembra interessante...” commentai in attesa che proseguisse.
“Non ti sei mai chiesto quante cose potresti fare che invece non fai perché non ti senti libero? Oggi ho fatto il bagno nuda. Mi sono concessa al mare senza barriere artificiali. È stata una sensazione meravigliosa. E allora mi sono domandata perché la gente non fa il bagno nuda. E la risposta è stata perché non è libera”.
Quella giovane era in ritardo di una decina d’anni, si sarebbe trovata molto più a suo agio all’inizio degli anni ’70.
“Però non sarebbe giusto imporre a tutti di fare il bagno nudi” obiettai. “Chi volesse coprirsi non sarebbe più libero”.
“Hai centrato il problema. Significa che la mia libertà finisce esattamente dove inizia quella degli altri”.
Si dissetò, poi proseguì infervorata:
“Ma non è solo questo. Perché ci vestiamo tutti allo stesso modo e ascoltiamo tutti le stesse canzoni? Perché deve per forza esserci un genere di musica che ti piace? Perché la musica, tutta la musica, non può farti schifo e basta?”.
“Ma a te piacciono i Doors?” le feci notare.
“Ecco, vedi, il punto è proprio questo. Se ho addosso una maglietta di Jim Morrison allora significa che mi piacciono i Doors. Non può essere che mi piace il disegno sulla maglietta e basta? No, nell’immaginario collettivo non può essere così. La comunicazione non avviene solamente attraverso le parole. Il linguaggio è formato anche dai gesti, dagli oggetti, dai colori. Ma questo impone dei vincoli e limita la nostra libertà. È chiaro, no?”.
“Più o meno”.
Fece un pausa e addentò il secondo pezzo di pizza. Riprese non appena lo ebbe ingoiato.
“Ti faccio un altro esempio. Io non sono libera di indossare una maglietta a strisce verticali nere e azzurre solamente perché mi piacciono quei due colori. Tutti penserebbero che sono una patita di calcio e tifosa dell’Inter, mentre a me del calcio non me ne importa niente. Se non voglio mandare un messaggio sbagliato, non sono più libera”.
Decisi di continuare a stare al gioco e di ricoprire il ruolo di chi deve trovare i punti deboli nella teoria che mi stava esponendo.
“Potresti fregartene di quello che pensa la gente, torneresti ad essere libera”.
Sorrise.
“Ma possiamo veramente fregarcene di quello che pensano gli altri? Temo di no. Le persone ti giudicano a seconda dei messaggi che mandi. Se comunichi un messaggio sbagliato potrebbero non darti un lavoro, oppure potrebbe essere più difficile trovare un compagno o anche semplicemente un amico”.
“Su questo hai ragione” concordai. “Ma dimmi, com’è che sei venuta proprio qui, in quest’isola, a scoprire i confini della tua libertà?”.
“È stato per caso. Quando sono venuta via da casa non avevo definito una meta. Volevo iniziare a sentirmi libera proprio a partire da quello, dal luogo in cui sarei andata. Prima sono andata a Milano, poi ho preso un treno per Genova. Lì ho conosciuto dei ragazzi di Grosseto, ho fatto un pezzo di viaggio insieme a loro. Ci siamo separati a Follonica. Non ero mai stata all’Elba e ho pensato che potesse essere curioso ricercare i propri limiti in un’isola, un posto che in fondo ha dei confini naturali ben definiti, essendo limitato dal mare”.
“Quant’è che sei in viaggio?” domandai incuriosito.
“Una decina di giorni, più o meno. Non sto tenendo il conto, non voglio che sia il tempo che scorre a limitare la mia libertà. Non so quando tornerò indietro. Non so nemmeno se tornerò indietro. Dormo in giro, mangio poco. Per il momento ho ancora un po’ di soldi. Quando finiranno vedrò cosa fare, magari trovo un lavoretto”.
Pensai che Leo fosse un po’ pazza.
“Ma non ce l’hai una famiglia? Cosa ne pensano di questo tuo girovagare senza meta? Non sono preoccupati?”.
“Sì, sì, ce l’ho una famiglia, ma non sanno che sono qui”.
Sobbalzai sulla sedia.
“Come non sanno che sei qui!”.
“No, non lo sanno” ribadì calma. “Prima di uscire ho lasciato un biglietto sul tavolo con scritto di non aspettarmi, che non sapevo quando sarei tornata”.
“Ma non puoi, saranno in pena per te” mi scaldai.
Sollevò le spalle. Non saprei dire bene perché, ma quell’atteggiamento di sufficienza mi infastidì terribilmente. Feci uno sforzo per rimanere calmo.
“Dovresti avvisarli, non puoi comportarti così”.
“Perché?” mi domandò, lanciandomi un’occhiata di sfida.
“Perché non è giusto”.
“È la mia vita, non la tua” replicò seccata.
La fissai serio.
“No Leo, non è solo la tua vita. È anche la loro vita, quella della tua famiglia. Lo hai detto tu stessa, la tua libertà finisce dove inizia quella degli altri. Non puoi calpestare il loro diritto di sapere dove sei, cosa fai, se stai bene. Non puoi limitare la loro libertà di stare bene, di essere tranquilli. Non ne hai diritto”.
Feci una pausa. Leo non disse nulla, ma aveva abbassato lo sguardo. Capii che avevo toccato il tasto giusto. Stava riflettendo su ciò che le avevo appena detto. Dovevo insistere.
“Se la ricerca dei limiti della tua libertà cozza contro i confini della libertà altrui, se oltrepassi i confini e invadi la libertà degli altri, allora la tua ricerca non ha più senso. Crolla tutto, lo capisci?”
Mi guardò senza fiatare.
“Non ti sto dicendo di rinunciare, solo di avvisare la tua famiglia, far sapere loro che stai bene”.
“Ma se chiamo mia madre, quella mi dice di tornare e quando torno mi ammazza”.
“Forse no, se le chiedi prima di tutto scusa e poi provi a spiegarle ciò che ti ha spinto a intraprendere questo viaggio, questa scoperta di te stessa e dei tuoi spazi all’interno del mondo in cui vivi”.
Leo si passò una mano tra i capelli arruffati, pensierosa. Rimase così, assente, qualche secondo, poi accennò un sorriso e due fossette fugaci apparvero sulle sue guance scarne.
“OK, mi hai convinto. Telefonerò a mia madre”.
“Sono sicuro che capirà” azzardai. In fondo era una sconosciuta e non potevo immaginare come avrebbe reagito, ma volevo incoraggiare Leo e farle capire che approvavo la sua decisione.
“Speriamo. Sai cosa ti dico? La chiamo subito, così mi tolgo il pensiero. Ce l’hai qualche gettone?”.
Aprii il mio portamonete.
“Sei fortunata, ne ho tre”.
Prese i gettoni e sparì dentro al bar.
Trascorsero alcuni minuti senza che Leo facesse ritorno. La storia di quella ragazza mi aveva coinvolto e ora attendevo che tornasse tamburellando nervosamente le dita sul tavolo. Erano già trascorsi almeno dieci minuti e di Leo nemmeno l’ombra. Accesi una sigaretta e iniziai a fissare l’ingresso del bar, sempre più teso. Finalmente la vidi uscire e ritornare verso il tavolo. Aveva il volto inespressivo.
“Beh, allora? Come è andata? Ci hai messo un sacco”.
“Ma no, c’era uno prima di me che non finiva più di parlare con la moglie. È andata così così. Era contenta di sentirmi. Poi però si è incazzata e ha iniziato a urlare. Venerdì scorso ha denunciato la mia scomparsa alla polizia. Non sono riuscita a spiegarle molto. Mi ha detto di restare qui e di non muovermi. Viene a prendermi, parte domattina”.
“Vedrai che durante il viaggio sbollirà la rabbia e quando arriverà qui le sarà rimasta solamente la gioia di rivederti”.
“Parli così perché non la conosci”. L’inflessione della voce era quella di un condannato a morte rassegnato al suo destino. Non potevo credere che sua madre fosse davvero così tremenda come Leo la dipingeva.
“Se vuoi posso offrirti un letto per stanotte. Oggi pomeriggio ho da fare alcune cose e dovrai fare a meno di me per ammazzare il tempo, ma stasera possiamo cenare insieme, se ti va”.
Gli occhi di Leo tornarono vivi. Le pupille, rimpicciolite dal sole, sembravano due schegge d’onice incastonate in due grandi topazi celesti.
“Te ne sarei grata. È da quando sono partita che non dormo su un materasso”.
“Ti vengo a riprendere qui alle sette, va bene?”.
“Ci sarò”.
Pagai il conto, montai sulla vespa e partii. Nello specchietto, Leo si fece sempre più piccola fino a scomparire.

Durante la cena Leo mi raccontò della sua vita. Viveva insieme alla madre, a un fratello e due sorelle. Lei era la maggiore. Il padre era morto quando aveva sei anni. La scuola l’annoiava, sosteneva che non le insegnavano ciò che avrebbe potuto interessarla davvero, tipo psicologia, pittura e scultura, danze e filosofie orientali. Coltivava i tipici sogni di una ragazza della sua età, oltre alla libertà assoluta era alla ricerca dell’amore perfetto. Lottava strenuamente per emanciparsi e uscire dall’adolescenza, inseguiva un’indipendenza non ancora possibile che costituiva più un mito che un bisogno reale. Amava la vita e non si era ancora scontrata con l’individualismo, il materialismo e gli altri orrori della società nella quale suo malgrado sarebbe stata costretta a vivere.
Mi chiese di me. Come al solito ero restio a parlare del mio passato e le narrai la mia storia infarcendola di lacune, omettendo quasi interamente le vicende più dolorose.
Le preparai un letto in una stanzetta che utilizzavo come ripostiglio per cose vecchie e inutili che mi rifiutavo ostinatamente di buttare via.
“Posso chiederti un favore?” mi domandò Leo prima di chiudere la porta.
“Dimmi”.
“Domani mia madre arriverà con l’ultimo traghetto del pomeriggio. Non è che verresti con me al porto ad aspettarla?”.
Quella ragazzina che era scappata di casa alla ricerca della libertà assoluta mi appariva ora in tutta la sua fragilità. Mi fece tenerezza. Le sorrisi.
“Certo, non c’è problema. Fai dei bei sogni Leo”.
Ricambiò il sorriso.
“Grazie, anche tu”.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 34 -seconda parte)

