Diego Repetto
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Il baco e la farfalla (capitolo 6) - parte seconda
-continua-
Dopo aver ascoltato con attenzione un breve riassunto della mia vita ed essersi fatta raccontare come ero giunto a Camogli, Stefania, la sorella di mia madre, visibilmente emozionata, mi invitò a seguirla.
“Andiamo, ti accompagno da tua madre”.
Lungo la strada mi raccontò che la loro famiglia non era originaria di Camogli. Mia nonna era bergamasca e dopo la morte del marito si era trasferita in Liguria con i quattro figli. Nonostante un titolo da segretaria d’azienda, giunta in riva al mare aveva rinunciato a cercare un lavoro che l’avrebbe rinchiusa in un ufficio e aveva speso tutto ciò che possedeva per acquistare un piccolo peschereccio. Il commercio del pesce si era rivelato particolarmente redditizio e dopo qualche anno la monoflotta si era arricchita di una nuova imbarcazione, il Barracuda. Quella che sembrava una macchina perfetta per fare soldi si era inceppata il giorno in cui il medico le aveva diagnosticato una malattia incurabile. I due pescherecci furono venduti per poter fare arrivare ogni settimana dalla Francia una costosissima medicina, rivelatasi utile solamente a prolungare di qualche anno la sua agonia.
Incontrammo casualmente Costanza a metà del lungomare. Mia zia mi prese per un braccio e mi indicò una donna a una decina di metri che avanzava verso di noi. Non era sola. Al suo fianco una bambina saltellava da un piede all’altro cercando di evitare le linee che separavano i vari lastroni di pietra. Spostai nuovamente lo sguardo sulla figura adulta. Era una donna bellissima. I capelli d’ebano le sfioravano le spalle e incorniciavano un viso latteo in mezzo al quale spiccavano due sottili labbra scarlatte. Ne rimasi abbagliato e per un attimo dimenticai tutto il rancore che avevo covato nei suoi confronti negli ultimi anni. La delusione fu grande però quando mi guardò con indifferenza e si rivolse alla sorella. Non mi aspettavo certo che mi riconoscesse, non avrebbe potuto, ma avrei voluto almeno che rimanesse colpita da qualcosa in me come io lo ero stato dalla sua bellezza.
“Costanza, questo ragazzo è Guido”.
Poi, vedendo che non reagiva, ripeté: “Guido”.
Non se l’aspettava, era stata colta di sorpresa. Era evidentemente imbarazzata. Non sapeva cosa dire. Avrebbe potuto abbracciarmi, in silenzio. E in quell’abbraccio si sarebbero sciolte come neve al sole tensioni e paure. I dubbi sarebbero svaniti improvvisamente, schiantati dall’umanità e dal calore di quel semplice gesto d’affetto. Non lo fece. Rimase a guardarmi, inebetita, e dopo qualche istante, dalle labbra socchiuse, uscì un asettico:
“Sei arrivato”.
La freddezza con cui mi accolse agì da detonatore per la mia rabbia.
“Se aspettavo te, non ci saremmo mai incontrati“ risposi sprezzante fulminandola con uno sguardo carico di fiele.
Incurante del tono delle mie parole, si volse verso la bambina, che nel frattempo aveva smesso di saltellare e fissava incuriosita la scena.
“Giovanna, lui è Guido, tuo fratello”.
Alcune reazioni non appartengono al mondo dei bambini. Un adulto si sarebbe stupito, avrebbe spalancato occhi e bocca, incredulo. Le reazioni dei bambini invece sono spesso disarmanti, soprattutto nei momenti più drammatici. Assorbono in modo apparentemente indolore il trauma, conservandolo gelosamente per anni, facendolo fermentare lentamente fino a quando, una volta cresciuti, si trovano costretti a pagarne le conseguenze sottoforma di insicurezze, fobie, gelosie e paranoie. I genitori molte volte se ne dimenticano, non riflettono su ciò che dicono e fanno, e si stupiscono quando i figli, da grandi, decidono di superare i traumi infantili con l’aiuto di uno psicologo. La sorpresa è dovuta al fatto che nel momento del trauma i bambini quasi sempre ti spiazzano. Giovanna, tutt’altro che sconvolta per aver vissuto nove anni pensando di essere figlia unica, mi sorrise e con voce candida disse:
“Ciao. Vuoi giocare con me a “saltarello”?”.
