da "L'eterna Fonte"
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La febbre era alta, e non voleva saperne di scendere, Francesco era arrivato al limite. Non ricordava di aver avuto in vita sua una febbre così alta, quarantuno e mezzo diceva il termometro al mercurio, quarantuno virgola quattro quello digitale, li aveva usati entrambi, prima l'uno e poi l'altro. Francesco sentiva le parole di sua madre, ovattate, passeggiava per casa dicendo <un febbrone da cavallo, dobbiamo proprio chiamare Castaldi>, il che era preoccupante. Francesco ormai era arrivato al suo limite, ed era davvero preoccupato. Ciò che lo preoccupava non era la malattia in se, ma era sua madre, ciò che diceva sua madre, ovvero che dovevano chiamare il dottor Castaldi, il dottore infatti era il loro medico di famiglia, ma quando Francesco aveva otto anni. Ma neppure questo doveva preoccuparlo in realtà, la cosa più pressante era che sua madre fosse morta due anni fa, e Francesco neppure ci credeva ai fantasmi.
Francesco delirava.
Francesco delirava ed era solo in casa, abitava solo da quattro anni, da quando la sua ragazza aveva deciso che gli uomini non facevano per lei ed era andata a vivere con la sua migliore amica, e lui stupido che si era anche eccitato quando erano stati tutti e tre insieme nel letto, senza capire nemmeno quello che stava accadendo. Adesso steso sul divano del soggiorno, tentava di raggiungere il telefono, il risultato fu disastroso e si ritrovò con la faccia per terra, fortuna volle che vicino a dove era atterrato ci fosse una bella scatola di tachipirina, non ricordava quando e come quella scatola avesse viaggiato dal mobile nel corridoio fin lì, ma ne fu contento. Si mise su di un fianco e si infilò in bocca due piccole capsule, prima di ingoiarle gli venne in mente che la scatola di tachipirina poteva essere un delirio, magari stava ingerendo chissà cosa. Pensò che valesse la pena tentare e ingoiò, poi attese. La febbre scese, e la madre defunta, tornò a riposare, Francesco cominciò a muovere i suoi cento chili con fatica, si mise seduto a terra con la schiena appoggiata al divano, si alzò aiutandosi come poteva, infine si mise retto, con la testa che gli girava, la camera sembrava gonfiarsi in certi punti ma cominciava a capire e a ragionare con un certo rigore di logica. Mosse i primi passi con l'attenzione del suo primo passo, quello in assoluto che gli fece guadagnare tanti abbracci e coccole dai suoi genitori. Aveva addosso dei vestiti, una camicia bianca a righe completamente sgualcita e un paio di pantaloni, la febbre l'aveva colto alla sprovvista al lavoro, era già alta mentre lavorava, ma sulla strada di casa era diventata troppo, con chissà quale sforzo di volontà era riuscito ad arrivare a casa, ma una volta arrivato in soggiorno (o era passato prima nel corridoio a prendere la tachipirna?) era svenuto sul divano, controllò l'orologio da polso, era stato svenuto undici ore, adesso erano le cinque del mattino. Andò nel bagno e si sciacquò la faccia, si sentiva meglio e già pensava che non valeva la pena non andare a lavoro, avrebbe portato con se la scatola di medicinali e avrebbe ingerito delle capsule nel caso in cui la febbre fosse tornata. Francesco si guardò allo specchio, aveva la barba lunga, nera ma striata di grigio, il suo volto era pieno e aveva i capelli rasati, una volta era un bell'uomo di altezza media, ora aveva trenta chili di troppo e sembrava avere dieci anni in più dei suoi trentacinque anni dediti al lavoro e all'azienda.
L'azienda, non si può parlare di Francesco de Sini senza parlare della sua Sincorp, nata da una idea di Francesco stesso, non più di sette anni fa, l'idea era semplice, e consisteva nel creare piccole applicazioni per software, applicazioni Java, da rivendere poi a chi il software lo faceva e che utilizzava i suoi pezzi di programmi a prezzi bassissimi. All'inizio c'erano solo lui e il suo antico collega e ancor prima compagno di studi all'università Alessandro Bianco, ma poi l'idea era stata abbastanza vincente e la società era diventata azienda ed ora ci lavoravano tredici persone, ma tutti facevano capo a Francesco, sopratutto da quando Alessandro era andato. Il Sig. Bianco era entrato nell'azienda madre della moderna informatica quando le cose alla Sincorp andavano ancora male, e nella Microsoft ci aveva già fatto una bella carriera, adesso viveva con moglie americana (una dea di origini africane che avrebbe visitato più volte i sogni di Francesco), un figlioletto di nome Dean, in una casa con palizzata bianca e andava in giro facendosi chiamare Alex Bianco. Francesco avrebbe potuto seguirlo, la proposta era per entrambi, ma lui amava la sua donna e lei non avrebbe mai cambiato nemmeno città! Se non per sbattersi una lesbica con la quale aveva fatto le medie e le superiori. Si lavò, si cambiò e prese la scatola di tachipirine, aveva l'aria da malato, ma era proprio così che era, un malato, zoppo e grasso uomo il cui unico scopo nella vita adesso era scrivere pezzi di codice senza nemmeno vedere un lavoro ultimato.
La febbre tornò e Francesco prese la sua medicina, verso le quattro del pomeriggio aveva concluso un buon affare con un cliente nuovo, uno strano tipo che lavorava per una società di pubblicità sulla rete delle reti, l'affare era stato talmente buono che il grasso titolare aveva offerto di accompagnare il cliente alla metropolitana e alla fine avevano preso pure un caffè insieme, sarebbe stato tutto perfetto, se non fosse che quel giorno centinaia di persone erano scese di casa e avevano bloccato la strada coi loro veicoli...il traffico di Napoli lo avrebbe ucciso, Francesco ne era convinto.
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