I traghetti che facevano spola tra Piombino e Portoferraio arrivavano nell’isola ancora vuoti. Solamente con la chiusura delle scuole si sarebbero poco a poco riempiti, fino a giungere traboccanti a partire da metà luglio. La madre di Leo fu tra i primi passeggeri a scendere dalla passerella. Appena messo piede sulla banchina, si guardò intorno, cercando di scovare la figlia tra la piccola folla che si era radunata sul molo. Leo sollevò un braccio e agitò leggermente la mano, senza però muoversi da dove ci trovavamo. Aspettò che la madre fosse a pochi passi per scostarsi da me e andarle incontro.
“Ciao mamma”.
Si abbracciarono a lungo.
“Mi dispiace” aggiunse Leo contrita.
“Piccola mia, perché te ne sei andata?” le domandò la madre con gli occhi lucidi. L’aveva già perdonata. Ero contento di non essermi equivocato.
Leo non rispose, si scostò dalla madre e mi indicò.
“Lui è Guido. Mi ha convinta lui a chiamarti”.
La donna si irrigidì lievemente. Non si era accorta che ci fosse qualcuno ad osservare il momento di intimità con la figlia. Aveva i capelli neri piuttosto corti, le sfioravano appena le spalle, un corpo né grasso né magro, i lineamenti del viso né belli né brutti. Aveva il volto stanco, il viaggio e il batticuore causato dalla scomparsa della figlia avevano lasciato il segno. Ad occhio e croce doveva avere una decina d’anni meno di me. Significava che aveva avuto Leo molto giovane, quando aveva vent’anni appena.
“Non so come ringraziarla” disse dopo aver superato l’imbarazzo. Mi porse la mano. “Marcella, piacere di conoscerla”.
Si guardò intorno, indecisa sul da farsi. Poi si volse nuovamente verso di me.
“Sa per caso a che ora parte l’ultimo traghetto per Piombino?”.
“È già partito, non ce ne sono più fino a domani mattina. Dovrete trascorrere la notte qui nell’isola”.
“Ci mancava solo questa” commentò scocciata e fulminò la figlia con lo sguardo. “Dovremo cercarci un albergo”.
“Scusate se mi intrometto. Se vi accontentate, potete fermarvi a dormire a casa mia, c’è posto per tutti”.
“Veramente preferirei un albergo. Ha già fatto molto per noi, non mi va proprio di disturbarla oltre”.
“Nessun disturbo, mi creda”.
Non volevo dirle che avevo già ospitato la figlia, ma ci pensò Leo a metterla al corrente.
“Mamma, ci ho già dormito io ieri notte. La casa è molto bella, circondata da una vigna. E poi l’albergo ci costerebbe un sacco di soldi!”.
Marcella guardò prima la figlia, poi me, pensierosa e titubante.
“E va bene” acconsentì dopo un po’. Ebbi l’impressione che avesse accettato il mio invito per il semplice fatto di essere troppo stravolta per mettersi alla ricerca di una sistemazione per la notte.
Leo prese in mano la situazione e propose un bagno prima di cena, ma Marcella obiettò che non aveva il costume.
“Ti presto il mio” la rassicurò la figlia. Poi si volse verso di me e strizzò l’occhio.

Dopo aver lasciato a casa il bagaglio, andammo in una spiaggia isolata, a quell’ora completamente deserta. Marcella non poté credere ai suoi occhi quando la figlia si denudò e le offrì il costume che indossava sotto i vestiti.
“Io non ne ho bisogno” cinguettò e corse a tuffarsi in mare.
“Dovresti provare anche tu!” urlò mentre si agitava con le braccia, spruzzandosi l’acqua addosso. “È molto più bello, è meraviglioso!” seguitò a incitarla.
Marcella era in piedi con il costume della figlia in mano, pietrificata. Mi guardò imbarazzata, come a scusarsi per il comportamento della figlia. Incassai la testa nelle spalle e allargai le braccia, per dire che il gesto della ragazza non mi aveva turbato. Leo continuava a dimenarsi e a lanciare strilli di gioiosa eccitazione, Marcella la osservava scuotendo leggermente la testa. La scena era piuttosto comica e poco a poco fui colto da un’ilarità crescente che mi fece prima sorridere e poi scoppiare a ridere. La mia risata contagiò Marcella e le sue labbra si schiusero in un sorriso divertito. Ci lanciammo una rapida occhiata di complicità e un attimo dopo iniziammo a toglierci i vestiti, dapprima con una certa calma, poi via via con sempre più foga, fino a rimanere completamente nudi. Senza più guardarci, ci avviammo entrambi di corsa verso la riva e ci lanciammo nell’acqua con un urlo selvaggio e primitivo.

Marcella rimase incantata da quel poco che aveva potuto vedere dell’isola. Su pressione di Leo, decisero di restare ospiti in casa mia per il fine settimana. Marcella telefonò al fratello a cui aveva affidato gli altri figli e gli disse che si prendeva tre giorni di vacanza, ne aveva bisogno. Leo usciva presto al mattino con la mia vespa e ritornava dopo il tramonto. Le piaceva esplorare l’isola, assaporarne l’essenza più autentica entrando in contatto con la popolazione locale. Era perfino riuscita a convincere alcuni pescatori a portarla con loro in una battuta di pesca. Marcella mi aiutava nella vigna e nell’orto. Il primo giorno non smise di ringraziarmi per aver convinto Leo a telefonarle. Quando aveva ricevuto la chiamata aveva il cuore a pezzi ed era sull’orlo di una crisi di nervi. Andavamo a piedi a fare la spesa in paese e cucinavamo insieme. Per quanto trovasse interessante quel tipo di vita, così bucolica e così diversa da quella a cui era abituata in città, le era difficile comprendere come avessi potuto fare l’agricoltore per così tanto tempo. Le sembrava una vita dura alla quale ci si poteva abituare solamente fin da piccoli. Le spiegavo che a me non dispiaceva affatto, ma che aveva ragione nel pensare che fosse faticoso lavorare la terra. Spesso erano i capricci del tempo a determinare la bontà di un raccolto.
Marcella era rimasta vedova a ventisei anni con quattro figli da sfamare. Il marito era morto a trentacinque anni di tumore ai polmoni. Era stato ucciso dalle esalazioni tossiche dei reagenti chimici respirate negli stabilimenti della ditta per la quale lavorava come operaio. Grazie al coraggio e alla testardaggine di un amico avvocato, i proprietari dell’azienda avevano riconosciuto le proprie responsabilità e patteggiato un risarcimento. Non era molto, ma unito a quello che guadagnava facendo le pulizie in alcune case del quartiere era stato sufficiente per tirare avanti e pagare i libri di scuola per i quattro figli. Ora però i soldi erano quasi finiti e non sapeva bene come avrebbe fatto in futuro per sopravvivere. Le si stringeva il cuore ammetterlo, ma presto Leo, la primogenita, sarebbe stata costretta a interrompere gli studi e a iniziare a lavorare. Poteva apparire cinico, ma la sua disperazione per la scomparsa della figlia era stata dettata anche da quello. Il destino non era stato tenero con Marcella e con la sua famiglia. Forse fu lo sfondo oscuro dal quale emergeva per entrambi un passato infausto a farmi provare nei suoi confronti una profonda empatia e a farmela sentire incredibilmente vicina. D’altra parte, dopo nove anni di esistenza solitaria, mi accorgevo che la presenza di una donna nella mia vita quotidiana e domestica mi metteva particolarmente di buon umore. Glielo confessai l’ultima sera. Mi disse che anche lei era stata bene i due giorni che avevamo trascorso insieme e che si era resa conto di quanto le mancasse un uomo al suo fianco. Leo era uscita in barca a pescare e non sarebbe rincasata fino all’alba inoltrata. Un bicchiere di vino rosso in più ci aiutò a superare una comunque sormontabile inibizione e a compiere il breve passo che separa la comunione spirituale da quella fisica. Leo ci trovò nel mio letto ancora addormentati, stretti in un abbraccio di cui sia io che sua madre avevamo scoperto avere un disperato bisogno. La colazione fu un incrocio di ammiccamenti e sorrisi imbarazzati, ma non appena Leo uscì per un ultimo giro di perlustrazione in vespa, tra me e Marcella tutto ritornò dolce e naturale come se ci conoscessimo da sempre.
“Non dimenticherò mai questi giorni” mi sussurrò con gli occhi lucidi.
“Nemmeno io”.
Provai una fitta lacerante al pensiero del distacco. Pensai a come avrebbe fatto Marcella una volta tornata a casa, a Leo che avrebbe dovuto abbandonare gli studi e cercarsi un lavoro. Mi sembrò tutto ingiusto, ma del resto avevo imparato a mie spese nel corso della vita che la giustizia non è universale e il fato ogni tanto si accanisce crudele contro alcuni, molte volte i più deboli.
“Ci rivedremo?”.
Più che una domanda, quella di Marcella era una speranza, un auspicio. Ci saremmo rivisti? Sì, ma a cosa sarebbe servito? Non era il rivedersi una giornata a Vigevano o all’Elba che avrebbe cambiato qualcosa nelle nostre vite. Sentivo che Marcella pensava le stesse cose che pensavo io, sentivo che anche lei avrebbe voluto qualcosa di diverso, qualcosa di più che un semplice incontro a scadenza annuale o, nel migliore dei casi, semestrale. Non avevo mai più rivisto Sara e i miei figli da quando c’eravamo separati. Negli ultimi anni, qualche breve e incolore avventura non era stata sufficiente a convincermi ad abbandonare la vita da single. Era la prima volta che prendevo in considerazione questa possibilità. La vigna era troppo piccola per sfamare sei bocche e poi da un lato si trattava di spostare cinque persone, dall’altro solo una. Era una pazzia, lo sapevo, ma in fondo ero un po’ matto e sapevo anche che difficilmente me ne sarei pentito. Con gli anni avevo imparato a guardare avanti. Avrei dovuto cercare un lavoro, ma la cosa non mi spaventava, ormai avevo perso il conto dei lavori che avevo svolto in tutta la mia vita. Marcella mi osservava con le labbra che fremevano d’ansia. Si trattava di una pazzia.
“Pensi che a Vigevano ci sarebbe posto anche per me?” azzardai con un mezzo sorriso.
Due grosse lacrime le sgorgarono dagli occhi increduli.
“Ma... “ balbettò “... la tua vita è qui... la vigna...”.
“La venderò”.
”Io... io non speravo tanto... non osavo chiedertelo... sarebbe...”. Non riuscì a terminare la frase e mi gettò le braccia al collo.
“Lo considero un sì” dissi cingendole la vita e stringendola forte.

Marcella e Leo partirono il giorno dopo. Io restai nell’isola altre tre settimane nelle quali detti disposizioni a un contadino affinché si prendesse cura della vigna e trovai un acquirente a cui avrei venduto il terreno dopo la vendemmia di quell’anno. All’inizio di luglio del 1984, dopo nove anni trascorsi in pochi chilometri quadrati circondati dal mare a coltivare la terra, mi trasferivo nuovamente in mezzo alla pianura Padana, senza un lavoro, con un futuro incerto, ma con un nuova famiglia pronta ad accogliermi.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 35)

Settembre 1991

Leo iniziò a drogarsi il giorno del suo ventitreesimo compleanno. Non era rientrata per cena e Marcella deambulava senza sosta per la cucina in preda a una crescente agitazione. Aveva detto a Leo che avremmo festeggiato, le aveva anche comprato la sua torta preferita, la crostata di frutta con la crema pasticcera e la gelatina. Continuava a ripetermi che doveva esserle successo qualcosa. Non sapeva spiegarmi perché, lo sentiva e basta. Uscii promettendole che sarei andato a cercarla, un po’ per tranquillizzarla, un po’ perché avevo fumato l’intero pacchetto di sigarette ascoltando i suoi tristi presagi e sapevo che non avrei resistito oltre senza il conforto della nicotina. La trovai a poche centinaia di metri da casa, in un anfratto oscuro tra due palazzi. Era stato Billy, il bastardino di Leo, a trascinarmi lì. Quando mi ero avvicinato all’uscio mi si era avventato contro scodinzolando con il guinzaglio in bocca. Una volta in strada aveva iniziato ad abbaiare furiosamente e a tirare come un ossesso nella direzione opposta al tabaccaio. Avevo provato inutilmente a riportarlo all’ordine, dopodiché mi ero rassegnato e mi ero lasciato trainare senza opporre resistenza. La corsa impazzita del cane si era arrestata all’improvviso in prossimità di una angusta intercapedine tra due palazzine. La luce fioca di un lampione disegnava per terra un striscia sottile, facendo emergere dall’oscurità una mezza gamba, adagiata sull’asfalto come una protesi abbandonata. Avevo atteso che l’occhio si abituasse al buio e mi ero poi avvicinato all’arto illuminato. Una ragazza giaceva inerme nell’ombra, riversa sul terreno in posizione innaturale. Quando Billy si avvicinò a leccarle il polpaccio mi si gelò il sangue. Avevo trovato Leo. Mi inginocchiai, le sollevai la testa delicatamente e spostai il corpo alla luce. Aveva il viso emaciato, le palpebre semichiuse e un laccio emostatico stretto intorno al braccio. Mi avvicinai al viso di Leo e la chiamai per nome. La ragazza ebbe un sussulto e mormorò qualcosa di incomprensibile. Le liberai il braccio dalla stretta del laccio. La pelle era fredda, madida di sudore, il respiro affannato. Il piccolo bastardino si avvicinò al volto pallido della padrona ed emise un guaito acuto e prolungato. Poi si volse rabbioso verso un nemico immaginario e iniziò ad abbaiare furiosamente. Presi Leo in braccio e mi avviai verso casa. Il suo corpo era leggero e fragile, come la sua anima. Un’amarezza viscosa mi si addensò in mezzo alla gola e scivolò lentamente verso il basso, appiccicandosi intorno allo stomaco. La corsa era arrivata al capolinea. La ragazzina solare che avevo incontrato sette anni prima era svanita definitivamente, i suoi sogni cancellati, ricoperti in modo uniforme da una soffice e letale polvere bianca.