L’innocenza della sua domanda aiutò a stemperare la tensione. Ci avviammo verso casa di mia madre. Chiese alla sorella di restare con Giovanna e mi invitò a seguirla in cucina. Chiuse la porta, si sedette dall’altro lato del tavolo e rimase ad osservarmi, come paralizzata. Nemmeno io sapevo cosa dire. Ero felice di averla trovata, ma non riuscivo a comunicarglielo. Né a parole, né a gesti, e credo neppure con lo sguardo. Allo stesso tempo non riuscivo a liberare le domande che tanto mi avevano assillato nelle ultime settimane. Trascorse un minuto, forse due, poi mia madre allungò il braccio e depose il dorso della mano sul tavolo, di fronte a me. Accolsi l’invito e adagiai il mio palmo sul suo. Avvicinò la mano rimasta libera, strinse forte la mia tra le sue e si sciolse in un pianto contagioso.
Le raccontai della poliomielite, della vecchia strega, di come era stato ammazzato papà. Le parlai degli anni trascorsi alla Casa Svizzera, della signora Milton e di come era nato il desiderio di incontrarla. Non le chiesi nulla della mia nascita e di perché se n’era andata. Mi mancò il coraggio. Mi ascoltò attenta, senza interrompermi. Rise quando le raccontai come il vecchio pescatore mi avesse fatto cambiare nuovamente idea. “... quando mi ha visto, la nonna mi ha riconosciuto, ha detto che sono la tua copia”.
Restò a pensare in silenzio, un attimo, poi mi sorrise con tenerezza materna.
“Perché non ti trasferisci a vivere qui con noi?”.
Due giorni dopo scendevo alla stazione di Camogli con la solita valigia piena delle solite poche cose. Mi accompagnava l’illusione di poter far parte finalmente di una famiglia normale. Il direttore della Casa Svizzera mi aveva salutato facendomi capire che avrei trovato le porte dell’istituto sempre aperte, ma il suo abbraccio forte e prolungato mi sembrò molto più un addio che un arrivederci.
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Dopo aver ascoltato con attenzione un breve riassunto della mia vita ed essersi fatta raccontare come ero giunto a Camogli, Stefania, la sorella di mia madre, visibilmente emozionata, mi invitò a seguirla.
“Andiamo, ti accompagno da tua madre”.
Lungo la strada mi raccontò che la loro famiglia non era originaria di Camogli. Mia nonna era bergamasca e dopo la morte del marito si era trasferita in Liguria con i quattro figli. Nonostante un titolo da segretaria d’azienda, giunta in riva al mare aveva rinunciato a cercare un lavoro che l’avrebbe rinchiusa in un ufficio e aveva speso tutto ciò che possedeva per acquistare un piccolo peschereccio. Il commercio del pesce si era rivelato particolarmente redditizio e dopo qualche anno la monoflotta si era arricchita di una nuova imbarcazione, il Barracuda. Quella che sembrava una macchina perfetta per fare soldi si era inceppata il giorno in cui il medico le aveva diagnosticato una malattia incurabile. I due pescherecci furono venduti per poter fare arrivare ogni settimana dalla Francia una costosissima medicina, rivelatasi utile solamente a prolungare di qualche anno la sua agonia.
Incontrammo casualmente Costanza a metà del lungomare. Mia zia mi prese per un braccio e mi indicò una donna a una decina di metri che avanzava verso di noi. Non era sola. Al suo fianco una bambina saltellava da un piede all’altro cercando di evitare le linee che separavano i vari lastroni di pietra. Spostai nuovamente lo sguardo sulla figura adulta. Era una donna bellissima. I capelli d’ebano le sfioravano le spalle e incorniciavano un viso latteo in mezzo al quale spiccavano due sottili labbra scarlatte. Ne rimasi abbagliato e per un attimo dimenticai tutto il rancore che avevo covato nei suoi confronti negli ultimi anni. La delusione fu grande però quando mi guardò con indifferenza e si rivolse alla sorella. Non mi aspettavo certo che mi riconoscesse, non avrebbe potuto, ma avrei voluto almeno che rimanesse colpita da qualcosa in me come io lo ero stato dalla sua bellezza.
