Repetto, Diego - IL BACO E LA FARFALLA - Un'incredibile storia vera

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 6) - parte seconda

-continua-

Dopo aver ascoltato con attenzione un breve riassunto della mia vita ed essersi fatta raccontare come ero giunto a Camogli, Stefania, la sorella di mia madre, visibilmente emozionata, mi invitò a seguirla.
“Andiamo, ti accompagno da tua madre”.
Lungo la strada mi raccontò che la loro famiglia non era originaria di Camogli. Mia nonna era bergamasca e dopo la morte del marito si era trasferita in Liguria con i quattro figli. Nonostante un titolo da segretaria d’azienda, giunta in riva al mare aveva rinunciato a cercare un lavoro che l’avrebbe rinchiusa in un ufficio e aveva speso tutto ciò che possedeva per acquistare un piccolo peschereccio. Il commercio del pesce si era rivelato particolarmente redditizio e dopo qualche anno la monoflotta si era arricchita di una nuova imbarcazione, il Barracuda. Quella che sembrava una macchina perfetta per fare soldi si era inceppata il giorno in cui il medico le aveva diagnosticato una malattia incurabile. I due pescherecci furono venduti per poter fare arrivare ogni settimana dalla Francia una costosissima medicina, rivelatasi utile solamente a prolungare di qualche anno la sua agonia.
Incontrammo casualmente Costanza a metà del lungomare. Mia zia mi prese per un braccio e mi indicò una donna a una decina di metri che avanzava verso di noi. Non era sola. Al suo fianco una bambina saltellava da un piede all’altro cercando di evitare le linee che separavano i vari lastroni di pietra. Spostai nuovamente lo sguardo sulla figura adulta. Era una donna bellissima. I capelli d’ebano le sfioravano le spalle e incorniciavano un viso latteo in mezzo al quale spiccavano due sottili labbra scarlatte. Ne rimasi abbagliato e per un attimo dimenticai tutto il rancore che avevo covato nei suoi confronti negli ultimi anni. La delusione fu grande però quando mi guardò con indifferenza e si rivolse alla sorella. Non mi aspettavo certo che mi riconoscesse, non avrebbe potuto, ma avrei voluto almeno che rimanesse colpita da qualcosa in me come io lo ero stato dalla sua bellezza.
“Costanza, questo ragazzo è Guido”.
Poi, vedendo che non reagiva, ripeté: “Guido”.
Non se l’aspettava, era stata colta di sorpresa. Era evidentemente imbarazzata. Non sapeva cosa dire. Avrebbe potuto abbracciarmi, in silenzio. E in quell’abbraccio si sarebbero sciolte come neve al sole tensioni e paure. I dubbi sarebbero svaniti improvvisamente, schiantati dall’umanità e dal calore di quel semplice gesto d’affetto. Non lo fece. Rimase a guardarmi, inebetita, e dopo qualche istante, dalle labbra socchiuse, uscì un asettico:
“Sei arrivato”.
La freddezza con cui mi accolse agì da detonatore per la mia rabbia.
“Se aspettavo te, non ci saremmo mai incontrati“ risposi sprezzante fulminandola con uno sguardo carico di fiele.
Incurante del tono delle mie parole, si volse verso la bambina, che nel frattempo aveva smesso di saltellare e fissava incuriosita la scena.
“Giovanna, lui è Guido, tuo fratello”.
Alcune reazioni non appartengono al mondo dei bambini. Un adulto si sarebbe stupito, avrebbe spalancato occhi e bocca, incredulo. Le reazioni dei bambini invece sono spesso disarmanti, soprattutto nei momenti più drammatici. Assorbono in modo apparentemente indolore il trauma, conservandolo gelosamente per anni, facendolo fermentare lentamente fino a quando, una volta cresciuti, si trovano costretti a pagarne le conseguenze sottoforma di insicurezze, fobie, gelosie e paranoie. I genitori molte volte se ne dimenticano, non riflettono su ciò che dicono e fanno, e si stupiscono quando i figli, da grandi, decidono di superare i traumi infantili con l’aiuto di uno psicologo. La sorpresa è dovuta al fatto che nel momento del trauma i bambini quasi sempre ti spiazzano. Giovanna, tutt’altro che sconvolta per aver vissuto nove anni pensando di essere figlia unica, mi sorrise e con voce candida disse:
“Ciao. Vuoi giocare con me a “saltarello”?”.

L’innocenza della sua domanda aiutò a stemperare la tensione. Ci avviammo verso casa di mia madre. Chiese alla sorella di restare con Giovanna e mi invitò a seguirla in cucina. Chiuse la porta, si sedette dall’altro lato del tavolo e rimase ad osservarmi, come paralizzata. Nemmeno io sapevo cosa dire. Ero felice di averla trovata, ma non riuscivo a comunicarglielo. Né a parole, né a gesti, e credo neppure con lo sguardo. Allo stesso tempo non riuscivo a liberare le domande che tanto mi avevano assillato nelle ultime settimane. Trascorse un minuto, forse due, poi mia madre allungò il braccio e depose il dorso della mano sul tavolo, di fronte a me. Accolsi l’invito e adagiai il mio palmo sul suo. Avvicinò la mano rimasta libera, strinse forte la mia tra le sue e si sciolse in un pianto contagioso.

Le raccontai della poliomielite, della vecchia strega, di come era stato ammazzato papà. Le parlai degli anni trascorsi alla Casa Svizzera, della signora Milton e di come era nato il desiderio di incontrarla. Non le chiesi nulla della mia nascita e di perché se n’era andata. Mi mancò il coraggio. Mi ascoltò attenta, senza interrompermi. Rise quando le raccontai come il vecchio pescatore mi avesse fatto cambiare nuovamente idea. “... quando mi ha visto, la nonna mi ha riconosciuto, ha detto che sono la tua copia”.
Restò a pensare in silenzio, un attimo, poi mi sorrise con tenerezza materna.
“Perché non ti trasferisci a vivere qui con noi?”.

Due giorni dopo scendevo alla stazione di Camogli con la solita valigia piena delle solite poche cose. Mi accompagnava l’illusione di poter far parte finalmente di una famiglia normale. Il direttore della Casa Svizzera mi aveva salutato facendomi capire che avrei trovato le porte dell’istituto sempre aperte, ma il suo abbraccio forte e prolungato mi sembrò molto più un addio che un arrivederci.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 7)

Settembre 1952

Le speranze di una tranquilla e serena vita famigliare vennero frustrate fin dall’inizio. Il rapporto con mia madre era logorato da continue tensioni e perfino gli episodi più insignificanti erano fonte di discussioni accese e dolorose. Costanza si dimostrò presto incapace di compiere nei miei confronti quei gesti d’affetto che una madre abitualmente rivolge ai propri figli. Una sera, prima di addormentarmi, avrei avuto piacere di un suo bacio. Lo desideravo, ne sentivo il bisogno. Decisi di vincere il mio orgoglio e chiederglielo apertamente. La chiamai. La sua risposta fu così brusca che mi strozzò in gola le parole. Mi morsi il labbro, ingoiai l’amarezza e non dissi nulla.
Usciva presto ogni mattina per andare a vendere il pesce al mercato di Nervi e rientrava nel tardo pomeriggio. Un lavoro faticoso, soprattutto d’inverno. Durante il nostro primo incontro ero rimasto impressionato dalla ruvidezza delle sue mani, segnate indelebilmente dalle ore trascorse a pulire il pesce con l’acqua gelida. Rimasi presto colpito dalla sua generosità. Quando preparava la minestra, era solita farne due pentole. Una per noi, una che mi dava da portare ai vicini del piano di sopra che, quasi contemporaneamente, si erano ritrovati con un figlio in più e un lavoro in meno. Un giorno Giovanna si fermò a pranzo da loro e quando rientrò in casa disse candidamente:
“Mamma, chiedi alla Ketty come fa la minestra. La sua è molto più buona della tua”.
Con Giovanna mi trovavo bene. Non sembrava particolarmente turbata dalla mia presenza. Era una bambina piuttosto timida e riservata. La sua tranquillità si contrapponeva alla mia esuberanza. Eravamo come il giorno e la notte. I cinque anni che ci separavano impedirono che diventassimo compagni di giochi, ma non sorsero mai grandi problemi nel nostro rapporto, sempre sereno e condito ogni tanto da qualche sprazzo di dolcezza.
Suo padre, Vincenzo, mi accolse come un secondo figlio. Era un bell’uomo, dal fisico asciutto e l’abbigliamento impeccabile. Aveva un viso magro, i capelli neri, gli occhi scuri e intelligenti e un paio di baffi sottili che lo facevano assomigliare ad Amedeo Nazzari. Ogni mattina dedicava una ventina di minuti alla cura del viso. Si radeva la barba e ritoccava i baffi con precisione chirurgica. Non aveva potuto sposare Costanza in quanto già sposato in precedenza con un’altra donna. Pur trovandosi costretta ad accettare la convivenza con un uomo senza il privilegio di vedere riconosciuta la loro relazione di fronte a Dio e alla legge, mia madre gli aveva dato, prima di Giovanna, altri due figli, morti per malattia durante i primi mesi di vita. Lavorava sulle navi come pompiere di bordo ed era spesso via per lunghi periodi. Quando ritornava dai viaggi portava sempre alcuni regali senza fare distinzioni tra me e Giovanna e questo particolare, unito al fatto che con me era sempre gentile e premuroso, me lo fece presto considerare come un padre adottivo. Ricordo la prima volta, quando ci portò un paio di ciabatte chiuse dietro con il pon pon sul tallone, a lei giallo e a me rosso. Ero felice. Ma i regali più belli furono senza dubbio una batteria dal Brasile e un kimono con le frange dorate dal Giappone.
Un giorno mi assalì la malinconia per una sua prolungata assenza e chiesi a mia madre:
“Perché Vincenzo naviga? Se lavorasse a terra non sarebbe costretto a stare lontano per tutti questi mesi”.
“Vincenzo non ha sempre navigato. Un tempo era autista, guidava gli autobus. Un lavoro ben pagato e non particolarmente faticoso. Poi un bel giorno gli dissero che per continuare a lavorare doveva essere iscritto al partito fascista. Piuttosto che rinnegare le sue convinzioni politiche, preferì rinunciare al lavoro. E così accadde per tutti i lavori successivi. Iniziava a lavorare e quando gli veniva chiesta la tessera del partito, il giorno successivo non si presentava e incominciava la ricerca di un nuovo lavoro. Ne ha cambiati una decina. Fino a quando gli è stata offerta la possibilità di lavorare a bordo di una nave i cui proprietari sono inglesi. Pagano bene, ma soprattutto non si preoccupano se sei fascista o comunista”.
Nel primo anno trascorso alla Casa Svizzera avevo incontrato un paio di volte il fratello di mio padre. Mi aveva raccontato di Mussolini, della resistenza, del nazismo, cercando di descrivere con parole semplici il periodo storico in cui era vissuto mio padre e di contestualizzare la sua morte. A premere il grilletto era stato un commissario dei carabinieri. Era l’assassino materiale, su questo non avevo dubbi. Ma non era lui il responsabile della situazione sociale che si era creata prima, durante e dopo la guerra. In questo senso, non era lui che aveva la responsabilità morale. Me ne ero convinto negli ultimi mesi, cercando una risposta a una delle domande che mi avevano travolto quattro anni prima all’ospedale.
“È il secondo padre che mi rubano i fascisti” commentai sconsolato scuotendo la testa.

Verso metà settembre iniziai a lavorare sui battelli per Punta Chiappa e San Fruttuoso. Non avevo mai fatto il marinaio, ma imparai presto i pochi compiti che dovevo eseguire a bordo. Il lavoro si svolgeva quasi esclusivamente durante la fase di arrivo, in cui si doveva assicurare il battello alla banchina, e di partenza, quando si slegavano i cavi dalle bitte e bisognava saltare rapidamente sul battello prima che fosse troppo lontano dal molo. Prima della partenza vendevo i biglietti per il viaggio. Durante la traversata invece avevo la possibilità di riposarmi e trascorrevo il tempo osservando i turisti e cercando di immaginare come potessero essere le loro vite. La signora ricoperta di gioielli viveva sicuramente in un favoloso castello in compagnia di giovani amanti. L’uomo con la barba bianca era quasi certamente un pittore, o forse uno scultore. La donna dallo sguardo triste che teneva per mano il bambino dai riccioli biondi era probabilmente rimasta vedova da poco tempo. I due giovani con gli occhi a cuoricino erano giunti fino al mare in luna di miele. La coppia e i due figli erano semplicemente ciò che avrei desiderato anche per me stesso, una famiglia felice. Un desiderio legittimo, pensavo, eppure mai come in quei giorni mi era sembrato un obiettivo irraggiungibile.

Per lavorare sui battelli avevo dovuto fare un libretto speciale per cui mi era stato chiesto, tra le altre cose, il documento di identità. Ogni volta che leggevo “figlio di Pietro Tommasi e n.n.” venivo investito da una lacerante tristezza. E così accadde anche quella mattina. Mentre osservavo il comandante del porto prendere nota dei miei dati, decisi che avrei chiesto spiegazioni, in fondo era un mio diritto. La sera, finita la cena, aspettai che Giovanna andasse a dormire e dissi a mia madre che volevo parlarle.
“Perché quando sono nato non mi hai riconosciuto?” le domandai a bruciapelo.
Non sembrava sorpresa, era come se sapesse che prima o poi quella domanda sarebbe arrivata.
“È una storia amara” rispose.
“Non mi importa. Ho il diritto di sapere”. Ero convinto di essere ormai vaccinato contro il dolore.
“Non volevamo un figlio, non ancora. Non eravamo sposati. Ero così giovane, non ero nemmeno maggiorenne. La mia gravidanza ci colse di sorpresa. La tua nascita ha sconvolto i precari equilibri su cui si basava la relazione tra me e tuo padre”.
Mi sbagliavo, al dolore non ci si abitua mai. Uno scherzo crudele del destino, un figlio indesiderato, ecco cosa ero. Sentii le gambe cedermi e mi accasciai su una sedia.
“Ci conoscevamo appena” continuò senza compassione. “Non avevamo costruito nulla. Non eravamo pronti per avere un figlio. Ma soprattutto non eravamo in grado di decidere autonomamente e Pietro seguì il consiglio dei suoi genitori. Gli dissero che ti avrebbero cresciuto loro, che si sarebbero presi cura di te come un figlio. Mia madre era vedova, era sola e con quattro figli da sfamare. Pensarono, credo in buona fede, che né io né lei saremmo state in grado di prenderci cura di te. Convinsero tuo padre a riconoscerti, a darti il suo nome e a portarti in casa loro”.
Avrei voluto scappare da quella stanza, ma la sua voce riecheggiò ancora inchiodandomi alla sedia e penetrò senza resistenza nella profonda ferita che mi si era aperta in mezzo allo stomaco.
“Pietro mi abbandonò. Da un giorno all’altro. Senza darmi alcuna spiegazione”. Separava le frasi, come se, attraverso le pause, volesse darmi il tempo di assorbirle tutte. “Non volle più incontrarmi. Non ho mai capito perché e non gliel’ho mai perdonato”.
Stava demolendo l’immagine che avevo di mio padre. Per me era sempre stato un uomo buono, coraggioso, giusto. Ero messo di fronte a una nuova verità sulla mia infanzia. O meglio, a un’inaspettata e desolante versione dei fatti che, data la morte di mio padre, non poteva più essere né confermata né smentita. Nel dubbio, la rifiutai.
“Non sarà stata una sua decisione, o almeno non solo sua. E poi tu, scusa, non hai fatto niente? Non mi hai più cercato? Sono trascorsi quattordici anni” dissi. “Quattordici anni” ripetei.
Sorrise amaramente.
“Ero poco più di una ragazza. Non lavoravo ancora. Forse ti sembrerà assurdo, ma anch’io mi ero convinta che per te fosse meglio restare in casa dei tuoi nonni paterni. Per il tuo bene”.
Non era la prima volta che persone che mi erano vicino avevano preso delle decisioni sul mio conto convinte di agire per il mio bene, causandomi invece tormento e sofferenza. Bisognerebbe essere comprensivi in questo caso. Ma in quel momento proprio non ci riuscivo, ero in balìa dell’odio che avevo provato durante troppi anni per quella donna che, per quanto mi sforzassi, non ero capace di accettare come madre. E poi c’era qualcosa che non quadrava. Se era vero che i genitori di mio padre gli avevano detto che si sarebbero presi cura di me, perché all’età di cinque anni ero stato affidato alla madre della sua compagna? Insistetti con tono inquisitorio.
“E quando lo hanno ammazzato? Nemmeno allora ti sei fatta viva”.
La voce dura, lo sguardo severo. Ero un giudice che aveva già scritto la sentenza di colpevolezza. Costanza avrebbe potuto dire qualsiasi cosa a sua discolpa, ma sarebbero state tutte parole inutili. Solamente la confessione del crimine dell’abbandono avrebbe messo fine a quell’interrogatorio.
“Durante i primi anni, dopo che ti avevano portato via, per sopportare l’angoscia e lo smarrimento ho provato a dimenticare che avevo un figlio”. Le lacrime iniziarono a rigarle il viso. “Quando ho letto sul giornale della morte di Pietro è riaffiorato improvvisamente un passato che ero riuscita con fatica a seppellire in un angolo recondito della memoria. Mi è balenato il pensiero di cercarti per sapere come stavi, dove eri, con chi vivevi. Ma con Vincenzo stavo bene. Eravamo felici. Ero finalmente serena, dopo tanta sofferenza. E Giovanna aveva quattro anni. Come madre mi sentii in dovere di proteggerla. Non me la sono sentita di iniziare una ricerca che con tutta probabilità sarebbe risultata difficile, lunga e dolorosa”.
“Il dovere di una madre è prendersi cura di tutti i suoi figli” replicai secco. Mi alzai e mi avviai verso la porta di casa. Avevo bisogno di aria fresca e di restare solo. Prima di uscire mi voltai.
“Io ci ho messo un giorno solo a trovarti. Non è stato né lungo né difficile”. Però è vero, pensai mentre scendevo le scale, è stato doloroso.

