Axelsson, Majgull - Io non mi chiamo Miriam

alessandra

Lunatic Mod
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Miriam, una distinta signora di ottantacinque anni, da decenni vive in Svezia, dove ha costruito la sua vita e la sua famiglia. Nel giorno del suo compleanno, nel vedere il suo nome inciso sul bracciale regalatole dai familiari le sfugge dalle labbra una frase:" Io non mi chiamo Miriam". Che significa? La nipote Camilla non lascia passare inosservate queste parole e così, per la prima volta dopo settant'anni, la nonna decide di raccontarle la sua storia. La narrazione scivola agevolmente, saltellando tra presente e passato senza un vero ordine cronologico: il mistero di Miriam viene svelato presto, e pian piano si svela tutta la sua vita basata su uno scambio di identità (argomento da cui sono sempre stata affascinata) dovuto alla necessità di sopravvivere.
Il romanzo è incentrato in buona parte sul passato di Miriam - o di colei che è conosciuta come tale - nei campi di concentramento, soprattutto a Ravensbruck, dove viene trasferita dopo essere stata ad Auschwitz. Fugaci incursioni nel passato ci riportano all'infanzia della protagonista, nata e cresciuta in un campo rom, ai suoi veri affetti, quelli della sua famiglia di origine e in particolare dell'amato fratellino. Altri capitoli ci raccontano la sua vita dopo Ravensbruck, in Svezia, sempre attenta a non svelare il suo segreto, perché svelarlo potrebbe comportare l'obbligo di espatrio e la distruzione di ciò che ha iniziato a costruire.
Sono rimasta molto piacevolmente sorpresa da questo bellissimo romanzo, che immaginavo carino e nulla più. La parte ambientata a Ravensbruck, certamente frutto di studi approfonditi e di una forte sensibilità dell'autrice all'argomento, è talmente realistica e disturbante che sembra scritta da qualcuno che ha vissuto quell'esperienza in prima persona. Altrettanto credibile è la personalità di Miriam, che, se inizialmente pavida in apparenza - a causa delle circostanze drammatiche in cui era costretta a vivere in tenera età - nel corso della storia si rivela tenace e coraggiosa; credibile è il suo spirito di adattamento necessario all'interno del campo, il disorientamento e la paura una volta uscita, il continuo mentire per necessità, la forza acquisita in età anziana e, finalmente, la decisione di parlare e di mostrarsi per ciò che è. Il tutto è raccontato con uno stile apparentemente semplice, che scava nell'animo umano quasi con candore, riportando i pensieri della protagonista così come le si presentano alla mente, in maniera diretta e senza fronzoli. Un bellissimo libro, lo ripeto, e una bravissima autrice da me appena scoperta.
 

qweedy

Well-known member
«Io non mi chiamo Miriam», dice di colpo un’elegante signora svedese il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, di fronte al bracciale con il nome inciso che le regala la famiglia. Quella che le sfugge è una verità tenuta nascosta per settant’anni, ma che ora sente il bisogno e il dovere di confessare alla sua giovane nipote: la storia di una ragazzina rom di nome Malika che sopravvisse ai campi di concentramento fingendosi ebrea, infilando i vestiti di una coetanea morta durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbrück. Così Malika diventò Miriam, e per paura di essere esclusa, abbandonata a se stessa, o per un disperato desiderio di appartenenza continuò sempre a mentire, anche quando fu accolta calorosamente nella Svezia del dopoguerra, dove i rom, malgrado tutto, erano ancora perseguitati. Dando voce e corpo a una donna non ebrea che ha vissuto sulla propria pelle l’Olocausto, Majgull Axelsson affronta con rara delicatezza e profonda empatia uno dei capitoli più dolorosi della storia d’Europa e il destino poco noto del fiero popolo rom, che osò ribellarsi con ogni mezzo alle SS di Auschwitz. Io non mi chiamo Miriam parla ai nostri giorni di crescente sospetto verso l’«altro» interrogandosi sull’identità – etnica, culturale, ma soprattutto personale – e riuscendo a trasmettere la paura e la forza di una persona sola al mondo, costretta nel lager come per il resto della vita a tacere, fingere e stare all’erta, a soppesare ogni sguardo senza mai potersi fidare di nessuno, a soffocare i ricordi, i rimorsi, il dolore per gli affetti perduti: «Non si può dire tutto! Non se si è della razza sbagliata e si ha vissuto sulla propria pelle l’intero secolo.»

Dopo settant'anni in cui ha nascosto il proprio segreto, Miriam adesso ha bisogno finalmente di aprirsi e rivelare la verità, decidendo di mettere fine alla recita che ha condotto per anni con gli altri e con se stessa. Ha davvero vissuto l'orrore dei campi di concentramento, ma non è ebrea, come ha sempre dichiarato da quando è arrivata in Svezia, è una rom, una zingara. Miriam in realtà si chiamava Malika una volta, ed era rom. Per un caso, nel campo di concentramento, ha dovuto cambiare identità, rubando l'identità di Miriam, una ragazzina ebrea morta sul treno, ma da quel momento non ha più rivelato alle persone care di essere in realtà rom. I nazisti non preferivano certo gli ebrei, anzi, ma i rom erano emarginati e disprezzati anche dagli altri prigionieri. È difficile pensare che in quell’inferno ci fosse una gerarchia fra i disgraziati, ma era così: Malika viene malmenata quasi a morte dalle prigioniere polacche, perché è una sporca zingara. Malika non aveva fatto grandi calcoli: ha solo pensato che da ebrea avesse più possibilità di cavarsela. Inoltre come rom non avrebbe avuto la possibilità di venire accolta e rimanere in Svezia.

Il dolore di Miriam è duplice. Oltre ad aver sofferto le pene dell’inferno ha anche rinnegato le proprie radici e quindi una parte di se stessa.

L'autrice, con un buon espediente narrativo e una ricostruzione storica documentata, racconta quanto avvenne nei campi di concentramento di Auschwitz e Ravensbrück e affronta il tema dell’Olocausto dei rom. Non solo nessuno ne ha mai ufficialmente parlato, ma il sacrificio e la resistenza dei rom nei campi di concentramento è stato ignorato nei riconoscimenti. L’autrice Majgull Axelsson indaga e illumina questa parte di storia poco conosciuta: i rom si ribellarono ai nazisti nei campi di concentramento. Furono esclusi anche dai risarcimenti. Come se le loro vittime valessero meno di quelle di origine ebraica.

Consigliato, ma non per tutti i momenti.


“Miriam si girò verso Else guardandola con gli occhi sbarrati, ma lei s'infilò in bocca uno zuccherino e si limitò ad alzare le spalle. «Bah», disse. «Zingari. Si sa come sono fatti, quelli...»”

Sì, certo che era stata costretta! Perché chi sarebbe stata se non avesse mentito? Come avrebbe potuto vivere? Come a Ravensbrück, come ad Auschwitz, con la sola differenza che l’avrebbero cacciata di luogo in luogo, di città in città, di villaggio in villaggio. Non era capace di vivere così. Ma come avrebbe potuto sopportare la menzogna per un’intera lunga vita?
 
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