“Costanza, questo ragazzo è Guido”.
Poi, vedendo che non reagiva, ripeté: “Guido”.
Non se l’aspettava, era stata colta di sorpresa. Era evidentemente imbarazzata. Non sapeva cosa dire. Avrebbe potuto abbracciarmi, in silenzio. E in quell’abbraccio si sarebbero sciolte come neve al sole tensioni e paure. I dubbi sarebbero svaniti improvvisamente, schiantati dall’umanità e dal calore di quel semplice gesto d’affetto. Non lo fece. Rimase a guardarmi, inebetita, e dopo qualche istante, dalle labbra socchiuse, uscì un asettico:
“Sei arrivato”.
La freddezza con cui mi accolse agì da detonatore per la mia rabbia.
“Se aspettavo te, non ci saremmo mai incontrati“ risposi sprezzante fulminandola con uno sguardo carico di fiele.
Incurante del tono delle mie parole, si volse verso la bambina, che nel frattempo aveva smesso di saltellare e fissava incuriosita la scena.
“Giovanna, lui è Guido, tuo fratello”.
Alcune reazioni non appartengono al mondo dei bambini. Un adulto si sarebbe stupito, avrebbe spalancato occhi e bocca, incredulo. Le reazioni dei bambini invece sono spesso disarmanti, soprattutto nei momenti più drammatici. Assorbono in modo apparentemente indolore il trauma, conservandolo gelosamente per anni, facendolo fermentare lentamente fino a quando, una volta cresciuti, si trovano costretti a pagarne le conseguenze sottoforma di insicurezze, fobie, gelosie e paranoie. I genitori molte volte se ne dimenticano, non riflettono su ciò che dicono e fanno, e si stupiscono quando i figli, da grandi, decidono di superare i traumi infantili con l’aiuto di uno psicologo. La sorpresa è dovuta al fatto che nel momento del trauma i bambini quasi sempre ti spiazzano. Giovanna, tutt’altro che sconvolta per aver vissuto nove anni pensando di essere figlia unica, mi sorrise e con voce candida disse:
“Ciao. Vuoi giocare con me a “saltarello”?”.
L’innocenza della sua domanda aiutò a stemperare la tensione. Ci avviammo verso casa di mia madre. Chiese alla sorella di restare con Giovanna e mi invitò a seguirla in cucina. Chiuse la porta, si sedette dall’altro lato del tavolo e rimase ad osservarmi, come paralizzata. Nemmeno io sapevo cosa dire. Ero felice di averla trovata, ma non riuscivo a comunicarglielo. Né a parole, né a gesti, e credo neppure con lo sguardo. Allo stesso tempo non riuscivo a liberare le domande che tanto mi avevano assillato nelle ultime settimane. Trascorse un minuto, forse due, poi mia madre allungò il braccio e depose il dorso della mano sul tavolo, di fronte a me. Accolsi l’invito e adagiai il mio palmo sul suo. Avvicinò la mano rimasta libera, strinse forte la mia tra le sue e si sciolse in un pianto contagioso.
Le raccontai della poliomielite, della vecchia strega, di come era stato ammazzato papà. Le parlai degli anni trascorsi alla Casa Svizzera, della signora Milton e di come era nato il desiderio di incontrarla. Non le chiesi nulla della mia nascita e di perché se n’era andata. Mi mancò il coraggio. Mi ascoltò attenta, senza interrompermi. Rise quando le raccontai come il vecchio pescatore mi avesse fatto cambiare nuovamente idea. “... quando mi ha visto, la nonna mi ha riconosciuto, ha detto che sono la tua copia”.
Restò a pensare in silenzio, un attimo, poi mi sorrise con tenerezza materna.
“Perché non ti trasferisci a vivere qui con noi?”.
Due giorni dopo scendevo alla stazione di Camogli con la solita valigia piena delle solite poche cose. Mi accompagnava l’illusione di poter far parte finalmente di una famiglia normale. Il direttore della Casa Svizzera mi aveva salutato facendomi capire che avrei trovato le porte dell’istituto sempre aperte, ma il suo abbraccio forte e prolungato mi sembrò molto più un addio che un arrivederci.