Mi ero immaginato tante volte questa conversazione, soprattutto da quando era nato il desiderio di conoscere mia madre. Mi ero immaginato il momento in cui le avrei fatto le domande che così a lungo mi avevano tormentato. Pensavo che non sarebbe stato facile. E così in effetti era stato. Avevo sempre avuto però l’illusione che una volta sapute le risposte mi sarei sentito sollevato, come quando ci si leva un enorme peso dallo stomaco e ci si sente leggeri e più che camminare si ha la sensazione di volare. Invece, mentre percorrevo il molo senza incontrare anima viva, mi sentii invadere da una densa e insopportabile pesantezza. Trascinai i piedi e lo spirito fino al faro. Guardai prima il paese, un pittoresco groviglio di case con le finestre illuminate, poi il mare, scuro e agitato. Il cielo era coperto e non si vedevano le stelle. La brezza rinfrescava l’aria. Era finita l’estate. Ripensai al dialogo con mia madre. Avevo le lacrime appese e un groppo in gola. Chiusi gli occhi, serrai i pugni e urlai più forte che potei con la bocca spalancata.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 8)

Novembre 1952

La mia esperienza come marinaio fu breve. Una domenica all’inizio di novembre, dopo l’ultima corsa, passai nell’ufficio della compagnia per ritirare la paga settimanale. Uno dei due fratelli proprietari dei battelli, un grassone con i capelli unti che sputacchiava quando pronunciava la ti, mi porse la solita busta senza distogliere lo sguardo dal giornale aperto sulla scrivania.
“Domani puoi restare a casa. Non ci sono più turisti e in inverno facciamo solo due corse al giorno per i residenti. Non abbiamo più bisogno di te”.
Lo stupore mi impedì qualsiasi movimento. Scorgendo con la coda dell’occhio la mia presenza nella stanza, smise di leggere e mi sorrise.
“Potrai dormire fino a tardi, non sei contento?”.
Vedendo che restavo impalato di fronte al tavolo incapace di reagire, con un rapido cenno della mano mi invitò ad uscire. Senza dire nulla, mi avviai verso la porta. Prima che la varcassi mi raggiunse la sua voce.
“Magari ripassa ad aprile. Inizia nuovamente la stagione, è probabile che ci sarai utile di nuovo”.
Me ne andai scosso dalla rapidità degli eventi. Pensai che non mi aveva nemmeno detto grazie. Pensai che forse si aspettava che fossi io a ringraziare lui. Pensai infine che non avevo la minima idea su cosa avrei fatto fino ad aprile.
Costanza e Vincenzo si indignarono profondamente quando raccontai loro l’accaduto. Entrambi pensavano che i proprietari dei battelli avrebbero dovuto avvisarmi prima. Si erano comportati ingiustamente nel darmi il benservito da un giorno all’altro, non avevano avuto alcun rispetto nei miei confronti. Ma mi dissero anche che purtroppo non c’era niente da fare, non avevo un contratto in regola e loro, i padroni, avevano il coltello dalla parte del manico.
Mia madre approfittò della situazione per provare a convincermi a continuare gli studi. Mi disse che non era necessario che lavorassi, che quello che guadagnavano lei e Vincenzo sarebbe bastato per tutti e quattro. Se non la laurea, almeno un diploma, mi ripeteva. Ma la famiglia che avevo sperato di trovare non si era materializzata e la voglia di indipendenza si era fatta col trascorrere dei giorni sempre più forte. E poi pensavo ingenuamente di essere colto e sveglio a sufficienza per affrontare le difficoltà della vita. Non sapevo ancora che molte volte per raggiungere una posizione di prestigio o anche solo per poter avere un lavoro dignitoso valgono molto di più un pezzo di carta e le giuste conoscenze che la cultura e l’intelligenza.

Dopo qualche settimana trovai lavoro come muratore. Come impiego era molto più faticoso e antropologicamente meno interessante rispetto al marinaio. Nonostante fossi esonerato dai compiti più duri, ogni sera tornavo a casa distrutto, mi facevo la doccia e crollavo sul letto non appena terminata la cena. Imparai presto la quantità di calce, acqua e sabbia per fare il cemento, a sagomare i mattoni con la cazzuola senza distruggerli, a muovermi con la carriola su un asse inclinato senza perdere l’equilibrio. Incominciavamo a lavorare la mattina presto, quando fuori era ancora buio e l’aria gelida pungeva il viso e irrigidiva il corpo fino quasi a bloccare le dita delle mani. Rimpiangevo il periodo in cui dovevo presentarmi al porticciolo alle dieci e avevo il tempo lungo la strada di fermarmi in riva al mare per lanciare ai gabbiani qualche pezzo di pane secco. Ogni volta restavo affascinato dalla rapidità con cui scendevano in picchiata, afferravano col becco il boccone un istante prima che cadesse in acqua e riprendevano immediatamente quota con un frenetico frullare delle ali. E non si scontravano mai. Due gabbiani lanciati sullo stesso pezzo di pane riuscivano sempre ad evitarsi all’ultimo momento. Era incredibile. Il controllo perfetto che avevano su ogni movimento e frazione del volo mi lasciava ogni volta a bocca aperta. Venivo catturato dalle meravigliose acrobazie che disegnavano nell’aria, spesso non mi accorgevo dello scorrere del tempo e arrivavo al porto trafelato e in ritardo.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 9)

Ottobre 1953

Il rapporto con Costanza restava sospeso nel limbo. Ai momenti sereni, per la verità piuttosto rari e di breve durata, seguivano, ineluttabili, lunghi periodi in cui l’astio e il rancore la facevano da padroni. Da una parte lei, incapace di trasmettermi amore materno, dall’altra io, incapace di riceverlo. Erano quasi sempre delle sciocchezze a far nascere discussioni feroci durante le quali immancabilmente finivo per rinfacciarle gli errori e le colpe del passato. Essendo parte in causa e, a mio modo di vedere, parte lesa, il mio punto di vista era del tutto parziale e mancava completamente di obiettività. Mi era impossibile riuscire ad indossare i suoi panni, soprattutto quelli di quando non ancora ventenne era diventata madre ed era rimasta sola quasi contemporaneamente. Le mie frasi erano permeate da una cattiveria gratuita, generata dalle sofferenze che mi avevano afflitto durante l’infanzia. A volte, ripensando a quel periodo, mi sentivo pervaso da una rabbia cieca che avevo bisogno di sfogare contro qualcuno e mia madre era il perfetto e logico capro espiatorio. E unico, dato che mi era ormai impossibile, se mai avessi voluto, rinfacciare a mio padre di avermi fatto crescere senza una madre e di avermi affidato alla tanto odiata tutrice. Quando ritornavamo per l’ennesima volta a discutere dei miei primi mesi di vita, i miei rimproveri erano taglienti, i miei giudizi categorici, insindacabili, come quelli di coloro che sono convinti di essere dalla parte della ragione e non vengono sfiorati nemmeno lontanamente dal sospetto che la realtà spesso è più complessa di come appare e in alcuni casi la ragione non sta da un solo lato della barricata, e così il torto.
A nulla valse la decisione di riconoscermi e, almeno da un punto di vista burocratico, colmare così una lacuna nella quale ogni tanto rischiavo di perdermi. Sul mio documento non appariva più l’orrenda dicitura “figlio di n.n.”, ciononostante non riuscivo a perdonarle i quindici anni di ritardo.

La situazione precipitò definitivamente quando scoprii, quasi per caso, che Costanza aveva un amante. Di ritorno a casa dopo il lavoro, passai davanti alla stazione. Gianluigi “belin”, l’incaricato di ritirare i biglietti
dei viaggiatori una volta scesi dalle vetture, quando mi vide agitò la mano in segno di saluto.
“Belin Guido, ancora in giro? Tua madre è arrivata un’ora fa, ti starà aspettando per cena”.
Camogli è un piccolo borgo, dove tutti sanno tutto di tutti. Dopo appena un paio di settimane dal mio arrivo, chiunque sapeva che ero figlio di Costanza. La diffusione delle notizie di bocca in bocca era più rapida che se si fosse tappezzato l’intero paese con dei manifesti.
Era lunedì, giornata di riposo del mercato di Nervi. Mia madre il lunedì non lavorava e sarebbe dovuta rimanere a Camogli.
“Ma sei sicuro di averla vista?” domandai sorpreso.
“Belin! Certo che sono sicuro. L’ho anche salutata” esclamò.
Dove era andata? Nei giorni di festa restava a Camogli, si occupava della casa, almeno così avevo creduto fino a quel momento.
“E da dove veniva?” chiesi con tono disinteressato per mascherare la mia curiosità.
“Aspetta, te lo dico subito, il suo biglietto è il primo di questo mazzetto.... vediamo... eccolo qui... da Recco”.
Che cosa era andata a fare a Recco? Rimasi assorto nei pensieri, formulando ipotesi e cercando invano una risposta. Dovevo avere una faccia allarmata o quanto meno perplessa perché Gianluigi mi riportò alla realtà domandandomi:
“Qualcosa non va?”.
“No, nulla. Grazie. Ciao” risposi allontanandomi.

Appena entrato in casa, domandai a mia madre perché era stata a Recco.
Mi guardò sorpresa.
“Sono andata a trovare un’amica”. La voce lievemente insicura, lo sguardo rivolto verso la finestra. Mi resi subito conto che non mi stava raccontando la verità. Ero spietato con lei. Era come se l’aspettassi costantemente al varco per coglierla in fallo e sentirmi in diritto di criticarla. Ogni pretesto per litigare era buono.
“Quale amica?”.
“Non la conosci”.
“Come si chiama?”.
“Giulia”.
“Siete molto amiche? La vedi spesso?”.
“Ma cos’è questo, un interrogatorio?” sbottò tirando sul tavolo lo strofinaccio con cui stava asciugando i piatti.
“Anche se fosse? C’è qualcosa che non puoi dirmi, che vuoi nascondere?” insistei deciso a non mollare la presa.
“È la mia vita, Guido. Non ti riguarda. E ora vai a farti la doccia che è tardi”.
Mi avviai verso il bagno, per nulla rassegnato. Lasciai che il getto d’acqua mi scorresse addosso, senza insaponarmi né sciacquarmi. Con gli occhi chiusi incominciai a pensare a un piano per scoprire ciò che mia madre mi stava occultando.

Il lunedì seguente, prima di rientrare a casa, ripassai dalla stazione e domandai a Gianluigi se aveva visto Costanza. Mi rispose affermativamente. La settimana successiva, invece di andare al lavoro, mi incamminai verso Recco. Evitai di prendere il treno per non correre il rischio che Gianluigi dicesse a mia madre che mi aveva visto. Il piano era semplice. Avrei aspettato alla stazione di Recco che arrivasse mia madre e l’avrei seguita. Non mi era venuto in mente niente di meglio, ma con un po’ di fortuna avrebbe funzionato. Vincenzo era via, in Brasile, e da un cassetto avevo preso di nascosto un paio di vecchi occhiali da sole e un cappello. Dopo averli indossati, mi guardai in uno specchietto di un’automobile parcheggiata nei pressi della stazione. Il cappello era grande e mi copriva l’intera fronte, appoggiandosi sugli occhiali, troppo grandi anche quelli. Ero ridicolo. Così conciato sembravo un incrocio tra un poliziotto in incognito di serie B e un maniaco sessuale. Decisi di farne a meno. Avrei puntato tutto sul fatto che Costanza, ignorando di essere pedinata, non si sarebbe guardata alle spalle.
Aspettai tre ore e l’arrivo di due treni. Niente. Un’altra ora e un terzo treno. Niente, di Costanza nemmeno l’ombra. Dal posto in cui ero riuscivo a vedere senza ostacoli l’uscita della stazione, non era possibile che fosse passata di lì senza averla vista. Ero stanco di aspettare, faceva freddo e mi era venuta fame. Decisi di attendere ancora l’arrivo di un ultimo convoglio ferroviario, poi me ne sarei tornato a Camogli.
Un lungo fischio ne annunciò l’arrivo.
Quando la riconobbi mi si accelerò il battito cardiaco. La seguii mantenendomi il più lontano possibile. Mi aspettavo andasse verso il centro del paese, invece si avviò in direzione del mare. Camminava rapida, come se avesse fretta di arrivare. Non si guardava intorno e non si voltò nemmeno una volta. Arrivata alla spiaggia, la costeggiò fino ai bagni “Marilù”, completamente deserti, a parte un uomo seduto su una sdraio che si alzò non appena la vide e le andò incontro. Mi accovacciai dietro a un gozzo per osservare la scena senza essere notato. Si abbracciarono e si baciarono. Un bacio inequivocabile. Quell’uomo era molto più che un amico di mia madre. Non mi sentivo affatto contento per aver coronato con successo il mio piano. Provai un vago senso di vergogna e mi guardai intorno per vedere se qualcun altro era stato testimone di quel bacio. Non c’era nessuno e sentii un assurdo senso di sollievo. Subito dopo mi vennero in mente le parole di mia madre quando aveva provato a spiegarmi perché non mi aveva cercato dopo la morte di mio padre. Erano davvero felici lei e Vincenzo cinque anni prima? Che cosa era cambiato nel frattempo? O non lo erano già allora? Ma allora perché mi aveva mentito? Mi sedetti con le gambe stese e la schiena appoggiata alla barca. Iniziai a disegnare con le dita due linee curve nella sabbia. All’improvviso e dolorosa mi travolse la sensazione che fosse impossibile fare chiarezza sul mio passato e che non potevo fidarmi di nessuno.

Tornai a casa e lungo il cammino presi la decisione di andarmene. Avrei chiesto ospitalità a mia zia. Non aspettai nemmeno il ritorno di Costanza. Misi alcuni vestiti in una borsa e sul tavolo della cucina lasciai un biglietto sul quale avevo scritto a grosse lettere in stampatello “puttana”.