Poco dopo essermi trasferito in Lombardia avevo trovato lavoro in una ditta di trasporti con sede a Perugia, ma operante soprattutto nel nord. Raramente gli spostamenti superavano i duecento chilometri, distanza che mi permetteva di svolgere la consegna in giornata senza essere costretto a pernottare fuori. Il mio lavoro era ben pagato e Leo, contrariamente a quanto prospettato da Marcella, non era stata costretta ad abbandonare gli studi, per i quali però non aveva mai mostrato grande interesse ed entusiasmo. Si era trascinata fino al diploma stancamente, come un alpinista che sa che la vetta che ha di fronte non è il punto d’arrivo della spedizione, bensì nasconde alla vista la vera cima della montagna, più alta e più faticosa da raggiungere. Non aveva voluto iscriversi all’università perché, diceva, il mondo, quello vero, non si studia sui libri o rinchiusi in un laboratorio, ma per strada, osservando l’indifferenza della gente nei confronti di una persona anziana che non è in grado di attraversare la strada da sola, ascoltando l’incomunicabilità assordante tra un neonato e la propria madre, rendendosi conto quotidianamente sulla propria pelle del furto che il potere compie ai danni della nostra individualità e della nostra fantasia, con l’unico aberrante obiettivo di renderci tutti un po’ più uguali e un po’ più grigi. Aveva trascorso così alcuni anni, svolgendo piccoli lavori saltuari e alternandoli a lunghi periodi di inattività durante i quali vagabondava apatica senza meta, lasciandosi trascinare dalla corrente. Sembrava incapace di invertire la rotta, come un tonno che nuota inconsapevole lungo corridoi interconnessi di reti, ignaro che in fondo a quel labirinto lo aspetta, assetata di sangue, la camera della morte. Marcella, occupata con gli altri figli e con un nuovo lavoro al mercato, non era riuscita a trattenere quella figlia che le stava sfuggendo via davanti agli occhi. Nemmeno io ero stato in grado di frenare in qualche modo la crescente estraneità di Leo all’interno della famiglia. Dopo aver fallito come padre biologico (non avevo mai più visto né sentito Luca e Paola), mi ritrovavo ora a fronteggiare una nuova e bruciante sconfitta come padre adottivo.
Entrai in casa sfiancato dallo sforzo fisico e, ancor di più, da quello morale. Marcella lanciò un urlo atroce e si coprì il viso con le mani non appena si accorse dell’ematoma color prugna sulla parte interna del braccio della figlia, all’altezza del gomito. Adagiai Leo sul divano. Un silenzio denso e pesante penetrò nella stanza saturandola. La ragazza giacque incosciente per alcuni minuti, poi poco a poco riprese conoscenza. Marcella, quando la vide sollevare le palpebre, tirò un sospiro di sollievo e lasciò che le lacrime sciacquassero via la paura.
Leo, incalzata da un fuoco incrociato di domande, non seppe spiegare perché lo aveva fatto. Disse solamente che la scelta del luogo dove bucarsi per la prima volta non era stata casuale. Vicino a dove abitavamo, in modo che l’avremmo potuta trovare se non fosse stata in grado di tornare a casa con le proprie gambe.
Procurarsi una dose a Vigevano era tanto semplice quasi come comprarsi un gelato. Era solo un po’ più caro, ma a chi non possedeva soldi a sufficienza venivano proposte offerte speciali. Eroina tagliata abbondantemente, prezzi stracciati in cambio di un prodotto di pessima qualità, ma efficace ugualmente a garantire sessanta secondi di sballo euforico. Lo sapevano tutti dove veniva spacciata, carabinieri compresi, eppure la tossicodipendenza, l’ultimo livello del multimiliardario commercio della droga, veniva trattata come un fenomeno innocuo con il quale convivere piuttosto che come una pianta infestante e velenosa da dover estirpare. Sembrava che nessuno avesse capito che la chiave per smantellare l’intero sistema potesse trovarsi proprio lì, tra i giovani eroinomani. Se si fosse riuscito a ridurre la domanda, le ripercussioni sull’offerta sarebbero state devastanti. Bisognava agire a monte, spiazzando la criminalità con un dirompente e innovativo progetto sociale che creasse terra bruciata intorno al mondo dell’illegalità. Invece le istituzioni erano assenti e quando, come nel caso di Leo, anche le famiglie risultavano impotenti, ecco che incominciava il calvario, disseminato di sudori freddi, pruriti, ansie, visioni, alterazioni dei sensi.

Furono mesi terribili. Leo diventò presto dipendente e incominciò a iniettarsi eroina sempre più spesso, sperperando i pochi soldi che guadagnava e prendendo di nascosto in prestito i nostri quando i suoi non le bastavano. Le violente crisi di astinenza devastavano il suo esile corpo che sembrava doversi spezzare da un momento all’altro, come un sottile filo d’erba in balìa di un vento tempestoso. Il metadone che le somministravo regolarmente e i lunghi massaggi che pazientemente le facevo agivano da calmanti temporanei sui sintomi, senza però riuscire a sostituire l’euforia effimera dell’eroina. Se Leo avesse continuato a potersela procurare con facilità, nessun surrogato sarebbe stato sufficiente a farla uscire dal tunnel. L’unica soluzione consisteva nell’impedire che la droga giungesse in suo possesso. Dovevo in qualche modo prosciugare la sua sorgente di rifornimento.
Una sera, dopo l’ennesima crisi, Leo uscì senza dire nulla. Mi infilai di corsa una giacca e la seguii lungo la strada senza farmi vedere, protetto dalla notte. Volevo scoprire chi le vendeva le dosi. Leo camminava rapida e decisa senza guardarsi intorno. I miei cinquant’anni suonati passavano fattura e faticavo a starle dietro. Giunta nel parcheggio di un supermercato, si avvicinò a due ragazzi seduti a cavalcioni su due ciclomotori. Mi acquattai dietro un’automobile e osservai la scena. Ero troppo lontano ed era troppo buio per scorgerne i lineamenti. Dopo una breve contrattazione, il ragazzo più basso infilò la mano nella tasca interna del giubbotto e l’allungò poi in direzione di Leo. La ragazza prese ciò che le interessava, pagò lo spacciatore e si allontanò dal parcheggio a passo svelto. Non appena svoltò dietro a un isolato, affrettai l’andatura e la chiamai. Si girò di scatto.
“Leo, ti prego, non farlo”.
“Non immischiarti Guido, non sono affari tuoi”.
Nel frattempo l’avevo raggiunta. La guardai dritto negli occhi.
“Quella roba ti sta distruggendo, lo capisci?”.
“Sì, ma non ne posso fare a meno. È come un’amica che sai che ti sta fottendo ma di cui non puoi fare a meno di fidarti, perché è l’unica che ti fa sentire bene”.
Un soffio di vento improvviso sospinse una nuvola pigra e la luce velata della luna rischiarò il pallido viso di Leo. Una compatta rassegnazione le inumidì gli occhi.
“Puoi farcela, se vuoi” la spronai.
“Ma io non so se voglio”.
La strinsi forte contro di me e aspettai che finisse di singhiozzare prima di sciogliere l’abbraccio. Non me lo disse, ma ebbi l’impressione che fosse contenta di ritornare a casa insieme.

Il giorno dopo avevo una consegna alla periferia di Milano. Mi svegliai presto e una volta consegnata la merce parcheggiai il furgone a una fermata e proseguii in tram verso il centro. I personaggi dei sogni e degli incubi popolavano ancora gli sguardi assonnati dei pendolari e lunghi sbadigli accompagnavano le persone al lavoro.
Il bar Nicolini era lungo e stretto. La puzza di fumo e l’odore di caffè si erano sparsi ovunque, occupando con solerzia ogni angolo del locale e infilandosi diligentemente nelle venature delle vecchie sedie di legno. Le pareti spoglie piangevano l’antico candore scrostandosi mestamente. Lacrime secche e friabili di intonaco erano colate sul pavimento e giacevano dimenticate una di fianco all’altra, vegliate dallo zoccolo dipinto a lutto.
“Sto cercando Enrico” dissi all’uomo dietro al bancone. Erano trascorsi vent’anni dall’ultima volta che ci eravamo visti. Era un tentativo folle, non avevo alcuna speranza di ritrovarlo, ma sapevo che se ci fossi riuscito non avrebbe esitato ad aiutarmi.
“Chi lo cerca?” domandò il tizio con aria stanca e decadente, la stessa che si respirava all’interno del bar.
“Guido” risposi con un misto di sorpresa e felicità.
“E perché?”.
“È un mio vecchio amico. Ho bisogno di un favore”.
“Ritorna domani a quest’ora. Se hai detto la verità lo troverai qui”.
Evidentemente bazzicava ancora all’interno del mondo della criminalità, altrimenti non si spiegava la diffidenza con la quale mi aveva trattato il proprietario del bar.

L’indomani ad aspettarmi trovai un vecchio assorto in una nuvola di fumo. Profonde rughe gli segnavano il volto asciutto in modo regolare, come solchi di un campo appena arato. Enrico mi salutò affettuosamente pizzicandomi una guancia. Ci raccontammo brevemente le nostre vite degli ultimi anni, dopodiché gli spiegai perché lo avevo cercato.
“Non preoccuparti” mi disse appoggiandomi una mano sulla spalla. “Io ormai sono troppo vecchio, ma conosco alcune persone che ti risolveranno il problema. Tu occupati solamente di vigilare la tua figlioccia, al resto ci penseranno loro”.

