Luang Prabang, la forza delle tradizioni.
Nel lontano 1993 Terzani descriveva la seconda città più importante del Laos come una città in triste evoluzione.
Con una sorta di malinconia anticipata, parlava del suo aeroporto come di un piccolo snodo con una piccola sala d’attesa semi vuota. Un aeroporto di provincia, dunque, non ancora quello internazionale che il governo laotiano avrebbe dovuto costruire da lì a poco, obbligato com’era dalle spinte di modernità della Cina e della Thailandia sempre più insistenti.
Diceva che la città era fortemente ancorata alle proprie tradizioni, ma diceva anche che lo sarebbe stato per poco ancora. Tradizioni religiose, anzitutto, che si riflettevano sui comportamenti, sugli usi e sui costumi delle persone. Tradizioni secondo lui in via di rapida estinzione, destinate a sciogliersi nel via vai frenetico della modernità, tristemente rappresentata da quella superstrada che la Thailandia chiedeva di costruire, volendola far passare proprio nel bel mezzo del centro cittadino. Una mega strada che avrebbe dovuto unire la Cina con la Thailandia per scopi commerciali, macchiando il Laos del peccato più grande.
La gente, diceva Tiziano, si svegliava presto. Alle 6 al massimo erano tutti in piedi, ma senza quei modi travolgenti delle nostre città, colme come sono di invasati che suonano ai semafori e si fanno venire infarti per un ritardo di 5 minuti.
Non poteva, Terzani, parlare di Luang Prabang senza citare il bellissimo fenomeno del “Tak Bat”. All’alba file sterminate di monaci scendevano dai loro monasteri e facevano l’elemosina. Il monaco buddhista non deve lavorare, quanto meno non in senso prettamente materialista. Non deve, in altre parole, guadagnarsi da vivere facendo delle cose, perché il lavoro del monaco deve essere il solo pensiero. Deve meditare per trovare quella pace interiore che dovrebbe unire il mondo intero, un’unione simbolicamente rappresentata da quel filo bianco che lega i monaci nei loro movimenti. Che poi è un po’ quello che fanno i nostri preti con la preghiera.
Bello pensare che il mondo abbia bisogno di pensiero, di meditazione, di certo rassicura il fatto che qualcuno se ne stia chiuso davanti ad un altare o di fronte ad un crocefisso e che attraverso l’utilizzo delle sole facoltà mentali, riesca a sollevare il peso dei malaffari delle società.
I monaci buddhisti, detto per inciso, in realtà lavorano, e spesso molto duramente. Costruiscono a ammodernano, spesso loro soli, i templi e i monasteri, ma lo fanno solo per il bisogno concreto di fare le cose. Mai per denaro e mai per cibo. Quello gli deve venire offerto gratuitamente per l'appunto durante il Tak Bat.
Capita di vedere monaci intenti a tinteggiare le pareti di un monastero o a spostare grosse pietre da costruzione, ma se lo fanno è solo ed esclusivamente perché la parete è sporca o perché devono ampliare una zona di un monastero. "Fanno" quando hanno bisogno di qualcosa, ma non vendono manodopera.
Tutto questo a me pare estremamente romantico, è bello credere che in un qualche modo le guerre e le atrocità vengano contro bilanciate da chi prega e da chi medita. Forse per davvero il mondo ha bisogno di più pensiero e di meno azione. In fondo "meno si fa" e meno si fanno danni. Il Buddha è iconograficamente rappresentato sempre in pace, seduto o sdraiato. Addirittura in Cina è grasso, grassissimo, probabilmente perchè non si muove mai, e ride sempre con atteggiamento un po' superficiale.
Quello che volevo dirvi è che, 23 anni dopo, ho visto le stesse cose di Terzani e rileggendo le sue pagine di storia, mi sembrava di avere a che fare con una cronaca in presa diretta.
L’aeroporto di Luang Prabang è ancora piccolo ed è costruito all’interno di una bella foresta fatta di alberi così fitti e crespi, che quando atterri sembra di volare dentro un grosso broccolo.
La dogana sembra il salotto di casa di persone gentili e il ritiro bagagli ha un solo rullo lento e svogliato. Sembra volerti comunicare in anticipo che lì fuori, dentro alla città, nessuno avrà fretta.
Luang Prabang è rimasta come Terzani la descriveva, con il Wat Pussy, la sua bella collina, a proteggere delicatamente la via centrale, che per fortuna non è diventata una superstrada di camion e ruggiti.
E’ bella Luang Prabang, così bella da non farsi quasi notare. Calma, placida, sonnacchiosa. Nel mercato notturno c’è vita, ma nessuno ti frigge il cervello con ossessive richieste di acquisto.
E veniamo al Tak Bat, questa commovente cerimonia di elemosine alla quale pure io ho assistito.
E’ emozionante vedere all'alba centinaia di monaci attraversare la via del paese, mollemente e quasi senza pretesa e allungare le mani verso chi è inginocchiato ai lati della strada.
Ci sono delle regole da rispettare durante il Tak Bat; quando qualcuno fa l’elemosina al monaco, ad esempio, non lo deve guardare negli occhi, deve rimanere inginocchiato e nessuno dei due deve proferire parola. A dire il vero la cerimonia dovrebbe svolgersi nel silenzio più assoluto, in realtà oggi interrotto da qualche rumore di scatti fotografici ai quali però nessuno pare fare caso. Vietato, vietatissimo, ad ogni modo toccare il monaco.
Allora Terzani si sbagliava? Forse fu troppo pessimista? In fondo un po' lo era di natura e poi era troppo ancorato alle tradizioni asiatiche, un po' chiuso al moderno, quasi schifato da tutto ciò che poteva essere minimamente tecnologico, così tanto che a volte mi dava l'idea di quei vecchietti che ti dicono sempre che si stava bene quando si stava peggio. Al mio primo impatto con la città ho subito pensato di sì, che Terzani fosse divorato da una mania di assolutismo negativo, e che avesse toppato alla grande, perchè ciò che vedevo non si discostava in nulla dalle sue memorabili descrizioni di 23 anni prima.
Finchè non ho visto un turista urlare ad un monaco di tornare un po' più indietro e di rifare il gesto di poco prima, mostrandogli un po' stizzito la posa che doveva assumere affinchè la foto venisse meglio, per poi prenderlo sotto braccio per un selfie, abbracciandolo e dandogli sonore pacche sulle spalle.
Ecco quando ho visto questa bestemmia in chiesa ho capito che Terzani forse ha sbagliato i tempi, ma non la previsione, perché il Laos è duro a morire, ma morirà come tutte le cose del mondo.