Stefania mi disse che potevo fermarmi tutto il tempo che volevo. Quando mi domandò il perché di quella richiesta, iniziai a raccontare ciò che avevo visto, convinto di rivelarle una verità sconvolgente. Con mio enorme stupore scoprii che non era affatto un segreto, già lo sapeva. E anche Vincenzo ne era a conoscenza. Ci rimasi male. Mi sembrava assurdo che tutti sapessero e che nessuno dicesse nulla. Non capivo come potessero tollerare una situazione simile. Nonostante Costanza e Vincenzo non fossero sposati e nonostante il modello di famiglia in cui ero cresciuto non era certo stato quello tradizionale, mi sembrava immorale e ingiusto che mia madre conducesse una doppia vita.
“Ci sono cose che non sai e che se sapessi ti farebbero vedere le cose in un altro modo” disse mia zia come per rimproverarmi del disprezzo con cui avevo condito il resoconto dei fatti di cui ero stato testimone.
“Ormai ci ho rinunciato” le risposi rassegnato. “Ogni volta che credo di avere sistemato tutti i pezzi del mio passato, scopro che qualcuno mi ha celato qualcosa o non mi ha detto la verità. Pensavo fosse un mio diritto, evidentemente mi sbagliavo”.
La mia amarezza le sciolse la lingua.
“Ma questo non riguarda te, non direttamente almeno”. Mi osservò con aria seria, improvvisamente si era fatta scura in volto. “Dio mio, non dovrei raccontartelo, se lo sa Costanza mi ammazza”. Inspirò profondamente prima di proseguire. “Quando Giovanna aveva tre anni, Vincenzo se ne andò in America. Così, all’improvviso, senza dare alcuna spiegazione. Per più di dieci mesi non si fece vivo. Non scrisse mai una lettera. Non sapevamo niente di lui, era scomparso. Dopo qualche mese dalla sua partenza, Costanza conobbe Giacomo, l’uomo che hai visto a Recco insieme a lei”. Prese un bicchiere, lo riempì d’acqua e bevve a piccoli sorsi. Ormai pendevo dalle sue labbra, fremevo di impazienza, ma non osavo interrompere il silenzio. Temevo che se lo avessi fatto non avrebbe continuato il racconto. Vuotato il bicchiere, continuò: “Era sola, con Giovanna piccola. Giacomo non è stato altro che la persona giusta arrivata nel momento giusto. Ma non fraintendermi, non si è approfittato delle difficoltà di tua madre. Il bene che le ha voluto e le vuole tuttora è sincero. È una buona persona”. Fece un’altra pausa. Avrei voluta scuoterla, dirle di non perdersi in particolari, pregarla di dirmi tutto e subito. Dopo un tempo che mi parve infinito, riprese: “Ma un bel giorno, senza alcun preavviso, Vincenzo è tornato dall’America. Quando si è reso conto della nuova situazione ha preteso che Costanza rinunciasse al suo nuovo amore per ritornare insieme a lui. Di fronte al suo rifiuto, l’ha ricattata in modo meschino, le ha detto che se non avesse accettato le avrebbe portato via Giovanna. Non essendo sposati, avrebbe potuto farlo”. Sollevò le spalle. “Purtroppo le leggi non tengono conto dei sentimenti. Costanza aveva già perso te per lo stesso motivo, per non essere sposata, e non volle farsi portare via anche Giovanna. Ritornarono a vivere insieme, ma Costanza continuò a vedere Giacomo. Fu un patto non scritto. Accettato da tutti e due, ma con entrambi scontenti. E anche Giacomo si è dovuto adeguare. È curioso come i comportamenti umani a volte rasentino il masochismo”. Non c’era alcuna traccia di ironia nella sua voce.
Avrei voluto dire qualcosa, ma non sapevo bene cosa. Avevo una tale confusione in testa, ero in balìa di una valanga di sensazioni contrastanti. Vincenzo era tornato dall’America poco prima che morisse mio padre. Per mia madre non doveva essere stato affatto facile recuperare l’antica relazione e allo stesso tempo modificare, senza romperli, gli equilibri della nuova. Forse era per quello che non si era preoccupata di me, convinta che avrei rappresentato un ulteriore fattore destabilizzante. Ma ora era anche chiaro che mi aveva mentito quando mi aveva detto che non mi aveva cercato dopo la morte di mio padre perché lei e Vincenzo erano felici. Era più forte di me, non riuscivo proprio a vederla come vittima. Era sufficiente che cambiassi prospettiva e non mi appariva più scevra di colpe. Mi domandai se fossero rimasti altri episodi di cui ignoravo l’esistenza e se mai sarei riuscito a completare il mosaico del mio passato, o se data la sua complessità avrei fatto meglio a rinunciare e a metterci definitivamente una pietra sopra. Pensai alla signora Milton quando, salutandomi, mi aveva detto “Fai bene a voltarti indietro, ma qualsiasi cosa troverai, cammina sempre pensando al futuro, mai al passato. Non puoi modificare ciò che è stato mentre puoi fare molto per cambiare ciò che sarà”.
Dopo qualche minuto, i miei pensieri si focalizzarono sull’unica persona di tutta la storia che mi sembrava senza peccato.
“E Giovanna? Lo sa?” domandai esitante.
“No, e non lo deve sapere”. Una risposta secca accompagnata da un’espressione accigliata. Sembrava quasi pentita di avermi raccontato tutto. Mi resi conto che la nostra conversazione era finita. Prima di uscire le chiesi di avvisare lei Costanza. Non mi andava di rivederla e informarla della mia decisione, avremmo finito come al solito per litigare. Sapevo in ogni caso che non si sarebbe interessata più di tanto alla mia fuga. Al contrario, ero convinto di averle fatto un favore. Senza la mia presenza, il livello di tensione in casa sarebbe diminuito drasticamente. Forse non sarebbe stata contenta della mia richiesta di ospitalità a Stefania, dato che, per motivi a me sconosciuti, erano terribilmente gelose l’una dell’altra. Non che ciò mi importasse granché, e comunque la mia era stata una scelta obbligata. Con Franco e Maria, gli altri due fratelli di mia madre, non avevo alcuna confidenza.
Dopo una decina di giorni incrociai per strada Costanza. Mi domandò senza trasporto come stavo e come andava il lavoro. Dal tono distaccato della sua voce ebbi l’impressione che lo facesse più per dovere che per reale interesse. Notai da parte sua una certa attenzione nell’evitare che la discussione scivolasse verso ciò che era accaduto recentemente. Ne fui contento e mi guardai bene dal sollevare l’argomento. L’incontro, estremamente formale, confermò la mia ipotesi che in fondo, andandomene da casa, non avevo fatto altro che toglierle un peso.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 10)

Febbraio 1954

L’inverno di quell’anno fu tra i più freddi che ricordi. Inoltre la sensazione termica era influenzata negativamente dal lavoro all’aria aperta e dal fatto che non ci si potesse coprire troppo per poter mantenere un’indispensabile comodità nei movimenti. Non mi confortavano i commenti dei miei compagni che mi invitavano a godermi il freddo, molto meglio del caldo torrido che avremmo dovuto sopportare durante l’estate, né l’idea di trovare riparo alla fine della giornata nella casa fredda e umida di mia zia.
Più di una volta ripensai con nostalgia alla Casa Svizzera, alle partite a pallone con i ragazzi dell’istituto, all’affetto sincero e disinteressato della signora Milton. La malinconia pareva prendere il sopravvento quando mi incantavo a osservare oltre il mare le cime innevate delle Alpi Marittime. Se resistetti alla tentazione di ritornare indietro fu solo grazie a un orgoglio che con il passare degli anni si stava conquistando prepotentemente una posizione di dominio nel mio carattere. Il bisogno di dimostrare che nonostante le traversie che avevano segnato la mia infanzia e la mia adolescenza ero comunque in grado di badare a me stesso e cavarmela da solo si faceva via via più intenso. Per soddisfarlo, mi ritrovavo spesso a rifiutare un aiuto che mi veniva offerto, anche se si trattava delle cose più semplici e banali. La leggera timidezza che aveva fino allora caratterizzato le mie relazioni con gli altri stava scomparendo poco a poco lasciando spazio a una sicurezza che sconfinava frequentemente in un atteggiamento sfrontato e arrogante. Ma il problema più grave da cui ero afflitto era senza ombra di dubbio la mancanza di serenità. Ero accompagnato da una lieve ma costante sensazione di rancore, pesante eredità delle disavventure che avevo sofferto in passato. Avrei impiegato ancora qualche anno per prendere coscienza che la mia collera non era attribuibile alla cattiva sorte e, dopo averne individuato la fonte, decidere di liberarmene una volta per tutte.
Mia zia mi ripeteva che ero un’anima in pena. Aveva ragione. Ero irrequieto, quasi mai contento e soddisfatto di ciò che avevo e facevo, continuamente alla ricerca di un qualcosa che ancora non conoscevo. La routine mi soffocava, la ripetizione dei gesti quotidiani, sempre gli stessi ogni giorno e ogni settimana, mi faceva impazzire. La curiosità di vedere posti nuovi e il richiamo verso nuove esperienze diventarono ogni giorno più forti. Quando si presentò la possibilità di lasciare Camogli e la riviera non esitai un solo attimo. Un amico mi disse che un suo parente gli aveva proposto di andare a fare il pastore in un paesino sulle Alpi Lombarde, non lontano da Bergamo. Lui ormai aveva troppi acciacchi per poter seguire il gregge su e giù per i ripidi pendii. Il mio amico non era per nulla entusiasta, amava il mare e odiava la montagna, cioè, in realtà non è che la detestasse, semplicemente ne era spaventato non essendoci mai stato e non conoscendo quindi ciò a cui sarebbe andato incontro. Ma aveva un debito nei confronti di questo prozio. Aveva infatti aiutato sua madre dimostrando grande generosità dopo che il padre era morto in guerra. Proprio non se la sentiva di rifiutare la proposta.
“Senti, e se andassi io al posto tuo?” gli domandai in preda all’eccitazione. “In fondo che gliene importa alle pecore se ci sto io o ci stai tu a fargli compagnia” aggiunsi ridendo.
“Davvero ci andresti?” domandò incredulo.
“Di corsa” replicai, questa volta serio per fargli capire che non stavo affatto scherzando.

Partii dopo una settimana. Ero dispiaciuto per non essere riuscito a salutare Vincenzo. Sarebbe sbarcato dopo un mese o forse due ma non avevo alcuna intenzione di aspettare così a lungo. Quando mi accomiatai da mia madre eravamo entrambi emozionati e la sentii vicino come raramente mi era capitato. Mi chiesi, senza trovare una valida spiegazione, come mai non potesse essere sempre così tra di noi. Dal treno gettai un’occhiata al mare, sicuro che mi sarebbe mancato. Poi mi affacciai dall’altro lato, verso nord, cercando di immaginare lontana in quella direzione la mia meta. Chiazze gialle tingevano le pendici degli Appennini che in quel tratto di riviera giungevano senza soluzione di continuità fino alla costa. La mimosa annunciava l’arrivo della primavera. Sorrisi, il pensiero di una nuova avventura mi rendeva felice.

Imparai presto, con un certo sollievo, che il mestiere del pastore era meno faticoso di quello del muratore. Ora mi alzavo prima la mattina e l’ascesa lungo i fianchi scoscesi delle montagne non era certo paragonabile alla passeggiata sul lungomare in compagnia dei gabbiani, ma mentre a Camogli il lavoro duro iniziava una volta giunto al cantiere, qui, raggiunto il pascolo, potevo sdraiarmi sul prato e fissare beato il cielo, lasciando che fossero i cani a correre dietro alle poche pecore indisciplinate che tentavano timidamente di allontanarsi dal gregge. Tanto riuscivo a rilassarmi e a dimenticarmi di essere al mondo che capitava spesso che mi addormentassi per qualche ora, fino a quando le leccate umide dei cani sul viso mi riportavano in modo traumatico alla realtà. Ogni volta mi alzavo rapido in piedi con il terrore di vedere ridotto il gregge a poche unità e immancabilmente mi tranquillizzavo osservando come gli animali continuassero a brucare l’erba incuranti dei miei sonni improvvisi e prolungati.
Adoravo la purezza dell’aria. Mi piaceva correre su per i pendii, anche se ogni corsa era per me una fatica enorme. Raggiungevo la cima con il cuore che batteva forte e sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro. Con le mani appoggiate sulle ginocchia iniziavo a inspirare dalla bocca e dal naso, prima respiri corti e affannati, avidi d’ossigeno, poi più lunghi e profondi, fino a saturare i polmoni di aria fresca e pulita.
Le mie giornate trascorrevano senza che incontrassi anima viva e la mia unica compagnia era costituita dalle pecore, non certo affettuose, e dai tre cani, loro invece sì un po’ più d’aiuto affinché non mi sentissi completamente solo. Come lavoro era monotono e mal si sposava con il mio animo inquieto, ma la possibile mancanza di serenità derivante dalla ripetitività delle mie giornate veniva ampiamente compensata dalla pace e dalla bellezza del paesaggio circostante. Un panorama mozzafiato e un silenzio assoluto, se si escludevano i rari latrati dei cani e i fischi acuti di qualche rapace. A volte l’assenza di suoni durava più del solito, tutto sembrava fermarsi, le pecore, i cani, le nuvole in cielo, calava tutt’intorno un’atmosfera irreale. Era come smettere di vivere e diventare parte di un quadro.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 11 - parte prima)

Maggio 1955

Una sera rientrai più tardi del solito e vidi il vecchio pastore che mi aspettava in piedi di fronte alla malga. Mi fulminò con uno sguardo severo, bofonchiò qualche parola di rimprovero in un dialetto incomprensibile e, senza darmi il tempo di replicare, rientrò nella piccola costruzione in pietra col tetto di legno. Avevo imparato a conoscerlo e sapevo che in realtà non era arrabbiato. Era il suo modo di sfogare la tensione accumulata. Non vedendomi tornare prima che calasse il sole si era allarmato, ma nemmeno sotto tortura lo avrebbe ammesso. Faceva di tutto per apparire burbero e duro, immune da preoccupazioni e timori che non esitava a definire debolezze da femminucce borghesi, ma la verità era un’altra. Ci conoscevamo da appena un mese, eppure mi aveva adottato come un figlio e se mi fosse accaduto qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato. Aspettai che l’ultima pecora fosse rientrata nel recinto e dopo essermi procurato un pezzo di pane, una fetta di formaggio fresco e una coperta, mi andai a sedere su una grossa lastra di pietra, in attesa che sorgessero le stelle. I ricordi iniziarono a fluire incontrollati e mi ritrovai imprigionato nella nostalgia. Erano trascorsi più di dieci anni dalle notti passate in montagna in compagnia di mio padre, eppure la sua figura era nitida e le parole chiare come se in quel momento fosse seduto accanto a me. Scese l’oscurità e il cielo si riempì di una moltitudine di astri luminosi. Erano davvero le stesse stelle che brillavano nel cielo sopra la città? Sorrisi al ricordo della mia ingenuità di quando ero bambino. Se fosse stato lì glielo avrei domandato di nuovo, così, per gioco. E magari questa volta mi avrebbe detto di no, che non si tratta delle stesse stelle. E poi avremmo riso insieme. Sospirai. Non sarebbe potuto accadere, pensai, provando più rabbia che tristezza. Non ero ancora riuscito ad accettare la morte di mio padre, a farmene una ragione. Al contrario, a distanza di quasi sei anni era una ferita più che mai aperta. Gli ultimi fotogrammi prima dello sparo scorsero lenti nella mia mente fino a fermarsi sull’uomo dall’impermeabile nero. Per la prima volta mi sorpresi a desiderarne la morte. Spaventato e infreddolito, rientrai nella malga e mi rannicchiai sulla tavola ricoperta di paglia con la speranza di addormentarmi in fretta.
La mattina quando mi svegliai ero tormentato dallo stesso pensiero. Non riuscivo a liberarmi dal fantasma di quell’uomo, che ritornò puntuale anche nei giorni successivi. Prima si visualizzava il braccio teso, dopodiché sentivo il rimbombo dello sparo, a volte così reale che istintivamente mi tappavo le orecchie. Mi sforzavo di pensare ad altro. Rincorrevo disperatamente ricordi di momenti felici. Ma la solitudine a cui ero condannato in mezzo ai prati e la monotonia delle mie giornate mi impedivano di fuggire da quell’incubo ricorrente e da quella figura, sempre la stessa, che mi faceva rabbrividire: l’uomo dall’impermeabile nero. Nella quiete della montagna, le pareti intorno ai pascoli agivano da cassa di risonanza e amplificavano le sensazioni e le emozioni. Non potevo più restare su quei monti e continuare a fare quella vita da asceta. Dovevo andarmene, altrimenti sarei impazzito. Il problema era dove. A diciassette anni e disposto com’ero ad adattarmi a qualsiasi lavoro, praticamente tutte le strade erano aperte. Avrei potuto andare ovunque, eppure non riuscivo a decidermi. Avrei potuto prendere la cartina dell’Italia, chiudere gli occhi e indicare col dito un punto a caso, ma la possibilità di scegliere a trecentosessanta gradi mi disorientava. Di una cosa ero sicuro: non sarei tornato a Camogli, non ora. Con tutti i posti in Italia e nel mondo che non avevo ancora avuto il piacere di vedere, non avevo alcuna intenzione di ritornare in quel paese che tanto mi era piaciuto ma dove mai mi ero sentito completamente accettato.

“Domani me ne vado” dissi una sera al vecchio pastore.
“Lo sapevo” ribatté calmo. “Il tuo silenzio degli ultimi giorni era molto più eloquente di qualsiasi parola. C’è qualcosa che ti turba. Anche i tuoi occhi sono trasparenti”.
“Non ha niente a che vedere con questo posto” provai a giustificarmi senza capire perché sentissi il bisogno di farlo.
“Non ti ho chiesto spiegazioni” mi interruppe sorridendo.

Lo sparo fu assordante. Vidi mio padre cadere pesantemente in una pozzanghera. Un istante dopo l’acqua cambiò colore e, rapidamente, iniziò ad aumentare di livello. Prima raggiunse le ginocchia, poi i fianchi, infine le spalle. Incominciai a nuotare affannosamente in un denso fluido carminio e scontrai il braccio contro qualcosa di grande. Il corpo morto di mio padre galleggiava al mio fianco. Mi svegliai di soprassalto, terrorizzato.
Quella notte non chiusi più occhio e accolsi con un sospiro di sollievo le prime luci dell’alba. Feci la solita colazione, un bicchiere di latte fresco e un pezzo di pane, e raccolsi la mia borsa. Ero pronto.