Cinque giorni dopo, sulla cronaca locale di Vigevano, apparve la notizia che due giovani, di venticinque e ventotto anni, erano stati prelevati da quattro sconosciuti, trasportati nel parco del Ticino e lì, lontano da occhi indiscreti, pestati a sangue. I due giovani erano stati abbandonati poi in un’area di sosta, dove erano stati avvistati da un camionista che aveva prontamente allertato i soccorsi. La prognosi per entrambi era riservata, anche se i medici sostenevano che non si incontravano in pericolo di morte. Il furgone utilizzato per il delitto era stato ritrovato poco lontano dal luogo in cui i giovani erano stati rinvenuti. Risultava rubato il giorno prima a Milano. I due ragazzi erano entrambi incensurati e di buona famiglia. Dalle prime dichiarazioni dei carabinieri, si ignoravano le ragioni di quell’orrendo gesto criminale. Informazioni utili alle indagini sarebbero emerse non appena il magistrato incaricato del caso avesse potuto procedere con l’interrogatorio delle due vittime. Nel frattempo i famigliari, letteralmente sconvolti, avevano esposto una denuncia per percosse e tentato omicidio contro ignoti.
Durante il primo periodo in carcere ero entrato in contatto con il mondo della criminalità e avevo imparato a conoscerne i metodi peculiari che venivano utilizzati per risolvere alcuni problemi. Lessi quindi la notizia senza stupore e senza alcuna pena nei confronti dei due spacciatori. Pensai con freddezza e distacco che avevano ricevuto semplicemente la lezione che si meritavano. A cena commentai l’accaduto e Leo mi lanciò uno sguardo inquisitore come se avesse intuito che fossi in qualche maniera responsabile, ma non diede voce ai suoi sospetti.
La settimana successiva Marcella lasciò il lavoro per dedicarsi anima e corpo alla figlia. Con la madre che la seguiva costantemente e con la fonte abituale della droga prosciugata Leo smise di bucarsi, superò sempre meglio le sempre più rare crisi di astinenza e in alcuni mesi riuscì a liberarsi dalla dipendenza e ad uscire definitivamente dall’incubo dell’eroina.
Dopo un anno circa conobbe un ragazzo nella palestra in cui seguiva un corso di aerobica. Leo si trasferì quasi subito a casa del fidanzato, trovò un lavoro come commessa in un negozio di vestiti e un anno più tardi misero al mondo una splendida bambina.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 36)

Maggio 1999

Il nuovo sindaco della Lega Nord lo aveva sbandierato più volte durante la sua campagna elettorale aggressiva e volgare. Se fosse stato eletto, una delle priorità sarebbe stata lo sgombero delle case comunali occupate. Legalità e sicurezza erano stati i cavalli di battaglia con i quali aveva conquistato le simpatie dell’elettorato, ipnotizzato dal grezzo populismo e dal vocabolario semplice e schietto del futuro primo cittadino. Gli abitanti delle case però avevano pensato che si trattasse di pura e innocua propaganda e solo quando l’ufficiale giudiziario si presentò e consegnò porta per porta l’ordine scritto, capimmo che l’imprenditore prestato alla politica faceva sul serio. In segno di protesta contro gli sgomberi, con alcuni amici camionisti bloccammo per due ore l’accesso all’aeroporto di Linate. Un’azione velleitaria e disperata, ignorata dai media, che si infranse come una bolla di sapone, senza fare rumore, contro il muro dell’indifferenza. La desolante verità infatti era che a difendere il nostro diritto alla casa eravamo soli, della nostra lotta non gliene importava niente a nessuno. Una radio locale si scomodò a realizzare un sondaggio tra i cittadini e i risultati furono schiaccianti: il settantasette per cento era a favore degli sgomberi, il quindici per cento contrario, il restante otto per cento non aveva un’opinione ben definita e preferiva non schierarsi. Il tutto era reso ancora più assurdo dal fatto che nessuno sapesse esattamente quali fossero i piani dell’amministrazione comunale. In principio si era parlato di realizzare una residenza per anziani, in seguito le nuove sedi della polizia municipale e dei pompieri, infine una biblioteca. Tutti progetti che erano esistiti solamente a parole e di cui nessuno aveva mai visto né i piani né i preventivi di spesa. Tra i più critici e pessimisti, c’era anche chi sosteneva che la giunta, una volta ottenuto lo sgombero, avrebbe votato per la vendita degli alloggi a privati, rimpinguando così le indigenti casse comunali e liberandosi, nel contempo, dell’onere di dovere decidere il futuro utilizzo di quegli spazi.

Ci eravamo trasferiti in una di quelle case popolari nel 1994 quando Carlotta, la sorella minore di Leo, aveva dato alla luce il suo primogenito avuto da un ragazzo australiano tornato in Oceania non appena aveva saputo che sarebbe diventato padre. All’epoca Marcella non aveva ancora ripreso a lavorare e una parte del mio salario serviva per aiutare la famiglia di Leo. Lei era stata licenziata quando era rimasta incinta e il marito saltava, contro la sua volontà, da un lavoro precario all’altro. Nel 1992 inoltre l’azienda di Perugia per la quale lavoravo era stata chiusa per bancarotta. Un anno prima del fallimento avevo accettato ingenuamente, allettato da un sostanzioso aumento di stipendio, di firmare alcune carte e di diventare così responsabile di fronte alla legge per tutto ciò che riguardava eventuali irregolarità compiute dall’azienda. Mi ero trovato così invischiato in un processo nel quale il vero e unico imputato avrebbe dovuto essere il proprietario, un imprenditore viscido come un serpente che, non appena si era reso conto che la barca stava affondando, aveva smesso di pagare gli operai ed era fuggito in Brasile. Sapevo in ogni modo che i tempi della giustizia erano abbastanza lunghi per non dovermi nell’immediato preoccupare più di tanto e mi ero attivato prontamente per trovare al più presto un altro lavoro. Con il nuovo incarico come custode di una ditta lombarda l’entrata mensile si era ridotta notevolmente e, dopo la nascita del primogenito di Carlotta, il mio solo stipendio non era più sufficiente per coprire le spese della famiglia intera. Nonostante la difficile situazione economica, non mi era mai capitato di provare nostalgia del tempo in cui ero stato alle dipendenze di Lomellini e neppure degli anni trascorsi all’Isola d’Elba. Marcella rappresentava per me una stabilità fisica ed emotiva che in passato avevo posseduto solamente per periodi molto brevi. I suoi figli mi avevano adottato come padre ed io, secondo un processo spontaneo e naturale, avevo adottato loro. Per la nuova dimora versavamo regolarmente un affitto al Comune. La cifra era inferiore ai prezzi di mercato, ma era ritenuta da noi equa e nessuno in municipio, prima di allora, si era mai lamentato. Poco a poco la voce si era diffusa e, seguendo il nostro esempio, altre famiglie si erano trasferite a vivere negli appartamenti vicini. Erano per lo più famiglie a monoreddito con figli a carico che non riuscivano più a reggere i ritmi dell’inflazione e che pagavano a prezzo carissimo il ristagno dei salari ed impietose ristrutturazioni aziendali. Da un punto di vista legale si era trattato di un’occupazione non autorizzata di un edificio pubblico. L’attuale sindaco però sembrava non volere ricordare che quelle abitazioni, prima di essere occupate, risultavano abbandonate da tempo e negli ultimi anni erano diventate un rifugio sicuro per topi e pipistrelli. Dimenticava inoltre che fu grazie ai nuovi inquilini che vennero ristrutturate e rese nuovamente abitabili. Ora sembrava che in Comune si fossero all’improvviso accorti dell’esistenza di quelle case e le reclamavano a gran voce, come un bambino capriccioso che rivuole indietro un suo vecchio giocattolo abbandonato non appena lo vede in mano a qualcun altro. Una mattina ci presentammo agguerriti in municipio decisi a fare valere le nostre ragioni, per ricordare al sindaco la storia del posto dove vivevamo e per dirgli che non poteva sbattere in mezzo alla strada delle persone come se niente fosse. La responsabilità del fatto che le case versassero anni addietro in condizioni di degrado non era da attribuire in alcun modo alla sua persona in quanto, ci fece notare con lo stesso tono con cui una madre redarguisce un figlio disattento, all’epoca degli episodi incriminati lui non era ancora sindaco e, confessò con un sorriso, nemmeno pensava di diventarlo. Per quanto riguardava invece il nostro futuro, si disse rammaricato per la situazione, ma d’altra parte il suo dovere era quello di preoccuparsi per il benessere della maggior parte dei cittadini e se il benessere di molti coincideva con il malessere di pochi, lo considerava tutto sommato un prezzo accettabile da pagare.

Il giorno precedente a quello prestabilito per lo sgombero passai dal benzinaio e mi feci riempire una tanica di benzina. Quando il capo dei vigili suonò il campanello, uscii sul pianerottolo e iniziai a innaffiare con cura i gradini. L’odore intenso e inconfondibile del carburante si diffuse rapidamente nella tromba delle scale. Quando finii di versare l’intero contenuto della tanica, aprii il portone e rimasi in attesa seduto sull’ultimo gradino. Sentii il tonfo pesante degli anfibi farsi sempre più vicino, fino a quando il volto sconcertato del comandante della polizia municipale apparve in fondo all’ultima rampa di scale.
“Ma cosa sta facendo. È impazzito?”.
Tastai con la mano il taschino della camicia, poi infilai la mano nelle tasche dei pantaloni, prima una, poi l’altra.
“Devo averlo dimenticato in casa” sospirai. “Ha per caso da accendere?”.
Due mani invisibili plasmarono sul viso dell’uomo un’espressione di incredulità e sgomento.
“Ragioni, la prego”.
Estrassi dal pacchetto una sigaretta e me la misi in bocca.
“Mi è venuta voglia di fumare, per questo le ho chiesto da accendere” spiegai con un sorriso, soddisfatto per avergli fatto prendere un po’ di paura. Emise un debole sospiro di sollievo. Mi schiarii la voce.
“Comunque chi deve ragionare è il signor sindaco, se lo ficchi bene in testa. Noi da qui non ce ne andiamo”.
“Non dica stronzate. Ora la faccio portare via di peso”. Il tono della voce rifletteva sicurezza nei propri mezzi, riacquistata dopo lo scampato pericolo. Si sporse verso i piani inferiori e ordinò ai suoi uomini di salire.
“Ah, guardi, l’ho trovato”.
Si voltò di scatto e fissò l’accendino che stringevo tra le dita. Gli occhi gli si fecero sottili.
“Forse lei non mi conosce abbastanza bene e pensa che non sarei capace di dare fuoco a tutta la baracca”.
“Lei si sta mettendo in un mare di guai” mi ammonì acido.
Scoppiai a ridere.
“Un mare di guai. Lei non ha idea di cosa siano i guai, quelli veri. Lei ha un lavoro fisso, uno stipendio dignitoso, una moglie che l’aspetta a casa, probabilmente ha anche dei figli che l’adorano. Ma soprattutto, a differenza di coloro che vivono qui, ha una posizione sociale riconosciuta, rispettata. La gente la saluta quando passa per la strada, “Salve Comandante!”. Lei è qualcuno, la società non si è dimenticata di lei, non ancora almeno”.
Due poliziotti raggiunsero l’ultima rampa di scale, ma vennero prontamente fermati dal loro superiore con un gesto della mano.
“Bene, bene, abbiamo un pubblico numeroso” ripresi sarcastico. “Un pubblico certamente più interessato di lei, signor comandante. Le piace la metafora del mare?”. Indicai i due giovani. “Loro sono emersi in superficie, per il momento sono salvi, hanno iniziato a nuotare, ma non hanno ancora raggiunto la terraferma. Basterebbe una dolorosa ma necessaria riduzione dell’organico e si ritroverebbero all’improvviso ad affogare nella merda. E pensare che le chiamano operazioni di razionalizzazione”.
I due poliziotti mi lanciarono un’occhiata stupita.
“Pensate che sia pazzo, vero?”.
Rimasero impassibili.
“Altro che benessere dei cittadini!” gli vomitai in faccia con amarezza. “Solo quelli che hanno i soldi contano, degli altri non gliene frega niente a nessuno”.
All’improvviso mi tornarono in mente le parole di Enrico. Il potere si interessa esclusivamente di chi è riuscito a trasformarsi in farfalla.
“Lo sanno anche i muri” continuai “che svenderanno queste case ai privati. Stanno privatizzando tutto, un giorno dovremo pagare anche per l’aria che respiriamo. Non sono pazzo, sono disgustato e disperato”.
Il tanfo di benzina era nauseante.
“Cosa vuole?” mi domandò il comandante.
“Entro due ore voglio un foglio firmato dal sindaco con scritto che il Comune rinuncia agli sgomberi, almeno fino a quando non avrà da offrirci una valida alternativa”.
“Altrimenti?”.
“Altrimenti i progetti che avete in mente, qualunque essi siano, si trasformeranno in cenere”.
Il capo dei vigili sbuffò rassegnato. Prese il cellulare, chiamò il sindaco e lo mise al corrente della situazione.
“D’accordo, avrà il suo pezzo di carta” disse non appena si concluse la telefonata.

