Il lungo memoriale della D’Eramo sulla propria esperienza nel Lager nazisti non è semplicemente un altro tassello alla storia dell’Olocausto – nonostante il valore documentale dell’esperienza diretta. Innanzitutto per il punto di vista: Luce (o Lucia/Luzi, due dei nomi che assume nel romanzo) ha conosciuto l’orrore dei campi di lavoro come volontaria, spinta da un bisogno di verità alimentato da una giovanile, ma sincera e ribelle, fede fascista.
Il percorso però la porterà molto più lontano di quanto avesse immaginato: dal campo per lavoratori stranieri di Francoforte al campo di concentramento di Dachau, internata tra gli “asociali”, e infine, attraverso una lunga fuga e la clandestinità, fino a quel muro pericolante di Magonza che le spezzerà la spina dorsale nel tentativo di salvare una famiglia sepolta dalle bombe alleate.
L’originalità del romanzo sta innanzitutto nel percorso narrativo: come in un processo psicanalitico, l’autrice insegue i propri ricordi tra reticenze, rimozioni e riemersioni, intrecciando i ricordi tedeschi con quelli della propria vita dopo il rimpatrio, una vita comune, fatta di amori, figli, miserie e militanze, ma anche di una lotta incessante contro il proprio corpo martoriato.
Un recupero della memoria che è anche una denuncia: l’esperienza dei Lager le aveva rivelato l’esistenza di mille barriere e divisioni che impediscono la partecipazione e la condivisione tra gli esseri umani. Divisioni che Lucia definisce senza mezzi termini “di classe” e ben chiare ai nazisti, la cui capacità di soggezione era proprio legata alla capacità di accentuare, anche nei Lager, le divisioni, di nazionalità, di ceto, di sesso. Luce/Lucia, figlia di un gerarca di Salò e cresciuta nella buona borghesia, è in lotta proprio contro la sua posizione sociale e contro le ipocrisie familiari; ella nega inizialmente a se stessa, riportandolo poi gradualmente alla coscienza, il proprio stesso senso di appartenenza ad una classe, a cui cerca di sfuggire schierandosi con gli ultimi (i deportati dell’Europa orientale) e partecipando all’organizzazione di uno sciopero nell’Arbeitslager. Ma il senso di colpa per i piccoli privilegi, anche involontari, che le hanno consentito di ritrovarsi tra i “salvati” e non tra i “sommersi” costituisce una costante in tutta la sua esperienza, fino ad un maldestro tentativo di suicidio.
Questo tema di fondo, perfettamente attuale nei lunghi anni della genesi del romanzo (tra il ’53 e il ’75), appare oggi piuttosto datato e appesantisce soprattutto l’ultima parte del memoriale, senza compromettere comunque l’interesse dell’opera nel suo complesso.
Il percorso però la porterà molto più lontano di quanto avesse immaginato: dal campo per lavoratori stranieri di Francoforte al campo di concentramento di Dachau, internata tra gli “asociali”, e infine, attraverso una lunga fuga e la clandestinità, fino a quel muro pericolante di Magonza che le spezzerà la spina dorsale nel tentativo di salvare una famiglia sepolta dalle bombe alleate.
L’originalità del romanzo sta innanzitutto nel percorso narrativo: come in un processo psicanalitico, l’autrice insegue i propri ricordi tra reticenze, rimozioni e riemersioni, intrecciando i ricordi tedeschi con quelli della propria vita dopo il rimpatrio, una vita comune, fatta di amori, figli, miserie e militanze, ma anche di una lotta incessante contro il proprio corpo martoriato.
Un recupero della memoria che è anche una denuncia: l’esperienza dei Lager le aveva rivelato l’esistenza di mille barriere e divisioni che impediscono la partecipazione e la condivisione tra gli esseri umani. Divisioni che Lucia definisce senza mezzi termini “di classe” e ben chiare ai nazisti, la cui capacità di soggezione era proprio legata alla capacità di accentuare, anche nei Lager, le divisioni, di nazionalità, di ceto, di sesso. Luce/Lucia, figlia di un gerarca di Salò e cresciuta nella buona borghesia, è in lotta proprio contro la sua posizione sociale e contro le ipocrisie familiari; ella nega inizialmente a se stessa, riportandolo poi gradualmente alla coscienza, il proprio stesso senso di appartenenza ad una classe, a cui cerca di sfuggire schierandosi con gli ultimi (i deportati dell’Europa orientale) e partecipando all’organizzazione di uno sciopero nell’Arbeitslager. Ma il senso di colpa per i piccoli privilegi, anche involontari, che le hanno consentito di ritrovarsi tra i “salvati” e non tra i “sommersi” costituisce una costante in tutta la sua esperienza, fino ad un maldestro tentativo di suicidio.
Questo tema di fondo, perfettamente attuale nei lunghi anni della genesi del romanzo (tra il ’53 e il ’75), appare oggi piuttosto datato e appesantisce soprattutto l’ultima parte del memoriale, senza compromettere comunque l’interesse dell’opera nel suo complesso.