“Buona fortuna ragazzo. Se capiti da queste parti, fatti vivo”. Aveva gli occhi lucidi.
“Puoi contarci. E in quanto alla fortuna, sono sicuro che prima o poi arriverà. È in debito nei miei confronti” sentenziai con insolito ottimismo. Lo abbracciai senza aggiungere altro.
Me ne andai senza rimpianti, convinto di aver preso la giusta decisione. Più che il salto nel buio che stavo per compiere, mi inquietavano le immagini tetre e angosciose che da qualche tempo contaminavano più o meno marcatamente ogni mio pensiero.
Fu sul treno per Genova che si materializzò il posto dove sarei andato. Mi ricordai di Iolanda, una cugina di zia Stefania, che era venuta a trovarla quando stavo da lei, una grassona dal forte e simpatico accento toscano. Possedeva una pensione a Viareggio. Si avvicinava la stagione estiva e in un posto del genere un qualcosa da fare lo avrei sicuramente trovato. E poi dopo tanta montagna avevo voglia e bisogno di mare. L’aria salata mi avrebbe rinfrancato lo spirito e le affollate spiagge della Versilia avrebbero sgombrato la mente da visioni cupe e desideri pericolosi.
A Genova cambiai e presi il diretto per Pisa. Quando si fermò a Camogli non ebbi nemmeno la tentazione di scendere. Lanciai un’occhiata distratta alle persone che scendevano e salivano senza riconoscerne alcuna. Mi sentii un estraneo, come se non avessi mai vissuto in quel paese o come se mancassi da un sacco di tempo. Mi domandai se fosse per l’ossessione che avevo sempre avuto di scavare nel passato tralasciando di vivere il presente e costruire un futuro. Prima di trovare una risposta, venni sopraffatto da un sonno profondo.
Mi svegliai poco prima di giungere a Viareggio. Domandai dove si trovava la spiaggia e mi avviai nella direzione che mi era stata indicata. Non avevo mai visto una distesa di sabbia come quella e la quantità spropositata di ombrelloni che la ricopriva mi lasciò sbalordito. La spiaggia si estendeva a perdita d’occhio da entrambi i lati, ovunque volgessi lo sguardo non ne vedevo la fine. Mi resi immediatamente conto che l’informazione in mio possesso era completamente insufficiente. Ero abituato ai trecento metri della passeggiata mare di Camogli ed ero arrivato lì convinto che non avrei avuto alcuna difficoltà nel trovare la pensione “di fronte al mare” della cugina di mia zia. Per fortuna mi aiutò la mia buona memoria. Ricordai il nome: Il Corallo. La conoscevano nel primo bar in cui entrai a chiedere indicazioni. Sotto il sole a picco di mezzogiorno il chilometro percorso per raggiungere la mia meta si abbatté su di me come una mezza maratona. Il cartello che rappresentava la fine delle mie fatiche mi apparve come un’oasi in mezzo al deserto: “Pensione Il Corallo. Pineta, vista mare. Aperta tutto l’anno”. Sotto, leggermente più piccolo, veniva specificato che era “disponibile ogni comfort”. A me bastava dell’acqua. Avevo una sete che avrei prosciugato un bacino artificiale.
La palazzina che ospitava la pensione era un semplice parallelepipedo di cemento di tre piani a cui era stato aggiunto, nel vano tentativo di abbellirlo, qualche balcone. Raramente mi era capitato di trovarmi di fronte a edificio più brutto. Una decina d’anni dopo sarei stato in grado di valutare quell’orrore da un punto di vista politico ed economico. Allora, non essendo ancora entrato in contatto con il mondo delle speculazioni edilizie, mi limitai a un puro giudizio estetico. Fine a sé stesso, dato che poco o nulla mi importava dell’architettura. Ero lì in cerca di un lavoro.
Iolanda non nascose la sua sorpresa.
“Eri l’ultima persona al mondo che avrei immaginato di vedere qui” esclamò.
“Anch’io, fino a stamattina” feci eco con un sorriso.
“Spero solo che inaspettato non significhi anche indesiderato” continuai in tono scherzoso.
“Non dire sciocchezze! Dai, entra e raccontami cosa diavolo ci fai da queste parti”.
A differenza dell’esterno, l’interno della pensione era carino e accogliente. Posai la borsa sul pavimento.
“Potrei avere prima un bicchiere d’acqua” la pregai lasciandomi cadere sulla poltrona di vimini più vicina.
“Madonna bona, certo! Abbiamo tutto quello che vuoi. Acqua, birra, limonata”.
“Dell’acqua va benissimo, grazie”. Non avevo finito di esprimere il mio desiderio che era già sparita in un’altra stanza. Ritornò poco dopo e mi porse un bicchiere pieno fino all’orlo che svuotai tutto d’un fiato.
“Piano, piano, che ti si congela lo stomaco” mi suggerì invano.
Appoggiai le mani sulla pancia ed emisi un lungo sospiro di piacere. Mi sollevai dallo schienale, appoggiai i gomiti sui braccioli, incrociai le dita delle mani e, improvvisamente serio, dissi:
“Sto cercando lavoro. Ho pensato che qui, data la stagione, forse avrei potuto trovarne uno. Mi va bene qualsiasi cosa, mi adatto a tutto”.
Di nuovo mi guardò sorpresa.
“Un lavoro? Qui?”.
“Sì” assentii con un leggero movimento della testa.
“Dimmi un po’, Costanza lo sa?”.
Una domanda retorica. Il tono della voce indicava chiaramente che si aspettava una risposta negativa. Qualunque altra cosa avessi detto non mi avrebbe creduto e comunque non avevo alcun motivo di mentirle. In fondo mi consideravo grande abbastanza per badare a me stesso. Ero sopravvissuto senza mia madre quando ero un bambino, a maggior ragione potevo farlo ora che ero, o almeno pensavo di essere, quasi un uomo.
“No. Pensa che sia sulle Alpi a fare il pastore”.
Prima che potesse ribattere la resi partecipe dei miei pensieri.
“Non ho bisogno di lei” e conclusi polemico “né lei di me”.
“Credo di aver toccato il tasto sbagliato. Non sapevo che ci fosse dell’acredine tra voi”.
Per un attimo temetti che incominciasse a farmi domande sui problemi che avevo con mia madre, proprio non mi andava di raccontarle l’intera storia, ma Iolanda si dimostrò discreta e non manifestò alcuna curiosità.
“Comunque non mi interessa e poi hai ragione, ormai sei grandicello. Un lavoro, eh? L’economia è in ripresa, finalmente, e rispetto all’anno scorso verrà molta più gente. Con tutto quello che c’è da fare qui nei prossimi quattro mesi non temere che non ti ci lascio con le mani in mano. Hai l’imbarazzo della scelta. Pulire e rifare le camere, servire ai tavoli, aiutare in cucina o affiancare Fred, il bagnino”.
“Aiutare Fred” risposi convinto.
“Va bene. Gli parlerò domani mattina, ma non credere che fare il bagnino significhi stare tutto il giorno seduto su una sdraio a riempirsi gli occhi con le ragazze in costume” mi ammonì bonariamente. “La sera bisogna pulire la spiaggia, chiudere le sdraio e gli ombrelloni, spianare la sabbia. La mattina invece devi aprire le sdraio e gli ombrelloni, lavare i bagni e le docce”.
“Non c’è problema. E per quanto riguarda le ragazze, non ci avevo nemmeno pensato” mentii.
“Così mi piaci. Vieni, ti accompagno in quella che sarà la tua stanza. È piccola, ma in questo periodo non posso offrirti di meglio. Vitto e alloggio te li passa la casa. In più avrai una paga settimanale di duemila lire. Di più non posso darti”.
Non mi sembrava vero. Era molto più di quanto mi aspettassi.
“Va benissimo. Grazie, ti ringrazio tanto”. E mi sentii immediatamente come se stessi per intraprendere una nuova vita.

- continua -
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 11 - parte seconda)

L’aria di mare mi fece bene. Le interminabili camminate lungo i pascoli alpini erano ormai un lontano ricordo. Nello sfondo cromatico che faceva da contorno alle mie giornate sostituii senza rimpianti il verde riposante dei prati con il blu elettrizzante del Tirreno. In breve tempo venni contagiato dal rumoroso entusiasmo dei turisti e diventai insolitamente allegro e loquace. Nelle ore più calde non c’era praticamente nulla da fare e mi godevo beato il calore del sole. La sera, quando finivo la pulizia della spiaggia, mi rilassavo facendo il morto, restando immobile sulla superficie dell’acqua con lo sguardo rivolto al cielo. Ogni tanto, se non ero troppo stanco, raggiungevo a nuoto la boa posizionata a duecento metri da riva. Abituato alla costa ligure, ero restio all’idea di camminare in direzione dell’orizzonte per centinaia di metri con l’acqua alle ginocchia e mi ostinavo a nuotare colpendo ripetutamente con le mani il fondo sabbioso.
Iolanda si rivelò presto una cuoca eccezionale. Ogni cena mi stupiva con nuovi piatti prelibati. Dopo l’anno e mezzo di monotonia dei pasti della malga, riscoprii i piaceri della buona cucina. Il clima di inizio estate avrebbe consigliato una dieta leggera e ipocalorica, ma Iolanda sembrava non preoccuparsene più di tanto. Tortelli al sugo di cinghiale, ribollita, agnello al forno con patate, carpaccio, melanzane ripiene, frittelle di fiori di zucchino, soufflé di cavolfiore, ravioli alle erbette selvatiche, bignè alla crema di nocciole, torta di cioccolato con noci e uvetta. Mi sedevo a tavola stanco e affamato e regolarmente divoravo con voracità ogni cosa mi venisse servita fino a raggiungere una sorta di estasi culinaria.
Fred era un tipo strano. Una sera, mentre chiudevamo gli ombrelloni, gli domandai quanti anni aveva.
“Ventotto” rispose serio. Lo squadrai divertito. Aveva sicuramente passato i quaranta.
“Se tu hai ventotto anni io non dovrei ancora essere in grado di camminare” lo canzonai.
“Ventotto” ripeté. “Una mia amica cartomante mi ha rivelato che morirò a settantadue anni. Io non credo nell’aldilà e quando mi chiedono l’età dico gli anni che mi restano da vivere. In fondo sono quelli che contano”.
Lo osservai perplesso. Portava i capelli lunghi accuratamente raccolti in una coda con un elastico rosso in modo da lasciare libera la schiena ricoperta quasi interamente da un enorme drago dalla bocca infuocata, ricordo indelebile di un avventuroso viaggio in India.

Fred fumava di tutto e fu insieme a lui, una calda notte di agosto, che assaporai la mia prima sigaretta.
“Mi gira la testa Fred, sei sicuro che fosse solo tabacco?” domandai non appena smisi di tossire.
“Puro e semplice tabacco, di ottima qualità. Non ti preoccupare, è normale, le prime fanno sempre questo effetto” mi rassicurò.
Mi rilassai sulla sdraio. Era la notte di San Lorenzo. Pensai a un desiderio e iniziai a scrutare il cielo alla ricerca di qualche stella cadente. Impresa ardua. Roteava tutto, non avevo punti fissi di riferimento. Chiusi gli occhi e mi addormentai senza accorgermene. Mi risvegliai al sorgere del sole, con la pelle impregnata di umidità.

A ferragosto mi innamorai. La mattina, mentre preparavo la spiaggia, vidi arrivare una ragazza in compagnia dei genitori. Iolanda sapeva vita morte e miracoli dei propri clienti e soddisfò con dovizia di particolari la mia curiosità. Vivevano a Bologna e da una decina d’anni trascorrevano parte delle loro vacanze in Versilia. Lui era un noto e rispettato chirurgo, la moglie invece una giornalista raccomandata. Sapeva che non ero interessato alle professioni dei genitori, ma si divertì a prolungare la mia attesa dilungandosi in giudizi politici e morali su chi ottiene immeritatamente un lavoro sicuro e di prestigio. Dopo una pausa studiata ad arte, continuò finalmente con le informazioni riguardanti, secondo la mia personalissima opinione, l’unico componente della famiglia degno di attenzione. Si chiamava Federica. Non ancora sedicenne, avrebbe frequentato durante l’anno scolastico che stava per iniziare la terza liceo. Figlia unica, adorata dalla madre e protetta dal padre, venne definita da Iolanda, con una metafora militare che non prometteva nulla di buono, semplicemente “inespugnabile”.
Avevo sentito dire che quando si è innamorati il cuore batte più forte. Ogni mattina attendevo in un crescendo di palpitazioni il suo arrivo e quando la scorgevo in lontananza sentivo il cuore scoppiare. Non mi era mai accaduto prima di allora. Trascorsi le giornate seguenti ad osservarla imbambolato. Mi sembrava bellissima sempre: quando nuotava, mentre prendeva il sole, quando rideva. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel corpo dalle forme leggermente arrotondate, una morfologia delicata ed elegante che mi ricordava le illustrazioni di alcune statue di dee greche che avevo visto nei libri di scuola. Le reazioni fisiche del tutto incontrollate che Federica scatenava in me erano imbarazzanti e Fred non perdeva occasione di prendermi in giro.
Quel pomeriggio la scena si ripeté uguale, come nei migliori déjà-vù.
“Anche oggi gli ormoni irrequieti, eh? Scordatela ragazzo, quella non la puoi avvicinare nemmeno con il binocolo” ghignò.
“Vai a quel paese Fred” lo invitai con un ampio gesto del braccio, e aggiunsi con tono di sfida: “Vedremo”. Ma dentro di me sapevo che si trattava di una missione al limite dell’impossibile. Nonostante avessi ormai perso il conto degli incroci di sguardi e dei sorrisi rubati, non c’era stato un solo attimo in cui fosse stata abbastanza lontano dai genitori per poterla avvicinare e rivolgerle la parola. Il desiderio era cresciuto col passare dei giorni e, pur di fronte a difficoltà che sembravano insormontabili, restavo ottimista. Forse perché il desiderio svanisce nel momento in cui si perde la speranza, ma come in un circolo virtuoso è il desiderio stesso ad impedire che la speranza muoia.
Mi accovacciai sotto l’ombrellone, al riparo dal sole, cercando di pensare ad altro. Non ne ebbi il tempo. Con la coda dell’occhio intravvidi il padre avviarsi verso la riva. Iniziò a camminare verso il largo per poi tuffarsi e proseguire a nuoto. Mi voltai speranzoso in direzione di Federica. Era seduta sulla sdraio e stava leggendo un libro. Era sola. Non sapevo dove fosse la madre, scandagliai i dintorni senza vederne traccia. Il padre era ormai un puntino in mezzo al mare. Calcolai quanto tempo avrebbe impiegato per tornare indietro. Almeno cinque minuti. Non molto, ma sufficiente per un primo contatto. Era il mio momento, non potevo assolutamente farmelo scappare. Mi alzai con il battito cardiaco accelerato e mi incamminai in direzione di Federica. A quell’ora la sabbia, fine e compatta, doveva essere rovente, ma forse per il passo rapido o più probabilmente per l’improvvisa eccitazione non sentii alcun dolore alle piante dei piedi, fino a quando una voce stridula e inaspettata non mi pietrificò a meno di dieci metri dall’agognato obiettivo.
“Federica! Aiutami per favore, il tuo gelato si sta sciogliendo”.
La madre stava tornando verso la figlia leccando un gelato e sostenendone un altro, con la mano distante dal corpo per evitare che le gocciolasse addosso. Rimasi impalato, incapace di qualsiasi reazione, fino a quando i piedi non iniziarono a scottare. Ritornai alle sdraio riservate ai bagnini saltellando da un piede all’altro. Fred mi aspettava seduto con le gambe incrociate e i gomiti appoggiati sulle ginocchia, con un’espressione del volto divertita per la scena a cui aveva appena assistito. Ero a pezzi e non avevo nemmeno la forza di nasconderlo. Con uno sguardo supplichevole lo pregai di non infierire ulteriormente. Ebbe pietà di me e si limitò ad osservarmi in silenzio. Ancora oggi gliene sono grato.
Purtroppo il peggio doveva ancora arrivare. Dopo una settimana, durante la quale attesi invano il momento propizio per parlare con Federica, fui costretto a riporre definitivamente il sogno in un cassetto. A metà settembre iniziava la scuola. Ero ormai sicuro, pur non avendo nulla in mano che giustificasse tale convinzione, che anche Federica fosse innamorata di me e il fatto che dovesse tornare a Bologna mi sembrò una terribile ingiustizia. Della partenza serbo il ricordo del viso di lei che sorride attraverso il lunotto posteriore salutandomi con la mano mentre la Seicento gialla inesorabilmente si allontana in fretta portandosi via il mio primo grande amore.
Scivolai senza opporre resistenza in un preoccupante stato di apatia. La cocente delusione spazzò via la spensieratezza che aveva contrassegnato fino ad allora la mia permanenza in Toscana. Iolanda, incurante della mia inappetenza, continuò a servirmi abbondanti quantità di cibo che regolarmente rimaneva nel piatto senza quasi essere toccato. Fred capì presto la gravità della situazione, smise di prendermi in giro e si prodigò inutilmente per farmi tornare il sorriso. La sera chiudevo le sdraio e gli ombrelloni con gesti meccanici e ripetitivi, senza affannarmi in alcun modo a ritornare in stanza, dove mi attendeva il solito dolce-amaro naufragio tra i fluttuanti nitidi ricordi di Federica.
Come già mi era accaduto in montagna alcuni mesi prima con l’assassino di mio padre, mi ritrovai schiavo di un pensiero ricorrente che non mi dava pace e contro il quale mi sentivo del tutto impotente. E come allora decisi che la cosa migliore sarebbe stata cambiare aria. Una fuga da mettere in atto il prima possibile. Sarei dovuto rimanere fino alla metà di ottobre, ma anticipai di due settimane la mia partenza. Informai Iolanda e Fred il giorno stesso ed entrambi accolsero la notizia visibilmente dispiaciuti. Non avevo avuto né tempo né energia per pensare ad una nuova meta e, non sapendo dove andare, feci ritorno a Camogli.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 12)

Novembre 1955

Quando si era trattato di decidere se tornare a casa di mia zia o di mia madre, sorprendendo sia me stesso che Costanza, avevo scelto quest’ultima. Non saprei dire se ciò fosse stato determinato dalla rara e piacevole sensazione di vicinanza che avevo provato un anno e mezzo prima abbracciandola il giorno della partenza per le Alpi. A dire il vero, non si era trattato nemmeno di una decisione. Non mi ero posto alcuna domanda, non si erano materializzate di fronte a me le due opzioni. Ero semplicemente sceso dal treno e, immerso nei pensieri, avevo inserito il pilota automatico che mi aveva portato fino al portone della casa di mia madre.
Costanza era stata contenta di rivedermi e per festeggiare il mio ritorno aveva preparato una deliziosa torta al cioccolato, la mia preferita. Aveva ascoltato con attenzione il resoconto delle mie esperienze tra ovini e turisti danarosi, divertita dalla mia osservazione che alcuni comportamenti dei secondi fossero incredibilmente simili a quelli dei primi. Mi aveva chiesto una descrizione dettagliata di Federica e accorgendosi del rimpianto di cui erano cariche le mie parole, era giunta in mio soccorso con una verità tanto semplice quanto insufficiente a consolare un giovane cuore infranto. A me non bastava guardarmi intorno per rendermi conto che il mondo è pieno di ragazze belle come Federica. A me sembravano tutte molto più brutte.
Giovanna aveva da poco compiuto dodici anni. Rispetto a quando l’avevo vista l’ultima volta aveva abbandonato definitivamente l’età dell’innocenza, ma con piacere avevo avuto modo di constatare che la sua crescita non aveva intaccato il rapporto cordiale che si era instaurato fin da subito tra noi.
Incapace di restare con le mani in mano, mi ero dato immediatamente da fare per trovare un lavoro. Le opportunità scarseggiavano e fui costretto, mio malgrado, a ritornare a faticare come muratore.