Ritornò dopo un’ora.
“Ecco, ora sarà contento”.
Presi il foglio e dopo averlo letto lo piegai in quattro e me lo misi in tasca.
“Sono contento che abbia creduto che potessi dar fuoco a questo edificio”.
Mi guardò attonito.
“Non lo avrei mai fatto, non ora. Nel nostro appartamento c’è un bambino che sta dormendo, sarebbe stata una pazzia”.
Quando rientrai in casa e chiusi la porta era ancora inchiodato sul pianerottolo.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 37 - prima parte)

Luglio 2002

Mi accorsi del cigolio del cancello automatico troppo tardi. Pensare che ero stato io ad insistere affinché il binario su cui scorreva venisse lubrificato con dell’olio perché lo stridore acuto provocato dall’attrito del metallo sul metallo era diventato insopportabile. Quando mi volsi feci appena in tempo a vedere il cancello che mi investiva, facendomi perdere l’equilibrio. Una volta a terra, provai disperatamente a spostarmi dalla traiettoria. Non ne ebbi il tempo e il cancello si richiuse pesantemente, schiacciandomi contro il muro. Sentii un dolore acuto e profondo all’altezza del bacino. Ebbi la sensazione che il corpo si fosse spezzato in due, come se le gambe non mi appartenessero più. Poi mi si annebbiò la vista e persi conoscenza.

Quando riaprii gli occhi vidi il volto offuscato di un uomo chino su di me. Alle sue spalle una fredda luce al neon e in sottofondo l’ululato continuo di una sirena. Mi trovavo sulla barella di un’ambulanza. Non ricordavo nulla dell’incidente.
“Cosa è successo? Perché mi trovo qui?”.
“È stato investito da un’automobile di fronte all’ingresso della ditta per cui lavora”.
Automobile? Non ricordavo niente. Sentii la testa esplodere, poi nuovamente il nulla.

Marcella era seduta accanto al letto e mi teneva la mano stretta tra le sue. Sorrise.
“Finalmente ti sei svegliato”.
“Dove siamo?” domandai ancora mezzo intontito.
“All’ospedale. Hai avuto un incidente grave, ti hanno operato”.
“Non sento le gambe”.
“È l’effetto dell’anestesia. Il medico ha detto che ci vorrà qualche ora per riacquistare la completa sensibilità degli arti inferiori”.
“Che tipo di incidente?”.
“Sei stato investito da un’automobile all’uscita del lavoro. Il conducente della macchina non si è fermato per soccorrerti, un ragazzo che passava di lì in scooter ti ha trovato sul marciapiede in un lago di sangue e ha chiamato l’ambulanza. Purtroppo non ci sono testimoni dell’incidente”.
Chiusi gli occhi e mi sforzai per recuperare il ricordo della scena dell’incidente. Non si materializzò nessuna vettura. La stanza era invasa dall’odore di verdure bollite.
“Marcella, che cosa ho?”.
“Hai una frattura delle branche ileo e ischiopubiche”.
“Cioè?”.
“Hai il bacino rotto in più punti”.
“Nient’altro?”.
“Sì. Sei stato sottoposto a un intervento chirurgico di uretroplastica”.
“Cazzo Marcella, mi sembra di parlare con un dottore! Non mi puoi spiegare con parole semplici quello che mi hanno fatto?”.
“Avevi l’uretra spezzata e ti hanno inserito un catetere”.
“Vuoi dire che piscerò attraverso un tubo di plastica? Per quanto tempo?”.
“Almeno tre settimane”.
Affondai il capo nel cuscino e restai a fissare il soffitto bianco della stanza. Era scrostato in alcuni punti. Un vecchio ventilatore fendeva l’afa e ronzava ritmicamente come una mosca instancabile. Non sentivo le gambe. Allungai una mano e l’appoggiai su una coscia.
“Tornerò a camminare?”.
“Certo! Però ci vorrà tempo”.
“Quanto?”.
“La riabilitazione sarà lunga, circa tre mesi”.
Tre mesi. Mi domandai se fosse un tempo sufficiente per essere licenziato. Sì, era fin troppo. Lavoravo come custode per quella ditta da parecchi anni e conoscevo bene i padroni, due fratelli senza scrupoli che avrebbero trovato facilmente una scusa per sbattermi la porta in faccia nonostante il contratto in regola. Le condizioni di lavoro degli operai nella fabbrica erano pessime, i turni massacranti, gli straordinari non pagati all’ordine del giorno, le malattie dei dipendenti sopportate mal volentieri dai titolari, il tutto sotto la subdola e costante minaccia della cassa integrazione. Essere licenziato a sessantaquattro anni significava avere la garanzia di aspettare la pensione per dodici mesi da disoccupato. Guardai Marcella con sconforto.
“Sarà dura”.
Mi strinse più forte la mano.
“Ce la farai”.
“Sì, ma sarà difficile. Non solo per me, sarà dura per noi. Potrebbero licenziarmi”.
Un lampo d’odio le attraversò lo sguardo.
“Sarebbe una bastardata”.
“Dimentichi che i fratelli Marzorati sono dei bastardi”.
“Non pensiamoci adesso” sospirò. “Ora devo andare, ma tornerò domani”.
Mi accarezzò la testa, mi sfiorò la fronte con un rapido bacio e uscì dalla stanza.
Mi guardai intorno. Il letto di fianco al mio era vuoto. Quelli di fronte erano occupati da due anziani che, da quando ero sveglio, non avevano ancora ricevuto visite. Entrò un’infermiera a cambiarmi la flebo e misurarmi la temperatura.
“Non ha febbre, ottimo. Cerchi di riposare, ne ha bisogno per riprendersi dall’operazione”. La voce un po’ cantilenante.
“Dove vuole che vada” replicai brusco.
Mi osservò sorpresa.
“Mi scusi, sono un po’ nervoso” mi giustificai.

Rimasto solo, ripercorsi un’altra volta gli attimi precedenti all’incidente. Nell’ultima immagine che mi ricordavo ero sul cancello che parlavo con alcuni dipendenti che avevano finito il turno. Poi il buio. A che ora era successo l’incidente? Avevo già finito di lavorare? Perché mi trovavo in mezzo alla strada? Mi avevano ritrovato dopo quanto tempo? Possibile che nessuno avesse visto niente? Avvertii un leggero formicolio alle gambe. Mano a mano che ne riacquistavo la sensibilità, aumentava il dolore intorno alla vita. Quello alla testa non mi aveva mai abbandonato da quando avevo riaperto gli occhi.

continua
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 37 - seconda parte)

Restai in ospedale venti giorni. Il decorso post-operatorio venne in parte rovinato da una fastidiosa gastrite che mi colpì alcuni giorni dopo l’intervento chirurgico. Dopo due settimane Marcella mi disse che era giunta a casa una lettera della ditta dei fratelli Marzorati. Non avevano perso tempo. Dall’ospedale San Raffaele venni in seguito trasferito nella struttura ospedaliera di San Pancrazio ad Arco, in provincia di Trento, presso la sezione di Riabilitazione Motoria. Ogni mattina venivo sottoposto a esercizi di mobilizzazione articolare e rinforzo muscolare e dopo tre settimane iniziai un allenamento deambulatorio con l’aiuto delle stampelle. Con un breve ma doloroso intervento mi venne tolto il catetere e tornai finalmente a orinare per via naturale. Un elettrocardiogramma di controllo evidenziò una necrosi anterosettale e un’ischemia subepicardica antero-laterale. Secondo i medici soffrivo di una cardiopatia postinfartuale per la quale mi suggerivano caldamente una rivascolarizzazione coronarica. Suscitando il loro stupore, rifiutai con decisione l’eventualità di un’ulteriore operazione. Non ne potevo più di restare rinchiuso in un ospedale. Non sopportavo più le infermiere troppo gentili, il cibo precotto, le visite giornaliere dei dottori, l’asfissiante loquacità dei compagni di stanza, ma soprattutto non soffrivo più gli orari e i ritmi da prigione che mi riportavano con la mente indietro nel tempo, riesumando un’epoca della mia vita che avevo accuratamente seppellito nella parte più profonda della memoria. L’unica cosa che desideravo in quel momento era tornare a casa.

La degenza nel secondo ospedale durò un mese.
Marcella si presentò puntuale a mezzogiorno. Aveva ripreso a lavorare al mercato e da quando ero stato trasferito in Trentino riusciva a venire a trovarmi solamente durante il fine settimana, ma per riportarmi a casa si era presa un giorno di ferie e si era svegliata all’alba per giungere in ospedale il prima possibile. Quando la vidi entrare ebbi la tentazione di saltare giù dal letto e correrle incontro per abbracciarla. Impiegammo pochi minuti a mettere in una borsa le poche cose che avevo e, dopo avere firmato il foglio di dimissioni, mi ritrovai finalmente all’aria aperta, nel piazzale di fronte all’ospedale. Mi fermai un attimo e feci tre lunghi respiri, poi saltellando sulle stampelle seguii Marcella verso l’uscita. Giunti a pochi metri dal gabbiottino, il tizio che vi era rinchiuso dentro ci salutò con la mano e azionò il cancello automatico. L’immagine mancante dell’incidente si materializzò improvvisa davanti ai miei occhi.
“Non mi ha investito una macchina” pensai ad voce alta.
“Cosa hai detto?”.
“Non mi ha investito una macchina” ripetei, questa volta rivolto a Marcella.
“Cosa stai dicendo, Guido. Ti hanno trovato in mezzo alla strada”.
“Mi ci hanno trascinato. Sono rimasto schiacciato dal cancello di ingresso della fabbrica”.
“Ti ha trascinato chi?”.
“Non lo so, ma credo qualcuno che lavora alla fabbrica, non vedo altra possibilità”.
“Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? È un’accusa gravissima. E poi dimmi, che motivo avevano per farlo?”.
Era come se all’improvviso fosse tutto chiaro, lampante, così evidente da sembrare impossibile che non lo avessi capito prima.
“Un incidente all’interno della fabbrica avrebbe avuto come conseguenza immediata un controllo da parte dell’ispettorato del lavoro”.
“E allora?”.
Marcella non capiva, ma in fondo non era colpa sua. Non poteva capire. Marcella ignorava che i fratelli Marzorati avevano più a cuore le sorti della loro squadra di calcio preferita che la vita degli operai che lavoravano nella fabbrica di famiglia. Non sapeva che all’interno dei capannoni non venivano rispettate in alcun modo le misure di sicurezza. Il fatto che non fossero ancora accaduti incidenti gravi e che la nostra fabbrica non avesse fornito il proprio contribuito alle agghiaccianti statistiche riguardanti i morti sul lavoro era da imputare esclusivamente al caso. Da mesi avevo segnalato alla direzione il funzionamento difettoso del cancello, ma ero stato accuratamente ignorato. Non ne avevo mai parlato con Marcella per non farla preoccupare inutilmente. Ora però mi rendevo conto che il mio incidente si sarebbe potuto evitare e sentii il bisogno di renderla partecipe della mia rabbia.
“Un’ispezione avrebbe avuto effetti disastrosi per i proprietari della fabbrica. Là dentro non si rispettano le misure di sicurezza, la vita degli operai viene messa in pericolo in continuazione e gli ispettori non avrebbero alcuna difficoltà a riscontrarlo”.
“Ma... vuoi dire che sono stati i padroni a suggerire ai tuoi compagni di simulare l’incidente?”. Gli occhi sbarrati. Era sconvolta, incredula.
“Non penso. In ogni caso lo scoprirò presto”.
“Cosa pensi di fare?” domandò timorosa.
“Telefonerò a Piero. È l’unica persona di cui mi fidi ciecamente”.