Aprii gli occhi all’improvviso. Non riuscivo a smettere di tremare. Sentivo ancora il rimbombo dello sparo. Era stato tutto così reale. Dopo aver sparato a mio padre, l’uomo con l’impermeabile nero aveva puntato la pistola verso di me e aveva fatto fuoco. Era in quel momento che mi ero svegliato, appena un istante prima di morire. Mi sfilai a fatica il pigiama fradicio di sudore e lo gettai lontano sul pavimento. Riuscii in parte a liberarmi della paura, ma sentii violenta montare dentro la stessa ira già provata altre volte e mai del tutto sopita. Mi trascinai fino al bagno e mi osservai allo specchio. Sciacquai il volto madido e constatai definitivamente che si era trattato di un terribile incubo. Avevo diciassette anni. Erano passati sette anni dalla morte di mio padre. Mi domandai per quanto tempo ancora sarei stato preda di quella visione che, con la periodicità casuale di una catastrofe naturale, ritornava sempre con i medesimi effetti devastanti. Angustiato dall’impossibilità di incontrare una risposta, mi chiesi se non esistesse un modo per mettere fine ai miei incubi. Uno forse c’era, ma la sola idea mi terrorizzava.
Rinunciai a tornare a letto, fissare il soffitto non mi sarebbe stato di alcun conforto. Mi vestii con le prime cose che trovai a portata di mano e uscii accompagnando la porta per non fare rumore. Un brivido mi comunicò che era giunto l’inverno. Il paese riposava ancora, avviluppato nell’oscurità. Impossibile individuare la separazione tra mare e cielo, lo sguardo veniva risucchiato da un impenetrabile spazio nero. Avevo bisogno di centrifugare i miei pensieri, spararli il più lontano possibile. Avrei voluto dimenticare, ma più mi sforzavo di farlo, più ritornavano prepotenti le stesse immagini e i soliti suoni. Il frastuono dello sparo era assordante nel silenzio globale della notte. Riposi le mie speranze nell’alba, pensando che avrebbe spazzato via tutto. Il sole quel giorno sarebbe sorto un po’ più tardi. Per un attimo ebbi l’assurda tentazione di andargli incontro e mi incamminai verso est. Mi fermai dopo pochi passi, distratto da una decina di puntini luminosi in fila indiana in mezzo al mare che indicavano il ritorno delle lampare. Mi voltai e mi avviai in direzione del porticciolo, in attesa dei pescatori.

Quella sera ritornai a casa esausto. La notte insonne e la lunga giornata di lavoro avevano lasciato il segno. Non ero più il ragazzino di una volta, manlevato dai lavori più duri. Ogni tanto mi sembrava di udire le vertebre scricchiolare e lamentarsi sotto il peso dei sacchi di calce da trenta chili. Costanza non era in casa. Ritornava sempre più tardi quando Vincenzo era via. Giovanna si sarebbe fermata a cena dagli zii. Mi spogliai e sciacquai via la fatica, prima di avventarmi in cucina ancora gocciolante per placare il brontolio dello stomaco. Udii la porta aprirsi e richiudersi un istante dopo.
“Sei tu?” gridai senza muovermi dalla sedia.
Costanza apparve sulla porta della cucina.
“Ho portato delle acciughe. Se riesci a resistere una mezz’oretta ceniamo insieme”.
“Non direi mai di no a un piatto di acciughe” risposi entusiasta.
Posò la borsa di tela sul pianale in marmo del lavabo. Prese una terrina e vi rovesciò dentro una ventina di acciughe di media grandezza. Indossò un grembiule e iniziò a pulirle, rapida e decisa. Si notava che era del mestiere.
“Lascio la lisca che facciamo prima”.
Non erano le spine del pesce azzurro il problema. Da quando era entrata in cucina, il sorriso non l’aveva abbandonata un solo istante, trasudava serenità. Sospettavo l’origine del suo stato d’animo, derivava da un comportamento che non esitavo a condannare come squallido e disonorevole.
“Continui a vedere quell’uomo?” attaccai polemico.
Si volse accigliata.
“Quell’uomo ha un nome. Si chiama Giacomo. Ebbene sì, continuiamo a vederci e la cosa continua a non riguardarti” ribatté secca.
“Ma come fai a condurre due vite parallele? Non pensi a quello che può provare Vincenzo, a quello che la gente dice di te?”.
Lasciò cadere l’acciuga che aveva in mano e si asciugò le mani nel grembiule. Vidi la cena allontanarsi e mi pentii di aver aperto bocca. Troppo tardi. Si sedette di fronte a me, inspirò profondamente come chi si appresta a uno sforzo prolungato, mi fissò dritto negli occhi e iniziò a parlare, calma:
“Due parallele non si incontrano mai, scorrono una di fianco all’altro senza punti di contatto. Te l’hanno insegnato pure a scuola, no? La mia vita è una, una sola. Travagliata, complicata, bella, brutta, ma una. E trasparente. Giacomo sa di Vincenzo e Vincenzo sa di Giacomo. Non c’è niente che non sia in contatto con il resto. Niente di nascosto, tutto alla luce del sole. La gente mormora?... e chissenefrega! Bisogna vergognarsi quando si fa del male al prossimo, quando si mente, quando si ruba. Davvero dovrebbe importarmi di ciò che dice la gente? Davvero dovrei farmi turbare da chi mi addita come peccatrice? Quelle persone, Guido, mi fanno pena. Chi bada agli altri è perché non è in pace con sé stesso. I moralisti, nella maggior parte dei casi, non sono altro che degli ipocriti che si interessano agli altri per evitare di dover aprire gli occhi su loro stessi e giudicare i propri comportamenti. Pietro, tuo padre, non ha voluto sposarmi, Vincenzo non ha potuto, Giacomo vorrebbe e potrebbe ma rispetta la mia scelta di vivere insieme a Vincenzo. Mi hanno portato via un figlio, altri due sono morti appena nati, all’ultimo non avrei rinunciato per niente al mondo. Non c’è proprio nulla di cui mi debba vergognare. Non ti dico questo perché tu mi compatisca. Forse ti sembrerà strano, ma nonostante tutto mi considero fortunata. Ho incontrato persone che mi hanno voluto bene, ho soddisfatto il desiderio più grande, quello di essere madre, ho un lavoro che mi permette di far studiare i miei figli e di dar loro da mangiare. Il mondo è pieno, purtroppo, di persone che stanno peggio di noi. Vincenzo... cosa pensa Vincenzo? Prima di conoscermi si era già sposato con un’altra donna con la quale aveva avuto una bambina. Tardò sei mesi per dirmelo. La moglie e la figlia emigrarono in Cile sedici anni fa, insieme ad altri parenti, alla ricerca di una vita più dignitosa. Vincenzo disse loro che le avrebbe raggiunte qualche mese dopo, poi scoppiò la guerra e senza visto tedesco non si poteva più espatriare. Figurati, il visto a lui che si era sempre rifiutato di prendere la tessera del partito fascista! E così rimase qui e incontrò me. Lo sai che mi ha conquistata non invitandomi a ballare, lasciandomi seduta tutta la sera? Morire mi ha fatto. Per un po’ gliel’ho fatta pagare. Mi sono fatta inseguire qualche giorno, ma in realtà non vedevo l’ora che mi raggiungesse. Mi era piaciuto fin dal primo sguardo. Ci ha unito da subito una grande passione, una passione che non ci ha mai abbandonato. Un bel giorno, all’improvviso, se ne è andato senza dire nulla. Giovanna non aveva ancora compiuto quattro anni. In un anno le uniche notizie che ho avuto di lui sono state due righe scritte su una vecchia foto per ricordarci che non si era dimenticato di noi. Non me l’ha mai confessato, ma dentro di me ho sempre pensato che fosse andato a trovare la moglie in Cile. Pensava, sbagliandosi, che non lo avrei capito. È ritornato un anno dopo, inaspettatamente, deciso a giocare sporco: o accettavo di tornare insieme a lui, o avrei perso Giovanna. Ho accettato di tornare a vivere insieme a lui a patto di continuare a incontrare Giacomo. Incredibilmente disse che gli andava bene, che per lui non c’erano problemi. Non saprei dirti perché, forse per il senso di colpa per averci abbandonate, o più probabilmente cullandosi nell’illusione che la passione che c’era tra noi fosse sufficiente per ricominciare daccapo come se nulla fosse successo. Ma la passione non basta, Guido, l’amore travolgente senza il rispetto è effimero. È come un arcobaleno: meraviglioso e affascinante, ma destinato a svanire presto”.
Smise di parlare ma non distolse lo sguardo. Gli occhi lucidi, finalmente vuoti.
Deglutii frastornato. Restai a fissarla per un tempo indefinito, inchiodato alla sedia, incapace di infrangere il silenzio che si era impadronito della casa. Poi poco a poco, lentamente, sentii fluire densa e viscosa una sensazione nuova. Per la prima volta mia madre, per la quale avevo provato un odio lacerante e un profondo disprezzo, mi fece pena.
“Scusa, mi dispiace” proferii contrito.
“Non fa niente” mi rassicurò socchiudendo gli occhi. Si avviò al lavabo e riprese a pulire il pesce.
Quella sera mangiai le acciughe più buone della mia vita.

Se sul fronte di mia madre avevo l’impressione di aver compiuto dei passi decisivi verso una piena riconciliazione, lo stesso non si può dire stesse accadendo per quanto riguardava mio padre. Il recupero sulla scena della figura materna evidenziava inesorabilmente l’assenza di quella paterna. Un vuoto netto e doloroso che ritornava prepotente a scuotere i miei sogni. L’uomo con l’impermeabile nero aveva ripreso a sopraggiungere improvviso e inaspettato, con la forza devastatrice di un uragano, lasciando dietro di sé il solito panorama desolato di miseria e morte. Diventavo ostile e invidioso della felicità altrui. Geloso della mia sofferenza, non mi confidavo con nessuno. Incapace di reagire, concedevo al rancore di sfogare la sua furia cieca. Poi attendevo, inerme, che ritornasse l’ordine nel caleidoscopio dei miei pensieri e constatavo con un brivido che più che i tempi del perdono, stavano rapidamente maturando, meno nobili e più pericolosi, quelli della vendetta.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 13)

Marzo 1956

“Guido, finalmente, è un’ora che ti sto cercando!”.
Non l’avevo sentita arrivare. Meravigliosa terapia, il mare. Scrutarlo e rimanerne incantati equivaleva a vivere sotto una campana di vetro e diventare sordi a tutto ciò che non fosse il ritmico sciabordio delle onde tra gli scogli. In piedi, di fianco a mia madre, una ragazzina di un paio d’anni più piccola di me mi osservava sorridente.
Incrociai lo sguardo di Costanza con aria interrogativa.
“È tua sorella Elisa”.
Lanciai un fischio.
“Non ti avrei mai riconosciuta. Quando è l’ultima volta che ci siamo visti? Fammi pensare... saranno nove o dieci anni fa. Eri alta così”. Avvicinai la mano tesa all’altezza dei suoi fianchi.
“Anche tu sei cambiato” replicò senza perdere il sorriso. Sembrava contenta di vedermi.
“La mamma non sa che sono qui. Quando le ho detto che volevo rivederti mi ha risposto che non sapeva dove fossi” disse interrompendo un silenzio che stava diventando imbarazzante. “È stato lo zio a dirmi che eri qui a Camogli e a darmi l’indirizzo”.
Costanza ci offrì un gelato e si allontanò discretamente per lasciarci soli.
“Senti, e lo zio come sta?” domandai incuriosito.
“Bene. Mi ha detto di salutarti” rispose con voce squillante.
Iniziò a piovere. Ci rifugiammo sotto il portico di fronte al porticciolo. Continuai a interrogarla.
“Vivi sempre con i nonni?”.
“No, ormai sono tre anni che vivo con la mamma. E tu? Hai una nuova famiglia”.
“Più o meno”.
Un lieve corrugamento delle sopracciglia tradì la sua sorpresa. Mi fissò in silenzio in attesa di un chiarimento.
“Ritrovare una madre non significa automaticamente ritrovare una famiglia. Soprattutto se nel frattempo si è perso un padre” spiegai con un pizzico di amarezza.
“Posso chiederti una cosa?” domandò e senza aspettare che acconsentissi, tese l’arco e scoccò la freccia che sibilò rapida nell’aria prima di conficcarsi nella parte sinistra del costato. “Ti manca papà?”.
Guardai quella fanciulla con i capelli bruni e lo sguardo innocente. Senza alcun timore reverenziale e, ancor peggio, senza preavviso, mi stava chiedendo di confessarle ciò che avidamente avevo sempre custodito dentro di me. Elisa rispettò la mia esitazione. Restò in attesa, con l’aria di chi non ha fretta e concede tutto il tempo necessario al proprio interlocutore per rispondere a una domanda che si sa essere scomoda. Lo sguardo comprensivo, fermo, impossibile scorgervi il dubbio di avere osato troppo. Nonostante il vincolo di sangue che ci univa era praticamente una sconosciuta. Eppure, per la prima volta, ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a una persona con la quale potevo condividere il mio dolore con la certezza di essere capito. Non c’era più bisogno di fingere.
“Sì, tanto” risposi liberandomi dal dardo che mi aveva colpito. “A volte è insopportabile, vorrei dimenticarlo ma non ci riesco”.
“Anche a me manca. Ma almeno d’ora in poi mi sentirò meno sola”. Mi sorrise con dolcezza e mi avvolse stretto con le esili braccia, cogliendomi del tutto impreparato. Restituii l’abbraccio, forse un po’ goffo ma sincero. L’assordante rimbombo di un tuono infranse la magia del momento. Ripresomi dallo spavento, provai a prolungare l’idillio che si era creato tra noi.
“Hai fatto bene a venirmi a trovare. Aveva ragione la signora Milton, condividere i dolori li rende meno amari”.
“Chi è la signora Milton?”.
“Una gran donna” sospirai con un pizzico di malinconia. “Dopo la morte di papà sono stato quasi quattro anni in un istituto ai Piani d’Invrea, vicino a Varazze. Lì ho conosciuto un’americana, forse un po’ eccentrica ma allo stesso tempo colta e sensibile. Sotto l’aspetto umano mi ha insegnato molto”.
“E poi cosa hai fatto? Quando sei venuto a Camogli? Hai sempre vissuto qui?”. I ruoli si erano invertiti, ora era lei a interrogare me.
“Sono arrivato a Camogli nell’estate del ’52. Come passa il tempo. Sono già trascorsi quasi quattro anni. Me lo ricordo quel giorno, come fosse ieri. Si moriva di caldo, il treno pieno, l’arrivo in un paese dove non ero mai stato. Se ci ripenso...”. Seguiva il racconto con gli occhi attenti, vivi. “Sapevo solamente il nome di mia madre, non ero nemmeno sicuro che vivesse ancora a Camogli”.
“E sei riuscito a trovarla, incredibile!” esclamò.
“Qui tutti sanno tutto di tutti” sospirai sollevando leggermente le spalle.
Mi squadrò perplessa, non capiva la rassegnazione con cui avevo sfumato il mio tono di voce.
“Meno male, no? Altrimenti non l’avresti trovata” osservò inclinando leggermente la testa.
“Sì, ma non è stato affatto facile. Molte delle speranze che avevo sono state frustrate. Ho peccato di ingenuità. Pensavo, o meglio speravo, che con mia madre avremmo potuto riprendere il discorso interrotto dopo la mia nascita. Come se lei avesse smesso di vivere per quattordici anni, in attesa di quel rincontro. Ancora oggi mi costa accettare che avesse provato a ricostruirsi una vita senza di me. Così quando abbiamo provato a smuovere gli ingranaggi del nostro rapporto ci siamo resi conto che erano completamente bloccati, arrugginiti. Abbandonati troppo a lungo, ossidati dall’azione corrosiva dello scorrere del tempo. Con tanta fatica, tra attriti e stridori, hanno ripreso a muoversi, lentamente. Ma ogni tanto qualche pezzo si inceppa e mi assale il dubbio che il tutto avesse ripreso a funzionare solamente nella mia fantasia”.
Feci una pausa. Sollevai lo sguardo che avevo mantenuto fisso su un punto indefinito della strada a qualche metro da noi. Elisa mi scrutava seria, il sorriso contagioso di prima l’aveva abbandonata. Mi sentii in colpa e decisi di parlare d’altro.
“Ma dimmi, a scuola ci vai? Cosa stai studiando?”.
“Il liceo classico”.
“E ti piace?”.
“Abbastanza”.
“Studierete un sacco di poeti. Sai, io adoro la poesia!”.
“Io invece preferisco la matematica”.
Contemporaneamente scoppiammo a ridere. L’eco della nostra euforia risuonò nitido nell’oscurità afona che aveva avvolto il paese. Il porto, saturo degli odori e dei rumori del giorno, si concedeva un meritato riposo. Le barche, esauste per il via vai frenetico dall’alba al tramonto, si erano finalmente addormentate, cullate dal dolce ondeggiare del mare.
Elisa, nonostante la mia insistenza, non si fermò per cena. La accompagnai alla stazione e ci lasciammo con la promessa di rivederci presto, senza far trascorrere nuovamente così tanti anni.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 14)

Marzo 1957

“Ahhii”.
Una fitta acuta e secca. Osservai il sangue sgorgare dal polpastrello dell’indice della mano sinistra.
“Merda”.
Ormai erano un paio d’anni che mi facevo la barba, eppure ogni volta che cambiavo la lama del rasoio rischiavo ancora di tagliarmi. Immersi il dito nel lavandino pieno d’acqua. Una macchia rossa, informe, iniziò ad espandersi. La fissai per pochi secondi. Il sangue e l’acqua mi catapultarono indietro nel tempo e lugubri immagini affiorarono sulla superficie. Spaventato, ritirai di scatto la mano. Tolsi il tappo e feci defluire l’acqua. Il lavandino vuoto mi tranquillizzò. Restai a fissarlo per un po’, inebetito.
Poi alzai lo sguardo e lo specchio riflesse un viso tirato, stanco. Ero provato dai mesi trascorsi in balìa dei capricci del tempo. Per fortuna anche quell’inverno era finito. Rabbrividivo ancora al pensiero delle fredde giornate passate sulle impalcature, più preoccupato di difendermi, invano, dalle intemperie che di rifare, con cura, l’intonaco delle facciate.
Con Elisa, nonostante i buoni propositi, non ci eravamo più incontrati. Non era dovuto a una ragione precisa, semplicemente lei non era più venuta a Camogli ed io non mi ero mai deciso ad andare a trovarla a Genova, per il timore di essere accolto da un’atmosfera ostile. Il calore del nostro incontro si era dissipato gradualmente con la fine dell’autunno, assorbito interamente dalle rigide notti invernali.
Mi ero così ritrovato, come in passato, a combattere solo contro i miei incubi che ripresero a manifestarsi con sempre maggior frequenza ogni volta che mi addormentavo.
Una notte, una delle tante, mi svegliai urlando. Provai inutilmente a riprendere il sonno. Avevo ormai perso il conto delle notti in bianco. Mi alzai esasperato e presi a girovagare per la stanza, in trance. All’improvviso, folgorato da un lampo di folle lucidità, decisi che era giunto il momento di mettere fine a quella vita di inferno. La soluzione che mi si materializzò in testa fu la stessa di sempre. L’idea mi sconvolgeva, eppure per quanto mi arrovellassi alla ricerca di possibili alternative, tra tutti i miei pensieri ne emergeva sempre uno, il solito, tragico e irreversibile. Un brivido mi scosse lungo tutto il corpo. Incominciai a tremare. Improvvisamente mi sentii debole, come una foglia ingiallita che aspetta rassegnata un soffio di vento più forte per abbandonarsi finalmente al proprio destino. Mi sedetti sul letto per paura di cadere. La nebbia che mi appannava la vista si diradò poco a poco e una volta tornato lucido pensai che in fondo non mi serviva molto, solamente una pistola. Ma prima c’era un’altra cosa che dovevo fare, avevo bisogno di parlare con mio zio.
Nei giorni successivi, quella che sembrava già una decisione presa venne messa nuovamente in discussione da un esercito agguerrito di dubbi e patemi. Mi domandai infinite volte se ero pronto ad una scelta così definitiva, se fosse giusto per una persona giovane come me compiere un gesto così cruento e fatale. Restai sospeso nell’incertezza altri quattro mesi, un tempo che, a seconda del mio umore, mi parve un attimo o un’eternità.
 

Diego Repetto

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Diego

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Il baco e la farfalla - Repetto Diego - Libro - IBS - Italia Press - Narrativa
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 15)

Agosto 1957

In una giornata afosa di inizio agosto salii sul treno diretto a Genova. Per non rischiare di fare il viaggio a vuoto, avevo avvisato mio zio il quale, pur non celando affatto la sua sorpresa, si era detto molto contento di rivedermi.

Bussai due volte e rimasi in attesa. Udii un rumore di passi avvicinarsi dietro la porta.
Un sorriso.
“Guido, quanto tempo!”.
“Un po’, sì...”.
Era invecchiato. Capelli grigi disordinati, barba incolta, due profondi solchi che laceravano le guance in diagonale, occhi vitrei. Era come se per lui il tempo, dall’ultima volta che ci eravamo visti, fosse scorso a velocità doppia.
“Mi fa piacere vederti. Al telefono mi hai detto che volevi parlarmi di una cosa importante. Sono tutto orecchi”.
La casa era buia, l’aria stantia. Nella sala, tre nature morte mal dipinte e un vaso di tulipani, così evidentemente finti da non voler nemmeno provare a sembrare veri, appesantivano ulteriormente un arredamento già di per sé opprimente. Le pesanti tende di stoffa marrone impedivano di filtrare anche al più cocciuto raggio di luce. La puzza di fumo, che sembrava emanarsi da ogni oggetto presente, impregnava in profondità tutto ciò che di nuovo e inodore entrava nella stanza. Ero appena arrivato e già desideravo andarmene.
“Allora?” incalzò.
Non sapevo da dove iniziare. Non sapevo quanto del mio piano avrei dovuto dirgli. Se fossi rimasto sul vago, si sarebbe insospettito e mi avrebbe rivolto un sacco di domande. Se avessi invece confessato il fine ultimo per il quale mi trovavo lì, mi avrebbe accusato di essere pazzo, senza capire che era proprio contro la follia che stavo disperatamente lottando.
“Vorrei che mi parlassi di Pietro” dissi tutto di un fiato, distogliendo lo sguardo.
“Pietro?” ripeté stupito. “Cosa vuoi sapere?”.
“Chi gli ha sparato e perché”.
Il sorriso che gli aveva incorniciato il viso da quando mi aveva aperto la porta era già svanito prima del “perché”. Scrollò la testa.
“È successo tanti anni fa. È stata una fatalità”. Nelle pupille dilatate mi parve di scorgere la richiesta disperata di non riesumare un passato luttuoso e ormai dimenticato.
“Sei sicuro?” domandai proseguendo deciso per la mia strada, incurante di riaprire ferite già rimarginate.
“Sì”.
Il breve ritardo della risposta e un’impercettibile incrinatura della voce non mi convinsero.
“Ne sei certo?”.
Altra esitazione.
“No”.
Socchiuse gli occhi, io li spalancai, come folgorato da una violenta scarica elettrica. Nei periodi di maggior sconforto, il sospetto che non si fosse trattato di un incidente mi era già balenato in testa, ma ogni volta lo avevo respinto con veemenza per non rendere ancora più dolorosa la realtà dei fatti. Risucchiato in un gioco perverso, mi afferrai al dubbio per non sprofondare.
“Sei sicuro che non si sia trattato di un incidente?”.
Questa volta rispose deciso.
“Sì”.
Fece una pausa, troppo breve per darmi il tempo di intervenire.
“Non ne ho mai parlato con nessuno. Ho lasciato il mio segreto a marcire dentro, con l’illusione che potesse distruggere il senso di colpa che mi ha tormentato fin dal giorno in cui è morto tuo padre. Mi rendo conto che è stato tutto inutile e, ora che non sei più un bambino, è giusto che tu sappia come andarono realmente le cose”.
Sollevò lo sguardo, fino a quel momento fisso sul pavimento, come aspettandosi una mia reazione. Seduto al contrario, con il mento appoggiato allo schienale delle sedia, lo ascoltavo immobile, mummificato dalle sue parole.
“La polizia sospettava che Pietro fosse coinvolto nell’attentato alla caserma di Pegli. Anzi, ad essere precisi, pensavano proprio che fosse stato lui a mettere la bomba. Un commissario dei carabinieri, lo stesso che poi gli ha sparato, mi contattò e mi fece una proposta. Avrei dovuto sottrarre di nascosto la pistola a mio fratello, in modo da evitare sparatorie quando lo avrebbero arrestato. Lì per lì mi sembrò una proposta sensata. Così attesi l’occasione giusta e quando eravamo dal sarto, senza che se ne accorgesse, ho tolto la pistola dalla tasca interna del cappotto. Poi, quando sono venuto via dal barbiere, ho avvisato i carabinieri. Sapevano quindi che era disarmato. La legittima difesa fu una scusa. Se gli hanno sparato è perché volevano farlo fuori”.
Un bruciore intenso si espanse dal centro dello stomaco, fino a raggiungere il cervello. Mi alzai di scatto, rovesciando la sedia, e scaricai la tensione accumulata sul primo oggetto che mi capitò tra le mani. Afferrai stretto il vaso di tulipani e, con un grido acuto, lo scagliai con forza contro la libreria. Col respiro affannato, rimasi ad osservare spaesato la mia collera ridotta in frantumi, ripetendo a bassa voce:
“Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo....”.
Avrei voluto dirgli che era stato uno stupido, peggio, un bastardo. Avrei voluto raccogliere ogni frammento sparso sul pavimento, ricomporre il vaso e, con ancora maggior violenza, lanciarglielo addosso. Avrei voluto, ma quell’uomo, quel pezzo di merda, mi serviva ancora. Ingoiai così il disprezzo che provavo per lui.
“Come si chiama” scandii il più calmo possibile.
“Chi?”.
“Il commissario dei carabinieri”.
Era come se stesse disinnescando una bomba, ad ogni risposta rischiava di tagliare il filo sbagliato.
“Non mi ricordo. Ma....”.
“Voglio quel nome!” urlai isterico.
“Ma...” iniziò a balbettare.
“Vo-glio il no-me” ripetei serio, recuperando il controllo.
“Aspetta qui” disse. Si alzò e sparì in un’altra stanza. Ritornò poco dopo, con alcuni ritagli di giornale tra le mani. Mi porse dei fogli ingialliti, ricoperti da un sottile strato di polvere.
“Ho conservato alcuni articoli dell’epoca. Forse ti possono essere utili”.
Iniziai a leggerli avidamente, fino a quando la ragnatela dei ricordi si fece così fitta da offuscarmi la vista. Distolsi lo sguardo per una manciata di secondi, poi ripresi a scorrere le righe, impaziente. Finalmente trovai ciò che stavo cercando.
“Commissario Baldoni” lessi lentamente a voce alta.
“Questo lo prendo io, in prestito” dissi rivolto a mio zio, piegando in quattro il foglio che avevo in mano e infilandolo nella tasca dei pantaloni.
“Guido... non fare pazzie” mi supplicò visibilmente allarmato.
“I pazzi fanno cose senza senso. Quello che ho intenzione di fare ha senso, eccome se ha senso” risposi, e mi diressi verso l’ingresso, scortato da un ritmico scricchiolio di porcellana.
Mi aprì la porta e, prima che uscissi, si avvicinò per abbracciarmi. Sgusciai fuori, disgustato. Mi fermai sul primo gradino e mi voltai a guardarlo. Mi sembrò ancora più vecchio di quando ero arrivato.
“Mi fai schifo” sentenziai, e sparii inghiottito dalla tromba delle scale.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 16)

Ottobre 1957

Non era stato difficile procurarmi l’indirizzo dell’assassino di mio padre. Il commissario Baldoni era rimasto a Genova solamente un paio di mesi. In seguito a movimentate manifestazioni di protesta e per placare gli animi surriscaldati dei compagni di Pietro, era stato trasferito d’urgenza a Imperia e viveva ad Arma di Taggia.
Dissi al lavoro che il giorno dopo non sarei potuto andare e che non mi aspettassero nemmeno il giorno successivo. Non mi avrebbero visto per un po’. Dal tono risoluto della mia voce capirono che non era il caso di porre domande.
La mattina seguente mi svegliai presto. Era il mio giorno. Lo aspettavo da nove lunghi anni. L’attesa sarebbe finita. La sete di vendetta finalmente soddisfatta. Non volevo che il commissario Baldoni pensasse che a sparargli fosse un vagabondo qualunque. Anche se da morto forse non avrebbe potuto pensare. Sorrisi. Mi feci la barba, una doccia, mi spruzzai un po’ di colonia, indossai un paio di pantaloni puliti, una camicia bianca e la giacca blu. Nella tasca interna infilai la pistola. L’avevo comprata per qualche centinaio di lire a Genova in un’armeria nei vicoli del centro storico. All’epoca nessuno chiedeva il porto d’armi, bastava pagare.
Una leggera brezza rinfrescava l’aria. Salii sul treno e cercai uno scompartimento vuoto. Volevo restare solo con i miei pensieri. Mi accesi una sigaretta e guardai fuori dal finestrino. Il solito dilemma mi assalì all’improvviso. Nuovamente mi chiesi se ciò che stavo facendo fosse giusto o no. Vidi il viso di mio padre riflesso sul finestrino. Il suo sguardo dolce. Il suo sorriso rassicurante. I ricordi hanno il potere di bloccare il tempo. Mio padre era sempre lo stesso, in tutti quegli anni non era invecchiato nemmeno un po’. L’esitazione svanì immediatamente, spazzata via dalla nostalgia.