Lo chiamai da un autogrill. La mia telefonata lo colse di sorpresa.
“Guido, sei tu. Come stai?”.
Non avevo alcuna intenzione di perdere tempo con una ridicola farsa.
“Sto come potrebbe stare dopo una lunga riabilitazione una persona rimasta schiacciata da un cancello automatico”.
Silenzio. Dall’altro capo del ricevitore giungeva l’inconfondibile voce di Maria Callas. Piero, oltre ad essere un appassionato di pesca sul fiume, era un amante competente dell’opera.
“Non capisco” balbettò dopo un po’.
Persi le staffe.
“Piero *****, almeno tu, smettila con questa commedia” urlai furioso nell’apparecchio.
“Io... io... io lo sapevo che era una cazzata!” gridò.
“Sbattermi in mezzo alla strada, vero? Ma come ***** avete potuto fare una stronzata del genere!”.
Ero fuori di me. Mi accorsi che Piero era scoppiato a piangere. Quell’uomo alto un metro e novanta per quasi cento chili stava singhiozzando come un bambino. Stavo per finire il credito. Feci cenno a Marcella di passarmi altre monete.
“Piero, smettila di frignare e raccontami come sono andate le cose”.
Tirò su col naso.
“Sai anche tu che le norme di sicurezza non sono rispettate, nemmeno quelle di base. L’altro giorno ho controllato le date sugli estintori e sono tutti scaduti da almeno tre anni. Quando sei rimasto schiacciato dal cancello c’erano Donadoni e Del Re. Hanno capito subito che a un incidente sul lavoro sarebbe seguita un’ispezione e a un’ispezione sarebbe potuta seguire la chiusura della fabbrica. Eri privo di sensi, per un attimo hanno anche pensato che fossi morto. Hanno aspettato che non passasse nessuno e ti hanno adagiato sul bordo della strada. Poi sono tornati in fabbrica e hanno chiesto una mano per pulire il sangue dal cancello. Lì dentro hanno quasi tutti una famiglia da mantenere, Guido, è stata una bastardata, ma cerca di capire”. Piero raccontava concitato, senza pause, era chiaro che confessandomi come erano andate i fatti si stava togliendo un peso dalla coscienza, ed io incassavo le sue parole incapace di reagire, come un pugile suonato in balìa dell’avversario. “È capitato a loro due, ma poteva capitare ad altri. Nessuno in fabbrica ha trovato a ridire su ciò che avevano fatto. Anzi, la sensazione che ho avuto è che molti fossero perfino grati per la prontezza di spirito e il sangue freddo che avevano dimostrato. Non tutti avrebbero avuto le palle per agire così”.
A tanto era giunta la lotta dei poveri per la sopravvivenza. Ebbi la tentazione di sbattere il ricevitore sul telefono e mettere fine a quella conversazione. Inspirai profondamente.
“Grazie al sangue freddo di quei due avrei potuto morire” dissi ritrovando la calma.
“Lo so. E forse era quello che si aspettavano che accadesse. Quando si è saputo che eri sopravvissuto qualcuno ha iniziato a preoccuparsi che potessi ricordarti dell’incidente, di come erano andate le cose realmente. Poi però non succedeva nulla e la gente poco a poco si è tranquillizzata”.
“I Marzorati sono al corrente della verità?” domandai.
“No, è stata un’iniziativa di noi operai”.
Un flusso caldo si espanse per tutto il corpo. Avevo le mani viscide di sudore. La testa iniziò a girarmi, sentii la nausea strozzarmi le viscere. La Callas spezzò il silenzio che si era creato con un acuto da pelle d’oca.
“Mi hanno licenziato lo sai?”.
“Mi è giunta voce. Mi dispiace”.
“Ah ti dispiace? E dimmi, ti dispiace anche che sono ancora vivo?”.
“Guido ti prego, basta”.
“Basta lo decido io. Ti ho fatto una domanda”.
“No, sono contento”.
“E mi dici che ***** dovrei fare adesso? Denunciarvi tutti?”.
“Non pensare solamente a noi. Pensa anche alle nostre famiglie”.
Una rabbia cieca mi montò dentro ed esplose violenta come un’eruzione vulcanica.
“Ma porca puttana Piero, come ***** fai a dirmi una cosa del genere?! Pensare alle vostre famiglie? E alla mia di famiglia, me lo dici chi ***** ci pensa?”.
“Scusa, hai ragione” farfugliò imbarazzato.
“Scusa un *****. Andate tutti a cagare”. Riagganciai la cornetta con foga e sfogai la mia ira tirando un pugno contro il vetro della cabina.
Feci un riassunto della telefonata a Marcella che mi ascoltò allibita e incapace di proferire qualcosa.
Quella sera la testa mi scoppiava e rimasi sveglio fino a tardi senza riuscire ad addormentarmi. Mi alzai dal letto e andai a sedermi sul divano in sala. Fu in quel momento, con lo sguardo fisso sullo schermo spento della televisione, che decisi quello che avrei fatto e che il giorno dopo effettivamente feci. Avrei raccontato ai fratelli Marzorati la verità sul mio incidente, offrendo loro la possibilità di scegliere tra la mia riassunzione o la denuncia alla magistratura di come si erano svolti i fatti. Non avevo dubbi su cosa avrebbero scelto. Nonostante non fossero direttamente responsabili, erano comunque ampiamente coinvolti nella vicenda e avevano la coscienza sufficientemente sporca per volere evitare ad ogni costo che il nome della loro azienda finisse sui banchi di un tribunale.

Il lunedì successivo infatti ripresi regolarmente il mio posto di lavoro come custode. Gli operai entrarono in fabbrica lanciandomi rapide occhiate e abbassando immediatamente lo sguardo, come se avessero visto un fantasma. Non salutai nessuno. Per me erano tutti morti.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 38)

Ottobre 2004

Il trillo del telefono interruppe bruscamente la monotona routine pomeridiana.
Nel dicembre del 2003 si era concluso il processo per il fallimento dell’azienda di Perugia ed ero stato condannato in via definitiva a due anni di prigione per bancarotta fraudolenta. Era stato sufficiente un certificato medico che attestava le mie precarie condizioni fisiche per convincere il giudice che i problemi che avevo al cuore erano incompatibili con la durezza della vita carceraria. Mi avevano concesso gli arresti domiciliari e trascorrevo le giornate rinchiuso in casa, impegnato a fondo a non fare nulla, con il tempo che mi scorreva addosso come il moto perpetuo dell’acqua di un fiume, erodendo poco a poco la spessa e resistente scorza che le tribolate vicende della mia vita avevano contribuito a forgiare, levigando pazientemente i tratti più aspri e pungenti del mio carattere. Mi lasciavo cullare dall’illusoria sensazione che, nell’arco della mia esistenza, mi fosse ormai successo molto più di quanto sarebbe potuto accadere a una qualsiasi altra persona alla quale fosse stato concesso il privilegio di rinascere almeno un paio di volte dopo la morte. A partire dalla perdita di mia madre poco dopo essere nato, il destino, crudele e beffardo, era giunto puntuale e insaziabile ad ogni appuntamento e, in alcuni casi, gli avevo perfino dato una mano e facilitato il compito andandogli incontro. Pensavo, stoltamente, che avesse esaurito la scorta di dolore, dimenticandomi che, per alcune persone, le riserve possono essere infinite.
Mi sollevai stancamente dal divano e trascinai il mio corpo indolenzito verso l’apparecchio.
“Pronto”.
“Guido?”.
“Sono io. Chi parla?”.
“Emanuele, il figlio di Marco”.
Lomellini. Quando a metà degli anni ottanta ero tornato a vivere in Lombardia avevo riallacciato il rapporto con Marco, rapporto che si era un po’ perso durante gli anni che avevo trascorso all’Elba. Con piacere di entrambi avevamo constatato che il legame speciale che ci aveva unito in passato non si era per niente affievolito. Avevamo iniziato a rivederci sporadicamente e solamente quando nel 1990, dopo avere dedicato anima e corpo al lavoro per una vita intera, Marco decise finalmente di andare in pensione incrementammo la frequenza dei nostri incontri a un paio di volte al mese. La lontananza dal lavoro aveva iniziato presto a logorarlo lentamente, invece che recuperare energie si stava piano piano consumando. Ringiovanì all’improvviso quando si vide costretto nell’autunno del ’94 a riprendere in mano le redini dell’azienda di famiglia, anche se, potendo scegliere, lo avrebbe fatto in ben altre circostanze. L’impresa infatti, come molte altre del mondo imprenditoriale italiano, era stata travolta dallo scandalo di Tangentopoli e i figli, ai quali Lomellini aveva lasciato il comando, erano stati arrestati per corruzione. Marco, con la consueta abilità e grazie alle sue conoscenze nel mondo politico e in quello dei mezzi di informazione, era riuscito da un lato a risollevare le sorti dell’azienda, dall’altro a evitare che gran parte delle notizie sui problemi giudiziari filtrassero all’estero, dove maggiori erano gli interessi della multinazionale del cemento. Lomellini restò al timone fino alla fine degli anni novanta. L’uscita dal carcere dei figli e un enfisema polmonare lo costrinsero, suo malgrado, a cedere nuovamente il passo ai suoi eredi. Negli ultimi due anni precedenti alla condanna c’eravamo incontrati quattro o cinque volte appena. Brevi ma salutari boccate di ossigeno, così amava definirle, durante le quali ripercorrevamo con un pizzico di nostalgia gli anni trascorsi insieme, riesumando episodi e aneddoti appartenenti a un passato comune ormai lontano. Poi i contatti si erano ridotti a qualche rara telefonata e a un paio di sue visite.
Emanuele non mi aveva mai chiamato prima di allora. In più il tono di voce risuonò nel ricevitore grave e serio. Intuii immediatamente che quella telefonata avrebbe portato cattive notizie. Cercai di esorcizzare i tristi presagi simulando serenità.
“Ciao, che sorpresa! Come va?”.
“Male. Hanno ricoverato mio padre d’urgenza ieri sera”.
Avrei dovuto aspettarmelo, in fondo Lomellini aveva ottantasei anni e la sua salute versava da mesi in precarie condizioni, eppure la notizia mi colse impreparato. Mi lasciai cadere sulla sedia posta accanto al telefono.
“È grave?” domandai quando mi fui ripreso.
“Sta morendo. I medici pensano che non supererà la notte”.
Provai a dire che mi dispiaceva, ma le parole si rifiutarono di uscire e si attorcigliarono l’una con l’altra, formando un grosso nodo in mezzo alla gola.
“È ancora lucido” continuò Emanuele “e ha chiesto di vederti”.
“Sai che non è possibile, non mi posso allontanare da casa. Se mi beccano mi sbattono dentro. Mi spiace, ma non me la sento di correre il rischio. Il Vecchio capirà”.
Lo chiamavo così in intimità, tra di noi, quando eravamo soli. Temetti che il figlio potesse risentirsi, invece non ci fece caso.
“Lo so, è per questo che ho provveduto stamattina ad inviare un fax al magistrato del Tribunale di Sorveglianza sollecitando l’autorizzazione a poterti allontanare da casa per far visita a mio padre”.
Emanuele, molti anni addietro, non era riuscito a celare una profonda gelosia per l’affetto paterno che Lomellini aveva manifestato da subito nei miei confronti. Il suo prodigarsi ora per rendere possibile un ultimo incontro tra me e suo padre mi commosse.
“Ti ringrazio. E cosa ti hanno detto?”.
“Sono in attesa di una risposta. Ho aspettato a chiamarti perché speravo di poterti già dare la notizia che eri stato autorizzato, ma finora nessuno si è fatto vivo. Appena so qualcosa ti richiamo, spero solo che non ci mettano troppo tempo, non ce ne resta molto”.
“Va bene. A dopo”.
Posai la cornetta e restai a fissare il telefono, muto. Dopo alcuni minuti mi resi conto che non aveva senso rimanere lì seduto in attesa. Mi alzai e andai in sala. Ero solo in casa. Su un ripiano della scrivania vidi il pacchetto di Diana Blu di Marcella. Dall’incidente avevo smesso di fumare. Guidato da un riflesso condizionato, presi una sigaretta, l’accesi e, senza sentirne il desiderio, aspirai ed espirai tre o quattro volte, distrattamente. Provai a formare degli anelli con il fumo. Non avevo mai imparato e nemmeno quella volta riuscii nell’intento. Spensi stizzito la sigaretta nel posacenere. La pendola appesa alla parete sopra la credenza marcò le quattro. Mai come quella volta, nell’appartamento deserto, i rintocchi risuonarono come campane a morto. Pensai a tutte le volte che Marco mi aveva chiamato o mi aveva detto di presentarmi a una certa ora in un determinato luogo. Lo avevo sempre raggiunto, mi ero sempre presentato puntuale all’appuntamento. Ora invece rischiavo di non rispondere all’ultima chiamata, quella dell’addio. Sentii una fitta allo stomaco e voglia di vomitare. Ero una belva ferita rinchiusa in gabbia, sentii che se non fossi uscito da quella prigione sarei impazzito. Se mi fosse successo qualcosa, ero sicuro che Marcella avrebbe compreso il mio gesto.
Mi ero già infilato la giacca quando suonò il telefono. Corsi verso l’apparecchio.
“Pronto”.
“Il magistrato ha concesso l’autorizzazione. Ho qui con me il fax. Vieni direttamente, se dovesse fermarti una pattuglia di loro di mettersi in contatto con il Tribunale di Sorveglianza”.
“Dove?” domandai dopo aver realizzato di non sapere il posto in cui era stato ricoverato Lomellini.
“Alla Casa di Cura San Camillo. Sai dove si trova?”.
“Sì. Ci vediamo lì”.
Non avevo più guidato da quando i medici mi avevano diagnosticato un elevato rischio di infarto. Non mi sembrava eticamente corretto mettere a repentaglio la vita degli altri per i capricci del mio cuore. Chiamai Marcella sul cellulare e le feci un rapido riassunto delle ultime ore, pregandola di raggiungermi il prima possibile e accompagnarmi da Marco. Dopo venti minuti partivamo alla volta di Milano. Durante il viaggio Marcella vegliò in silenzio sui miei pensieri. Nessuno come lei era in grado di capire quando non avevo alcuna voglia di fare conversazione. Non disse nulla nemmeno quando, dopo che tre macchine ci ebbero sorpassato una dietro l’altra, le chiesi spazientito se non poteva andare un po’ più veloce. Si limitò a pigiare un po’ di più con il piede sull’acceleratore.
Emanuele mi stava aspettando nella hall della clinica. Dal sorriso appena accennato capii che ero giunto in tempo. Nell’ascensore mi informò che suo padre era sotto l’effetto dei sedativi e non era certo che riuscisse a riconoscermi. Gli altri figli di Lomellini erano in piedi nel corridoio di fronte alla stanza. Erano soli, segno che avevano voluto mantenere il massimo riserbo sul peggioramento delle condizioni di salute del padre. Dopo una breve stretta di mano di circostanza, sospinsi la porta ed entrai nella stanza. Il letto su cui era coricato Lomellini era sul lato sinistro e la luce soffusa di un paralume sul comodino lo faceva emergere dalla penombra. Mi avvicinai con passo felpato. Il viso di Marco era pallido e avvizzito, con la pelle grinzosa come la buccia di una prugna secca. Una lunga proboscide di plastica trasparente collegata a una macchina lo aiutava a respirare. Il lento battito cardiaco era scandito da un ritmico suono elettronico che sembrava dovesse interrompersi da un momento all’altro. Un crocefisso di legno scuro, solo in mezzo alla parete bianca, vigilava attento dall’alto il sonno del moribondo. L’uomo sicuro e ottimista, convinto che nulla gli fosse precluso, l’imprenditore abile e ambizioso, capace di trasformare una piccola azienda a conduzione famigliare nella più grande multinazionale del cemento al mondo, colui che sosteneva, senza vergognarsene, che i limiti bisogna imporli agli altri altrimenti sono gli altri che li impongono a te, giaceva ora debole e indifeso, fragile come un antico vaso di terracotta, di fronte all’unico e ineludibile ostacolo che nessuno, nemmeno il più potente degli uomini, sarebbe stato in grado di sormontare. Presi una sedia vicino alla finestra e la sistemai con cautela accanto al letto.
Dopo alcuni minuti Marco si destò. Si volse a fatica verso di me e mi lanciò uno sguardo assente.
“Sono io, Guido” sussurrai.
Il mio nome non riempì il vuoto dei suoi occhi, li attraversò senza lasciare traccia.
“Guido, sono Guido”.
Immobile. I suoi occhi restarono vacui, i miei si colmarono e traboccarono di gocce salate. Gli presi la mano e iniziai ad accarezzarla. Aveva la pelle sottile come un foglio di carta velina. Non reagì, era come se i sensi lo avessero abbandonato.
“Certo che andartene così... adesso... potevi almeno aspettare che finissi di scontare ‘sti due anni... manco al funerale mi faranno venire...”.
Un sibilo prolungato dell’elettrocardiografo annunciò che il cuore di Marco aveva cessato di battere. Trascorsi alcuni istanti, la porta si aprì e un’infermiera entrò nella stanza seguita da un medico, il quale, dopo aver constatato il decesso del paziente, con un gesto meccanico e freddo ne richiuse le palpebre. Il cinismo di quell’uomo mi ferì profondamente, ma in fondo per me Marco era come un padre, per lui solo uno dei tanti che erano entrati vivi nel suo reparto e ne erano usciti cadaveri. Negli attimi successivi una spessa sfera di ovatta mi isolò da ciò che stava accadendo nella camera. Solamente quando udii lo squillo di un telefonino realizzai che Emanuele stava cercando di dirmi qualcosa.
“... cosa hai detto scusa?” domandai imbarazzato.
“È incredibile. È come se il Vecchio ti avesse aspettato per morire”.
Accennai un sorriso e lo abbracciai. La stretta mi soffocò e sentii il bisogno di aria fresca. Feci le condoglianze agli altri figli e mi avviai verso l’uscita della clinica. Marcella aveva preferito aspettarmi in macchina. Mi accomodai sul sedile e chiusi la portiera.
“Come sta?”.
“È morto pochi minuti fa”.
Mi appoggiò una mano sul braccio.
“Mi dispiace”.
“Lo so”.
“Cosa vuoi fare?”.
“Torniamo a casa”.
Tre giorni dopo si svolse il funerale. Il magistrato del Tribunale di Sorveglianza questa volta mi negò l’autorizzazione. La sera Marcella mi raccontò che aveva trovato la basilica gremita da una folla composta e silenziosa. Parenti, amici e curiosi si erano riuniti per un ultimo saluto collettivo. Di politici invece non se n’erano visti. Evidentemente i guai giudiziari della famiglia, nonostante fossero passati diversi anni, avevano lasciato il segno e nessuno, nel mondo della politica, aveva avuto piacere che il proprio nome potesse venire accostato a quello dei Lomellini.

Era trascorso un mese esatto quando ricevetti una nuova telefonata di Emanuele. Suo padre, nel testamento, aveva lasciato scritto di farmi avere un vitalizio di mille euro al mese. Marco sapeva tutto della mia nuova famiglia, dei problemi che avevamo dovuto affrontare anni addietro con Leo, dei miei recenti arresti domiciliari. Sapeva anche che i soldi non sono tutto nella vita, ma possono aiutare a gestirla e affrontarne le difficoltà con maggiore serenità. Quando era ancora vivo non me lo aveva mai proposto, forse perché sapeva che non avrei accettato. Per orgoglio, non certo perché quei soldi non ci facessero comodo. Inserendolo tra le sue ultime volontà e non potendone discutere, mi sottraeva automaticamente la possibilità di rifiutare. Una volta ricevuto il denaro, lo divisi equamente tra i figli di Marcella. E così feci per tutte le rate successive.
 

Diego Repetto

New member
Il baco e la farfalla (capitolo 39)