Il convoglio ferroviario arrivò ad Arma di Taggia con dieci minuti di ritardo. Non avevo fretta, anche se più il tempo passava più diventavo nervoso e più desideravo concludere la faccenda.
Entrai in un bar per chiedere informazioni, presentandomi come un nipote del commissario che non vedeva da tempo. Volevo fargli una sorpresa, aggiunsi. In fondo era vero, non mi stava certo aspettando.
Trovare la casa del commissario non fu impresa facile. Viveva in una casa isolata e per raggiungerla avevo dovuto attraversare un bosco variopinto di castani. Era una giornata calda e soleggiata, più che autunno sembrava estate. Con un cinismo nel quale stentai a riconoscermi, pensai che era un peccato dover lasciare questo mondo in una giornata del genere. Scossi la testa lentamente. Non potevo certo preoccuparmi del clima in quel momento.
Suonai il campanello. Un uomo sulla quarantina mi aprì la porta.
“Cerco il commissario Baldoni” dissi cercando di non tradire l’emozione.
Mi squadrò rapido e mi rispose con sguardo interrogativo.
“Sono io. Posso sapere chi è lei e perché mi sta cercando?”.
“Ho delle cose importanti da dirle, ma preferirei farlo dove nessuno ci può sentire”.
Stavo improvvisando. Nelle ultime settimane mi ero immaginato la scena un numero infinito di volte. Avevo analizzato i diversi scenari. Mi ero ripetuto le possibili battute, le domande, le risposte. Avevo studiato tutto nei minimi particolari. Nessun dettaglio lasciato al caso. E invece l’emozione mi aveva fatto dire la cosa più stupida e banale che potessi dire. Merda, avevo mandato tutto a puttane. Ma lo sconforto non fece in tempo ad assalirmi. Con mio grande stupore, il commissario mi disse di aspettare che si mettesse le scarpe. Non potevo crederci. Riapparve poco dopo, chiuse la porta alle sue spalle, mi invitò a seguirlo e ci inoltrammo in mezzo al bosco.
“Allora, sentiamole queste cose importanti, signor....” disse scandendo le parole.
“Tommasi. Guido Tommasi. Sono il figlio di Pietro Tommasi”.
“ Bene, signor Tommasi figlio di Pietro Tom.....”. Non riuscì a concludere la frase. Gli occhi sbarrati. Lo sguardo incredulo. Aveva capito.
“Sì, brutto bastardo, sono il bambino che hai reso orfano nove anni fa. E oggi sono qui per rendere giustizia a mio padre”.
La voce mi tremava dalla rabbia e dalla paura. Senza rendermene conto, avevo sfilato la pistola dalla tasca della giacca, il braccio era teso verso il commissario. Con il dorso della mano destra mi asciugai il sudore che mi colava sugli occhi.
Capì immediatamente che facevo sul serio. Incominciò a supplicarmi.
“Senti ragazzo, non fare pazzie. Ascoltami, ti prego. È successo tanti anni fa. È stato un incidente”.
“Un incidente un *****, pezzo di merda. Sapevi che era disarmato. Eri d’accordo con suo fratello. Che stronzo e ingenuo, scendere a patti con uno sbirro. Me l’ha raccontato come sono andate le cose. Quando mio padre era dal sarto, gli ha sottratto la pistola dalla tasca del cappotto. Così nessuno si sarebbe fatto del male, gli avevi detto. E invece volevi solamente essere sicuro che fosse disarmato. Lo hai ammazzato a freddo, come un cane randagio. Esattamente come ora io ucciderò te”.
La paura era sparita. Ero accecato dall’ira nei confronti di quell’uomo. Era la seconda volta in vita mia che lo incontravo, ma la sua immagine cupa mi aveva fedelmente accompagnato per anni nei miei incubi peggiori.
“Senti ragazzo. Mi dispiace davvero tanto. Chiedimi cosa posso fare per te, qualunque cosa, ma ti prego, non ammazzarmi”.
Aveva le lacrime agli occhi e il volto trasfigurato dal terrore.
Non provavo nessuna pena.
“ È semplice. Voglio vendicare mio padre. O meglio detto, voglio fare giustizia”.
“Ti scongiuro. Se non per me, fallo per i miei figli. Ho un figlio di dodici e una figlia di otto anni. Abbi pietà almeno di loro, ti supplico”. Singhiozzava, era disperato. Si guardò intorno, iniziò a gridare. Chiedeva aiuto.
“Anche mio padre aveva due figli” dissi lentamente. Mirai al cuore e premetti il grilletto.
Cadde all’indietro. Una macchia scura iniziò a propagarsi sulla camicia azzurra. Il rimbombo dello sparo mi aveva spaventato. Era stato ancora più forte rispetto a tutte le volte che lo avevo sognato. Gettai la pistola e corsi via. Arrivai in paese che avevo il fiatone e la gamba destra tutta indolenzita. Quel giorno era cambiata la mia vita. Avrei smesso di fumare, pensai. Mi sentivo leggero, mi ero tolto un macigno che avevo dentro, avevo finalmente liberato il rancore che avevo coltivato per così tanto tempo. Alzai lo sguardo verso il cielo terso. Mio padre forse non sarebbe stato d’accordo, ma sicuramente avrebbe capito. Mi capiva sempre lui. Sapeva cosa volevo, cosa mi passava per la testa. Capiva quando doveva essere severo e quando invece era meglio farmi una carezza e abbracciarmi dolcemente. Sentii per un istante che mi ero riappropriato della sua presenza e di tutto quello che ingiustamente mi avevano portato via. Era lì, insieme a me. Sentii la sua voce dirmi ciò che tante volte mi aveva ripetuto, che solamente coloro che si assumono le proprie responsabilità si guadagnano il rispetto altrui. Aveva ragione. Sapevo cosa avrei dovuto fare.

Venti minuti dopo mi trovavo di fronte al comando dei carabinieri. Suonai il campanello e al ragazzo in divisa che mi aprì la porta dissi che avevo giustiziato l’assassino di mio padre.
Fui immediatamente trasferito in carcere a Cuneo. Dato che mi ero dichiarato colpevole, mi processarono per direttissima. Fu l’avvocato d’ufficio a informarmi che il commissario non era morto.
“Sei stato fortunato, ragazzo, tre centimetri più in basso e gli avresti spappolato il cuore. Addio commissario e addio libertà. Avresti trascorso il resto della tua vita in prigione”.
Lo aveva trovato la moglie in fin di vita e all’ospedale erano riusciti a salvarlo. Mi assalì lo sconforto, ma non dissi nulla. Sapevo che l’avvocato non avrebbe compreso. Non ero riuscito a vendicare mio padre. Mi sentii un fallito.
“Se riusciamo a convincere il giudice che eri un povero orfano tormentato dal dolore forse te la caverai con poco”.
Strizzò l’occhio in cerca di complicità. La sua faccia sorridente e soddisfatta di chi pensa di avere incontrato una soluzione geniale mi nauseò.
“Senta, è la prima volta che mi vede in vita sua. Conosce appena il mio nome. Non sa nulla di me. Ignora il mio passato. Sa solo che mio padre è morto. La smetta con questa pagliacciata dell’orfanello. Non c’è da convincere proprio nessuno”.
S’irrigidì come se gli avessero dato un pizzicotto in mezzo alla schiena. Con un gemito di stizza si alzò e si avviò verso l’uscita.
“Spero che la severità del giudice sia tanta quanto la tua insolenza” starnazzò senza nemmeno voltarsi.

Mi condannarono a cinque anni e quattro mesi. La vigilia di Natale venni trasferito nel carcere di Viterbo.
 

Minerva6

Monkey *MOD*
Membro dello Staff
Sto leggendo con piacere il tuo romanzo,capitolo dopo capitolo,ma non sapevo che il protagonista fosse realmente esistito e che per giunta fosse un tuo parente,l'ho appena scoperto leggendo i link da te postati.
Quanti capitoli mancano?
 

Diego Repetto

New member
Una storia vera

Sto leggendo con piacere il tuo romanzo,capitolo dopo capitolo,ma non sapevo che il protagonista fosse realmente esistito e che per giunta fosse un tuo parente,l'ho appena scoperto leggendo i link da te postati.
Quanti capitoli mancano?

Ciao!
Già, si tratta di una storia ispirata a fatti realmente accaduti. Se non mi fosse stata raccontata direttamente dal protagonista e se non avessi avuto conferma da terzi, confesso che io stesso avrei difficoltà a credere che tutti i fatti descritti nel libro possano davvero essere accaduti.... è una storia inimmaginabile!
In tutto sono 39 capitoli, ne mancano quindi 23.
Ciao :)
Diego
P.S. Se volessi procedere più rapida nella lettura o ti facesse piacere possedere il libro, posso spedirti una copia cartacea con un po' di sconto (8 euro invece dei 12 che pagheresti in libreria :))
 

Minerva6

Monkey *MOD*
Membro dello Staff
Ciao!
Già, si tratta di una storia ispirata a fatti realmente accaduti. Se non mi fosse stata raccontata direttamente dal protagonista e se non avessi avuto conferma da terzi, confesso che io stesso avrei difficoltà a credere che tutti i fatti descritti nel libro possano davvero essere accaduti.... è una storia inimmaginabile!
In tutto sono 39 capitoli, ne mancano quindi 23.
Ciao :)
Diego
P.S. Se volessi procedere più rapida nella lettura o ti facesse piacere possedere il libro, posso spedirti una copia cartacea con un po' di sconto (8 euro invece dei 12 che pagheresti in libreria :))

Certo che sono proprio fuori...c'è scritto pure nel titolo del 3d che è una storia vera :mrgreen:.

Non è per non spendere gli 8 euro (i soldi per i libri sono sempre spesi bene),ma ho già tanti libri a casa in attesa che il tuo preferisco leggerlo qui un capitolo alla volta,come si faceva prima con i romanzi pubblicati a puntate sulle riviste.
Ti ringrazio dell'offerta e mi scuso,però mi farò perdonare con una bella recensione in PB :wink:.
La storia è ben narrata,ha davvero un ritmo avvincente e l'argomento mi ha sempre destato interesse.
 

Diego Repetto

New member
Il baco e la farfalla (capitolo 17)

Gennaio 1958

La fila doveva essere perfetta. Dovevamo camminare al centro del corridoio, tra due pareti invisibili distanti mezzo metro l’una dall’altra. Guardare sempre di fronte. Mantenere costantemente la solita distanza da chi ti precedeva. Assolutamente vietato perdere il passo. Proibito parlare. Si entrava nei bagni a gruppi di cinque, sfasati di due minuti e mezzo, in modo che nelle docce non ci fossero mai più di dieci persone contemporaneamente. Trenta secondi per spogliarsi. I secondi cinque si insaponavano, mentre i primi cinque terminavano di sciacquarsi. Un minuto e mezzo per la prima operazione, altrettanto per la seconda. Altri trenta secondi per asciugarsi. Un minuto per rivestirsi. Tempo totale: cinque minuti.
La prima volta sei schifato dagli scarafaggi che ti sfrecciano tra i piedi e imbarazzato da tutti quei corpi nudi, molti dei quali in disfacimento, che a volte ti sfiorano e altre volte ti scontrano. Non sai dove rivolgere lo sguardo, hai il timore di venire sorpreso mentre ti soffermi disgustato sui casi estremi, quelli troppo adiposi e quelli invece che ti ricordano un ramo secco e spoglio. Poi ci fai l’abitudine, agli insetti e a tutto il resto, ti rendi conto che il tempo è contato, ti dimentichi di ciò che ti circonda e ti concentri sulle azioni da compiere, impegnandoti a non sgarrare.

“Non fidarti di nessuno”.
Mi volsi per vedere a chi apparteneva la voce alle mie spalle. Un uomo col volto scavato, ciuffi radi di peli neri in testa, l’unico incisivo rimasto spezzato a metà, le spalle spioventi.
“Scusa?”.
“Non fidarti di nessuno. Il più buono qui dentro venderebbe sua madre per un pacchetto di sigarette. Diffida sempre di chi ti offre un favore”.
Ero disorientato.
“Perché me lo dici?” domandai senza smettere di insaponarmi.
“Perché hai la faccia simpatica. Sicuro che sei qui per sbaglio”.
Allungò il braccio.
“Enrico”.
“Guido” mi presentai titubante.
Le mani scivolarono l’una sull’altra, ribellandosi alla stretta. Terminammo di lavarci in un incrocio di sguardi. Mentre mi infilavo i pantaloni, facendo attenzione a non farmi udire dalla guardia, gli sussurrai:
“E di te mi posso fidare?”.
Sorrise.
“Di me sì” rispose ammiccando.

In cella, sdraiato sulla branda, ripensai all’incontro. Quel tizio aveva proprio una brutta cera, ma in prigione un aspetto del genere era quasi la norma. Gli occhi però erano vivi e, soprattutto, mi erano parsi sinceri. In ogni caso non riuscivo a spiegarmi come mai mi avesse messo in guardia, da cosa e da chi. Forse era solo un avvertimento generico, forse gli ero simpatico davvero. Pensava che fossi lì per errore. Si sbagliava. E lui? Chissà per quale ragione si trovava lì. Magari anche lui aveva provato ad ammazzare qualcuno. Magari, diversamente da me, ci era anche riuscito, ed ora aveva la coscienza a posto e l’anima in pace. Io, invece, avevo coltivato la mia nemesi per anni. Mi aveva, non ancora identificata, tormentato e divorato dall’interno. Poi, quando finalmente ero riuscito a darle forma e azione, era sfumata per pochi miserabili centimetri, lasciandomi invaso da aride sensazioni, prosciugato, più assetato che mai.
Ora non mi restava altro che rincorrere pensieri che, come una pallina impazzita di gomma, rimbalzavano caotici tra le quattro pareti che delimitavano lo spazio angustio in cui ero rinchiuso.

Rividi Enrico il sabato successivo, durante l’ora d’aria. Era seduto su una panchina e osservava distrattamente la partita di calcetto che si stava svolgendo nel cortile della prigione. Lo raggiunsi e mi sedetti al suo fianco. Mi allungò il pacchetto di sigarette, guardandomi di sfuggita.
“Vuoi?”.
Dopo aver sparato al commissario Baldoni avevo deciso di smettere, ma il fallimento della vendetta, mi dissi, annullava automaticamente quella promessa.
“Grazie”.
Quando si accorse che la sigaretta penzolava spenta tra le mie labbra, mi porse la sua per accenderla. Aspirai a lungo per riempirmi i polmoni. La prima tirata era sempre la migliore. Soffiai il fumo verso l’alto e rimasi a fissare il cielo. Enrico sembrava ignorare la mia presenza. Il suo atteggiamento contrastava con l’approccio confidenziale che aveva avuto nelle docce qualche giorno prima. Si era ficcato in bocca il mozzicone che gli avevo restituito e, con aria annoiata, aveva aspettato che si consumasse solo.
“Perché non giochi?” domandai per rompere il ghiaccio.
“Perché voglio troppo bene alle mie gambe per regalarle a dei macellai. Le partite servono per regolare i piccoli diverbi avuti durante la settimana. Guarda, alcuni si disinteressano completamente della palla e puntano diretti alle caviglie”.
Con un movimento del capo mi invitò a verificare quanto aveva affermato.
“Ogni tanto nella confusione qualcuno si sbaglia e rompe la caviglia di uno che non c’entra un *****. Non mi va di correre il rischio, tutto qui” chiarì sollevando appena le spalle.
“Perché hai detto “piccoli diverbi”?”.
“Si vede che sei arrivato da poco”. Il suo tono mi fece sentire un ingenuo.
“Quando hai un problema, uno vero, non ti accontenti delle caviglie”.
Giocava con le pause, si divertiva a stuzzicare la mia curiosità. Raccolse la palla che era rotolata ai suoi piedi e la restituì a un giocatore che si era avvicinato alla panchina.
“Vedi quello che ha preso la palla?”.
Annuii.
“Lo chiamano il “droghiere”. Se hai bisogno di qualcosa, lui te la procura. I prezzi sono onesti. La merce più richiesta sono i coltelli. Servono per risolvere i problemi, quelli seri”.
Iniziavo a capire.
“Vedi il portiere?”.
“A destra o sinistra?”.
“Destra”.
Feci cenno di sì.
“Gaetano detto “Marzapane”. Meglio stargli alla larga. Quando era fuori faceva parte di un gruppo di banditi siciliani. Qui in carcere controlla il giro delle scommesse. Un paio di mesi fa ha sorpreso uno mentre gli rubava dei soldi. Due giorni dopo l’hanno trovato nelle docce in un lago di sangue, una decina di coltellate alla schiena, altrettante in pancia, le dieci dita amputate infilate in bocca. Un lavoretto da professionisti”.
Sentii un conato di vomito salire dallo stomaco. Riuscii a fatica a rispedire al mittente i succhi gastrici che percorsero a ritroso la laringe lasciandomi in bocca un disgustoso retrogusto acidulo. Restai a fissare, incredulo, l’uomo che giocava in porta alla mia destra. A vederlo dava l’impressione di uno che non avrebbe ucciso nemmeno una mosca.
“Perché “Marzapane”?” domandai non appena ritornai in me.
“Pare che sia goloso di pasta di mandorle. Sai com’è, ognuno ha i suoi vizi” sospirò Enrico allargando le braccia.
Un fischio acuto e prolungato annunciò il rientro in cella. I giocatori smisero di essere giocatori, gli spettatori di essere spettatori, e tutti si trasformarono nuovamente in carcerati. Un insieme scomposto e zoppicante di volti madidi e impolverati si trascinò stancamente verso la porta del cortile. Anche quel giorno, come sempre, quei maledetti sessanta minuti, pessimo surrogato della libertà perduta, erano passati troppo in fretta.

Quando giunsi di fronte alla cella vidi che i miei due compagni erano già rientrati. Respiravano la mia stessa aria da quasi tre settimane, eppure non sapevo nulla di loro. Ignoravo le loro storie, perché si trovassero lì, quanti anni dovessero scontare. Del resto in prigione si imparano subito alcune regole di “sopravvivenza” senza che nessuno te le spieghi. Non ce n’è bisogno, semplicemente lo avverti. Anche se nessuno te l’ha detto, sai che non devi mai chiedere a una persona il motivo per cui si trova in carcere. Se e quando sarà il momento, sarà lei a dirtelo. Scopri che meno ti interessi di ciò che succede intorno a te e meglio è. Capisci che il modo migliore per non incorrere in una domanda inopportuna è non farla. Presto ti rendi conto che la prigione è come un grande bazar di seconda mano, sporco e maleodorante, dove la speranza è esaurita da un pezzo, la morte è perennemente in saldo e la curiosità ha quasi sempre un prezzo elevatissimo.
Mi sdraiai sul letto, lentamente, cercando inutilmente di non farlo cigolare per non infrangere il silenzio. Assunsi una posizione fetale sotto la coperta ricoperta di pulci e, rassegnato, attesi che la noia e il torpore venissero a farmi visita.