Dicembre 2006

Controllo per l’ennesima volta di avere inserito le pile nel registratore. Ci sono, quattro da 1,5 volt. Lo guardo, è un vecchio registratore bianco. Chi lo avrebbe mai detto che nell’era del compact disc sarebbe tornato utile! Lo infilo nella borsa, insieme a due cassette da novanta. Mi chiedo se centottanta minuti possano bastare per una vita intera. Forse no, ma quello sarà più o meno il tempo che avrò a disposizione. Sono già le tre passate, il viaggio durerà all’incirca un’ora e mezza, ma potrebbe esserci nebbia e potrei impiegarci di più, e ho promesso a Cecilia che stasera saremmo andati al cinema al secondo spettacolo. Non abbiamo avuto tempo di scegliere il film, le ho chiesto di farlo lei, per fortuna abbiamo gli stessi gusti. Inserisco “Riportando tutto a casa” dei Modena City Ramblers nell’autoradio. Ne hanno fatti altri, ma quel primo disco resta di gran lunga il migliore. Metto in moto e parto.
Dopo i Giovi l’autostrada fila via dritta verso la pianura. Tiro un sospiro di sollievo, di nebbia per il momento non se ne vede. L’aria limpida e le tre corsie rappresentano un’insidiosa tentazione per il piede destro, ma non ho fretta, all’appuntamento manca ancora un’ora e un quarto. Forse ho anche il tempo di fermarmi a un autogrill per un caffè. Le note del folk irlandese che si aggirano allegre per l’abitacolo prendono per mano i miei pensieri e li riportano indietro fino all’inizio di questa avventura. Esattamente quattro sere fa.
È la vigilia di Natale. Nella mia famiglia si è sempre festeggiato il venticinque e il ventiquattro è sempre stato un giorno come gli altri. A cena mi ritrovo solo con mia madre. Sono contento, non abbiamo più molte occasioni per stare insieme da quando mi sono trasferito a vivere all’estero per inseguire un futuro da ricercatore che in Italia non vedevo possibile. La luce che si sprigiona dai suoi occhi mi confida che anche lei lo è. Così, senza un motivo apparente, inizia a raccontarmi la storia della sua famiglia. Già altre volte lo ha fatto, ma stavolta è prodiga di particolari e il racconto si arricchisce di dettagli finora sconosciuti. Sembra quasi che stia facendo un esercizio mnemonico per fissare in testa fatti e persone. La conferma me la dà lei stessa, mi dice che è un peccato che si perda la memoria di ciò che è accaduto in passato, che ci si dimentichi da dove sono sgorgate e quale percorso hanno compiuto le acque che noi, oggi, stiamo navigando. Che non si sappia perché la corrente a volte è calma e altre volte invece turbolenta. Perché le acque hanno quel colore e quell’odore. Perché a volte sono nitide e trasparenti e altre volte invece putride e contaminate. E mi racconta di quel suo fratellastro che io non conosco, che ho visto una sola volta, fugacemente, quando avevo cinque anni. Una persona della quale lei non mi ha mai detto molto in passato. Ora, invece, me ne parla. Mi racconta di tutto ciò che gli è accaduto nella vita, quello per lo meno di cui lei è a conoscenza, ma, precisa, sicuramente ci sono un sacco di cose che lei non sa. Di quanto la sua vita sia stata avventurosa e segnata dal destino, tanto che ci si potrebbe scrivere un libro. Mi racconta dell’ultima disavventura che lo ha colpito poco più di un anno fa e di cui sa poco. Pare che sia stato indagato per un traffico illecito di Mercedes dalla Germania, ma appare alquanto improbabile che sia effettivamente responsabile dato che all’epoca dei fatti di cui è accusato si trovava agli arresti domiciliari, per un’altra vicenda, altrettanto complessa. La vedo accendersi. In questo mondo, si sfoga con amarezza, sono sempre i più deboli a pagare il prezzo più alto. Sono coloro che non possono volare ad essere presi ogni volta come capro espiatorio. E non volano non perché non vogliano, ma perché il fato o, in molti casi, qualcuno più potente ha spezzato loro le ali. Dopo essersi sfogata, Giovanna continua più calma. Lui sì che ha buona memoria, mi dice. Si ricorda tutto. Dovresti incontrarlo e farti raccontare, e poi magari scrivere.
Quando lo chiamo, il giorno dopo, sembra felice all’idea di un nostro incontro. Mi offro di andare io da lui, a Vigevano, dove vive con l’attuale compagna. Quel poco che mi ha raccontato mia madre ha scatenato in me una curiosità onnivora nei confronti di quest’uomo che sto per conoscere. Provo a immaginarmelo, mia madre mi ha detto che assomiglia a mia nonna. Ma Costanza è morta quando avevo tre anni, di lei conservo solamente uno sbiadito ricordo fotografico.
Guardo l’ora, sono in anticipo, mi fermo per un caffè e per fare benzina. Prima di risalire in macchina chiamo Cecilia. Andiamo a vedere un film di Virzì, se riesco a tornare in tempo. Per fortuna la stazione è ben indicata. Eccola. Sono dieci minuti in anticipo. Scendo, mi guardo intorno, cerco di fare capire che sto aspettando qualcuno nella speranza di essere riconosciuto. Riguardo l’orologio, mi accorgo di essere un po’ nervoso. È normale, mi dico. Passano i minuti, lenti. Qualcuno ha urlato il mio nome, mi volto. Un uomo affacciato al finestrino di una Fiesta nera mi fa un cenno con la mano. Al volante c’è una donna con i capelli ricci. Entro in macchina e li seguo fino a una palazzina di periferia. Parcheggio, esco e resto in attesa. Mi viene incontro.
“Ciao, ben arrivato”.
“Grazie, ciao”.
Non ci siamo presentati. Non ce n’è bisogno, lui sa perfettamente chi sono io e io chi è lui. Secondo i miei calcoli dovrebbe avere sessantotto anni, ma ne dimostra qualcuno in più. Ha un viso scavato e triangolare che ricorda L’Urlo di Munch. Mi presenta invece, come suo nipote, alla donna che lo ha accompagnato. Si chiama Leo. Saliamo con l’ascensore fino al quinto piano. Entriamo in casa. La televisione è accesa, il volume alto, un bambino grida correndo da una stanza all’altra dietro a un aeroplanino rosso di plastica che tiene in mano, con il braccio teso in avanti. Mi viene presentata Marcella, poi è il turno di Carlotta. Mi chiedo come faremo a parlare in mezzo a quella confusione. Fortunatamente mi invita a entrare in cucina e prima di chiudere la porta invita gli altri a non disturbarci. Prendiamo posto uno di fronte all’altro, ai due lati del tavolo. Al telefono gli avevo accennato il motivo della mia visita, glielo ripeto. Sospira e mi sorride.
“Da dove vuoi che parta?”.
“Dall’inizio”.
Rimane pensieroso qualche istante, poi incomincia a parlare.
“Aspetta!” lo interrompo subito. Tiro fuori il registratore dalla borsa e lo posiziono sul tavolo vicino a lui. Quasi me ne dimenticavo. Schiaccio il tasto di registrazione.
“OK, quando vuoi”.
Appoggia i gomiti sul tavolo e incrocia le dita delle mani, sotto il mento. Si schiarisce la voce.
“Il mio primo ricordo è una stanza, io sono sdraiato su un letto e sento un medico che dice a mio padre: si salverà, non si preoccupi. Il bambino non è in pericolo di vita....”.




Nota dell’autore

Quando mi è stata raccontata questa storia sono stato profondamente colpito dalla descrizione delle dure condizioni che il protagonista ha subito durante gli anni trascorsi in prigione.
Oggi, a distanza di cinquant'anni, la situazione delle carceri italiane non è migliorata e in alcuni casi, causa il sovraffollamento, addirittura peggiorata. Dal 2000 sono oltre 600 i detenuti che si sono tolti la vita. Nel solo 2010 sono stati segnalati 66 suicidi tra i detenuti e 7 tra gli agenti di polizia penitenziaria, a significare l’invivibilità di un sistema che non investe per migliorare la situazione. Nelle carceri italiane si trovano attualmente 67.800 detenuti per una capienza massima di 44.000. Il 40% è in attesa di giudizio.
La mia personale speranza è che tutto ciò possa al più presto cambiare.


Ringraziamenti

Grazie a Giancarla per avermi chiesto di scrivere questa storia e grazie a Luciano per avermela raccontata.
Grazie a Franca per aver creduto in me fin dall’inizio.
Grazie infine e soprattutto a Chiara per il suo appoggio costante, per gli utili consigli durante la scrittura, per aver riletto con pazienza il manoscritto e per il tempo che avremmo potuto trascorrere insieme a cui ha rinunciato per darmi la possibilità di scrivere questo libro.
 

Minerva6

Monkey *MOD*
Membro dello Staff
Recensione postata in Piccola biblioteca

Ho letto con piacere questo romanzo (pubblicato nel 2011) di un autore emergente che si è presentato qui sul forum e che da subito è riuscito a colpire la mia attenzione sia per la sua provenienza geografica, la Liguria (mia nonna materna era di origini piemontesi, ma è vissuta anche lì, dove mia mamma stessa trascorreva le vacanze estive da ragazza e dove ho ancora dei parenti), sia per la storia che con la presenza dei partigiani è stata capace di coinvolgermi fin dall'inizio.
Ma non crediate che si svolga tutta solo nel passato, perché dal '43 prosegue fino al 2006 ed infatti le tematiche trattate sono ancora attuali.
E' stata piacevole anche l'esperienza di leggere capitolo dopo capitolo qui sul forum; da parte mia ho preferito questa modalità di lettura per accrescere ancora di più il mio interesse, ma poi ho deciso di acquistare lo stesso il libro che consiglio vivamente.
Lo stile è scorrevole, capace di coinvolgere il lettore e di farlo affezionare alle sfortunate vicende del protagonista (essendo una storia vera, poi risulta ancora più facile). L'autore ha ben saputo raccogliere la sua testimonianza e renderla tale da far appassionare pagina dopo pagina, mantenendo viva la curiosità e la partecipazione.

Ora aspetto il prossimo libro :wink: !
 

Diego Repetto

New member
Il baco e la farfalla arriva in Germania!

Venerdì 25 luglio, alle ore 19.00, presenterò presso l'Accademia delle Belle Arti di Stoccarda il mio romanzo Il baco e la farfalla.
Con preghiera di diffusione, soprattutto se conoscete qualcuno da quelle parti. Grazie!
Ciao
Diego

Diego Repetto - writer: Il baco e la farfalla arriva in Germania!

Literatur / Literatur, Philosophie und Geschichte / Lesung

Buchvorstellung in Italienisch mit dem Autor Diego Repetto, basierend auf dem Leben von Guido Tommasi.

"Il baco e la farfalla" (Die Raupe und der Schmetterling"), 2011 in Italien von Press Edizioni herausgegeben, ist der erste Roman von Diego Repetto, junge Wissenschaftler aus Genua mit großer Leidenschaft für die Literatur.

Das Buch basiert auf eine wahre Geschichte, denn Guido Tommasi - in dem Roman unter falschem Namen - ist ein Verwandte des Autors.

Moderation: Patrizia Caracciolo

Fri, 25.07.2014, 19:00 Uhr

Academie der schönsten Künste
Charlottenstraße 5
70182 Stuttgart
S-Mitte
 

wolverine

New member
ehi ciao! anche io ho iniziato a scrivere e a pubblicare due anni fa, ma per lo più scrivo cose che forse piacciono solo a pochi, la casa editrice con la quale collaboro è indipendente...darò un'occhiata al tuo libro, anche perché una ragazza che conosco me ne ha parlato bene...farò sapere a questa mia amica che per le ferie da lavoro sarà da quelle parti. :wink: in bocca al lupo!
 

Bianca

The mysterious lady
Anche io riporto la mia recensione.

Anche io ho letto questo libro di Repetto Diego. Genovese di nascita, fisico, ricercatore e scrittore per passione ha vissuto vari anni all'estero. Da un pò di anni è tornato e vive a Genova con moglie e figli. In questo suo primo libro, racconta la storia incredibile e travagliata della vita, di un parente, riferitogli dalla madre.

L'ho trovato un bel libro dalla storia, interessante, coinvolgente e a volte commovente. La scelta del titolo mi è piaciuta in modo particolare, molto originale e significativo. Anche io come Minerva lo consiglio. ;)
 

Diego Repetto

New member
Ciao Bianca,
grazie per la "recensione", mi fa piacere che Il baco e la farfalla ti sia piaciuto.
Ho inserito il tuo commento anche sul mio blog ("i commenti dei lettori").
Diego Repetto - writer
A presto
Diego

Anche io ho letto questo libro di Repetto Diego. Genovese di nascita, fisico, ricercatore e scrittore per passione ha vissuto vari anni all'estero. Da un pò di anni è tornato e vive a Genova con moglie e figli. In questo suo primo libro, racconta la storia incredibile e travagliata della vita, di un parente, riferitogli dalla madre.

L'ho trovato un bel libro dalla storia, interessante, coinvolgente e a volte commovente. La scelta del titolo mi è piaciuta in modo particolare, molto originale e significativo. Anche io come Minerva lo consiglio. ;)
 
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