Trascorse un’altra settimana.
Appena varcata la porta del cortile mi accorsi che la panchina era vuota. Cercai Enrico con lo sguardo, ma in tutto lo spiazzo non c’era traccia della sua presenza. Attesi che l’azione si svolgesse lontano da me e attraversai di corsa il campo da gioco. Presi posto sulla panchina. La visione era perfetta, potevo controllare il cortile intero con un semplice movimento degli occhi. “Marzapane” quel giorno non stava giocando. Era appoggiato al muro, scortato da un paio dei suoi uomini, e si guardava intorno nervosamente, come se si sentisse minacciato da qualcosa.
Finalmente apparve Enrico, sulla soglia della porta d’ingresso. Alzai un braccio e lo mantenni sollevato fino a quando non lo vidi venire verso di me.
“Il medico è proprio un figlio di puttana” sbottò prima ancora di sedersi. “Lo devi supplicare perché ti dia una medicina del *****. Avevo lo stomaco in fiamme, non riuscivo nemmeno a stare in piedi. Mi hanno portato in infermeria dove ’sto stronzo mi ha visitato e mi ha detto che non era niente. Quanto si è fatto pregare per due pastiglie! Manco le pagasse lui! Ti auguro davvero di non averci mai nulla a che fare”. Sputò per terra la sua rabbia.
“Mi spiace. Ora come va?”.
“Meglio” rispose poco convinto, sfregandosi con una mano il viso e con l’altra la pancia.
Si sedette al mio fianco e si accese una sigaretta senza offrirmene. Fece due tiri, poi me la passò.
“Vuoi fumare? È l’ultima”.
“No grazie”.
Restammo qualche minuto in silenzio ad osservare la partita.
“Ho chiesto la grazia” disse senza voltarsi.
“Cosa hai chiesto?”.
“La grazia. Al presidente della Repubblica. Che mi faccia uscire da qui”.
Probabilmente si rese conto che non mi aveva mai detto per quale ragione si trovasse lì, perché prima che potessi dire qualcosa iniziò a raccontare:
“Sono otto anni che sono dentro e non ho ammazzato nessuno. Si tratta di un gioco da ragazzi, mi avevano detto. Niente armi vere, solo pistole giocattolo. Non devi nemmeno entrare in banca, tu resti fuori e fai da palo. Dai Chicco, senza di te il colpo salta. Erano amici di vecchia data, mi sono fidato. Invece Lele si era portato dietro una pistola vera e quando l’impiegato si è rifiutato di aprirgli la cassaforte lo ha fatto secco. Ma come ***** si fa a sparare a una persona disarmata?”.
Non riuscii a sostenere il suo sguardo. Non saprei dire se non notò o ignorò deliberatamente il mio imbarazzo. In preda a un’improvvisa agitazione, proseguì travolgente, come un fiume in piena.
“Li ho visti uscire di corsa. Sei un coglione! Un idiota! Gli urlava Johnny. Salta in macchina. Presto. E dopo aver sbattuto le portiere. Dai ***** Chicco, metti in moto e parti che se ci beccano siamo fottuti!”.
Prese il respiro, espirò piano, recuperando la calma.
“Ci hanno beccato a un posto di blocco all’uscita della città” concluse con voce atona.
Otto anni e chissà quanti altri ancora da scontare per aver fatto da palo in una rapina finita male. Cinque anni per aver voluto ammazzare una persona e non esserci riuscito per avere sbagliato il tiro. Mai come in quel momento la giustizia mi sembrò così poco giusta.
“Pensi che te la concederanno? La grazia, intendo”.
“Non lo so. Ma sono stufo di marcire qui dentro. Guardami. Ho trentacinque anni e ne dimostro cinquanta. Ogni anno trascorso in prigione equivale a tre passati fuori”.
Pensai che era vero, pareva molto più vecchio di quanto fosse in realtà. Enrico socchiuse gli occhi, vergognandosi del velo di tristezza che li aveva ricoperti.
“Vedrai che accetteranno la tua richiesta” cercai di consolarlo.
Fummo interrotti dal segnale di rientro. Ci incamminammo in direzione dell’uscita, mischiandoci al resto dei detenuti, trascinando i piedi, risucchiati contro la nostra volontà come tanti piccoli granelli di polvere.
Vidi che “Marzapane” si manteneva ai lati del flusso, protetto dalle sue guardie del corpo. Ogni due o tre passi, dava una rapida occhiata alle proprie spalle. Lo feci notare a Enrico.
“Tre giorni fa, in un casolare nella campagna di Palermo, hanno arrestato Totò “Barracuda”. Gaetano era il suo braccio destro. Girano voci che sia stato proprio lui a fare la soffiata ai carabinieri. Se anche i complici di “Barracuda” ne sono convinti, “Marzapane” è un uomo morto”.
Mi domandai come facesse a saperlo, evitando accuratamente di chiederglielo. Avevo sentito dire che in prigione le voci girano più rapidamente che in ogni altro posto. La notizia dell’arresto di “Barracuda” aveva impiegato tre giorni per raggiungermi. Sollevai le spalle e sorrisi dentro di me, dovevo proprio essere l’ultimo in tutto il carcere di Viterbo a esserne venuto a conoscenza.

Un paio di giorni dopo mi toccò il turno nelle docce insieme a Enrico.
“Te l’avevo detto che era un fantasma che camminava” disse piano.
“Lo hanno ammazzato?” domandai sorpreso.
“Avvelenato con un caffè. Per uno come lui, una morte sciocca e senza gloria. Sinceramente lo facevo più intelligente” rispose beffardo.
 

Diego Repetto

New member
Il baco e la farfalla (capitolo 18)

Luglio 1958

“Ancora niente?”.
“Niente. E tu?”.
“Niente”.
Ogni sabato la scena si ripeteva uguale. Sembravamo i protagonisti di un vecchio film che il proprietario di un fatiscente cinematografo caduto in disgrazia si ostinava a proiettare per un pubblico sempre più scarso e annoiato. Erano quattro mesi che, imperterrito, soffiava via la polvere dalla pizza con la pellicola, avvolgeva i primi fotogrammi intorno a quella vuota e, dopo essersi accomodato nella sala di proiezione in compagnia di un bicchiere di whisky scozzese, si accingeva per l’ennesima volta a domandarsi se per caso quei due poveretti non avessero meritato maggior fortuna. Sapeva le battute a memoria, eppure sperava sempre in un colpo di scena a sorpresa. Anche quella volta, invece, non era accaduto niente.
“La mia domanda sarà capitata in mano a un burocrate distratto e in questo momento sarà sepolta sotto una pila di scartoffie alta così” si lamentò sconsolato, posizionando la mano destra a circa un metro da terra. Le mani di Enrico, in continuo movimento, conferivano spesso una sfumatura teatrale alle sue esternazioni.
“Te l’aveva detto l’avvocato che ci sarebbe voluto del tempo” gli ricordai “cerca di avere pazienza”. Poi aggiunsi, poco convinto “Vedrai che presto ti diranno qualcosa”. In verità incominciavo a credere che non gli avrebbero mai concesso la grazia, e più me ne convincevo, più mi faceva pena.
“L’avvocato... ma come faccio a fidarmi di quello che mi ha detto, se durante il nostro colloquio non faceva altro che guardare l’orologio e camminare avanti e indietro per la stanza! Te lo dico io, a quello stronzo non gliene frega niente della mia grazia. Tanto ci sono io, non lui, in questo schifo di posto” ribatté amaro.
Enrico era cambiato. Da quando si era illuso di riacquistare la libertà, la sua condizione di recluso gli risultava ogni giorno più difficile da sopportare. Mi venne in mente quando, parecchi mesi prima, mi aveva rivelato che una delle poche cose utili del carcere è che ti insegna ad essere indipendente. Mi aveva fissato negli occhi e aveva detto: Quando sei dentro impari a non avere bisogno di nessuno, è l’unico modo per sopravvivere e non affogare nel mare di merda in cui stiamo nuotando. Ora, invece, mi sembrava che il suo stato d’animo dipendesse disperatamente dai nostri rari colloqui. Percepivo che si aggrappava con tutte le forze alle poche parole che gli rovesciavo addosso per cercare di persuaderlo a non desistere. Mi sentivo responsabile e incominciai a temere che potesse abbandonarsi a un gesto sconsiderato senza avere in seguito la possibilità di pentirsene.
“Ogni anno sono centinaia i detenuti che chiedono la grazia. Ogni caso è diverso dagli altri e richiede uno studio specifico. I tempi si allungano, ma ciò non significa che l’esito sarà negativo” argomentai.
“Chi sta fuori non si rende conto” replicò secco. “Il ritmo della loro vita è scandito dai loro problemi, non dai nostri. Il lavoro, la famiglia e tutto il resto. Un ritmo frenetico, una corsa affannosa senza un attimo di respiro. A loro il tempo manca, a noi avanza”.
Non lo avevo mai visto così pessimista. Pensai che quel giorno sarebbe stato difficile fornirgli un solido appiglio a cui attaccarsi. Feci un ultimo disperato tentativo.
“Cosa vuoi che sia un mese in più o in meno rispetto agli anni che ti aspettano una volta libero”.
Un raggio di sole aveva scovato un varco tra le nubi e illuminava il volto stanco di Enrico. Scosse la testa.
“Non ci libereremo mai dall’onta del carcere. Ladri, assassini, stupratori, siamo la parte malata della società. Una società che si riempie la bocca di tante belle parole: recupero psicologico, rieducazione, reinserimento sociale. Tutte stronzate. Guardati attorno e dimmi sinceramente se pensi che ci sia qualcuno che una volta uscito da qui avrà una vita normale”. Con il braccio teso e il palmo rivolto verso l’alto aveva descritto nell’aria un semicerchio che andava da un lato all’altro del cortile.
Spazzai con lo sguardo lo spazio circostante. Non trovai difetti nell’analisi di Enrico. Tacqui.
“Pensano alla cura e non si occupano mai della prevenzione. Nessun politico che si domandi perché alcune persone rubano. Nessuno che provi ad evitare un omicidio piuttosto che limitarsi a trovare e punire il colpevole. Il disagio sociale non esiste per volontà divina, è il prodotto di un certo tipo di società, un modello ben preciso in cui la povertà di molti è funzionale alla ricchezza di pochi. La riprova è che tra coloro che detengono il potere non c’è nessuno che si preoccupi veramente del disagio sociale, che provi a sradicarlo”.
Faticavo a seguirlo. La sicurezza con la quale esprimeva le sue idee era sufficiente per convincermi del fatto che avesse ragione. Mi limitavo però a una condivisione superficiale. Le sue parole mi apparivano come un bel quadro di cui riuscivo ad apprezzare solamente la lucentezza dei colori e la precisione delle singole figure senza coglierne il significato nella loro complessità. Enrico si accorse della mia difficoltà e fece una pausa. Si accese una sigaretta.
“Vuoi dire che un ladro sarà per sempre un ladro e un assassino resterà per sempre un assassino?” domandai per verificare se avevo capito.
“Proprio così”. Nel suo sorriso appena accennato colsi la soddisfazione di chi ottiene la conferma di aver trasmesso con successo un concetto complicato.
“Se trascorri vent’anni in carcere, quando esci non sei nemmeno in grado di riconoscere ciò che ti circonda” proseguì. “Ti ritrovi nuovamente, senza volerlo, nella condizione di emarginato. Non sai come muoverti. Te lo dico per esperienza personale. La prima volta che sono finito in prigione ci sono restato solamente cinque anni e quando sono uscito era come se ne fossero passati venti. Per un detenuto, oltre al danno di invecchiare più velocemente, c’è la beffa di ritrovarsi poi in un mondo sconosciuto. Il mondo avanza, non può permettersi di fermarsi ad aspettare chi è finito in galera. Il progresso è inarrestabile. Le città cambiano, i lavori cambiano, gli usi e i costumi cambiano, tutto cambia al di là di queste mura. Qui invece tutto resta uguale, cristallizzato. Siamo un baco che mai si trasformerà in farfalla”.
Lo osservai sorpreso. Non mi aveva mai confessato di essere già stato in carcere. Lo vidi esausto, senza più voglia di lottare. Sentii che il suo pessimismo mi stava lentamente contagiando. Sarei dovuto rimanere lì altri quattro anni e nove mesi. Mi chiesi come sarebbe stato il mondo che avrei trovato una volta fuori. Davvero irriconoscibile? Ed io? Sarei rimasto per sempre un assassino mancato?
Il segnale di rientro mi riportò bruscamente al presente. Mi alzai e porsi la mano a Enrico che la sfruttò per mettersi in piedi. Ci mischiammo al resto dei detenuti che rientravano senza fretta. Prima di separarci, gli afferrai un braccio e lo tirai leggermente verso di me.
“Enrico, ci vediamo sabato prossimo” dissi per esorcizzare i miei timori.
Non rispose. Sollevò la mano in segno di saluto e si avviò verso la parte di edificio in cui si trovava la sua cella.

Mi sdraiai sulla branda, lo sguardo perso tra le chiazze di umidità del soffitto. Ripensai alle parole di Enrico. Il ritmo della loro vita è scandito dai loro problemi, non dai nostri. Quali erano i problemi di Costanza? Perché non era venuta a trovarmi nemmeno una volta? E Giovanna? Perché non rispondeva alle mie lettere? Gliene avevo già scritte tre da quando ero in carcere e non avevo ricevuto nessuna risposta.

Il sabato successivo trascorsi l’intera ora d’aria con lo sguardo inchiodato sulla porta di ingresso del cortile con la speranza di vedere apparire Enrico da un momento all’altro. Non si fece vivo e rientrai in cella con un triste presentimento.

La settimana seguente, appena uscito nel cortile, lo vidi seduto sulla solita panchina. Lo raggiunsi a passo svelto.
“Ma dove eri sparito?”.
“Sono stato male”.
“Pensavo che tu…”.
“Pensavi cosa?”.
“Pensavo….. niente. Sono contento di rivederti”.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 19)

Novembre 1958

Dal suo modo di camminare capii subito che era successo qualcosa. I piedi sfioravano appena il terreno, non lo marcavano pesantemente come al solito. Si fermò a pochi passi da me.
“Il Presidente della Repubblica ha firmato. Mi hanno concesso la grazia”.
“Ma è meraviglioso!” esclamai emozionato, in preda a una felicità improvvisa come se avessero graziato me. Lo abbracciai forte.
Enrico subì la presa inerme. Una volta libero si sedette al mio fianco e lasciò che le lacrime gli segnassero il viso.
“Non ci speravo più, sai” disse poco dopo con un filo di voce.
“Io invece ero sicuro che prima o poi te l’avrebbero data” mentii.
Nel frattempo aveva smesso di piangere.
“Sai già dove andrai, cosa farai?” domandai.
“No. Sarà come nascere un’altra volta, la terza. Mi hanno concesso una nuova opportunità, spero di riuscire a coglierla. Avevo smesso di crederci, ho avuto così tanto tempo per pensare che alla fine non ho pensato affatto. Non ho progetti, non ho idee” rispose sollevando le spalle.
Mi apparve fragile e indifeso. Lo immaginai vagare per strade affollate, invisibile agli occhi degli altri, aggirarsi sperduto in un mondo ostile e incomprensibile. Un mondo che, per quanto si sforzasse, restava invisibile ai suoi occhi.
“L’importante è che tu stavolta non faccia stronzate” lo ammonii.
Rise.
“Solo se sentirò nostalgia di te”.
“Sei proprio scemo”.
Enrico era diventato per me un punto di riferimento. La sua presenza e le nostre chiacchierate sopperivano in gran parte all’assenza di calore umano tipica della prigione. Non avevo contatti con l’esterno, avevo ormai rinunciato a scrivere lettere destinate a rimanere senza risposta. Non ricevevo visite. All’interno del carcere non avevo stretto alcun rapporto se non con lui. La sua partenza avrebbe lasciato un vuoto impossibile da riempire.
“Sai già quando ti faranno uscire?”.
“Presto. L’avvocato ha detto che è una questione di giorni”.
“Enrico...”.
“Sì?”
“Mi mancherai”.
Mi appoggiò le mani sulle spalle e sorrise.
“Anche tu” e mi abbracciò stretto. Poi rovistò nella tasca interna della giacca e ne estrasse un pacchetto.
“Dai, l’ultima”.
Sfilai una sigaretta e la appoggiai tra le labbra. Mi avvicinai all’accendino di Enrico proteggendola dal vento con entrambe le mani. Poi restammo in silenzio in attesa della sirena, speculari, con la sigaretta nella mano esterna, la sua destra e la mia sinistra, la schiena saldamente appoggiata alla panchina e lo sguardo perso all’infinito, ciascuno prigioniero dei propri pensieri.
 
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