Miei carissimi amici lettori, ho pensato di riprendere il discorso “padri e figli” nel proporvi un nuovo brano del mio romanzo, al quale si accompagna la seguente domanda: I bambini ci giudicano? Cosa è cambiato rispetto al secolo scorso?? E i motivi che fanno sentire “soli” i nostri ragazzi, quali sono adesso?
Da “Tracce invisibili di universi paralleli”.
1957: Torino, piazza IV marzo; giochi proibiti
A dodici anni Carlotta già faceva i mestieri. Caterina le la¬sciava la biancheria in ammollo e i piselli da sgranare e, se alla figliola veniva il ghiribizzo di stirare, la mamma non diceva di no. Carlotta sbrigava tutto un’ora prima del pranzo o della cena, in base al rientro dei genitori, e per il resto del giorno giocava con i suoi fratelli. Avevano fondato un club. Prima la sede era nel guardaroba in camera dei genitori, l’interno di un armadio della fine dell’Ottocento a due ante. I tre si chiude¬vano dentro facendosi luce con una torcia elettrica, ma c’era poco spazio: non riuscivano nemmeno a muovere le braccia anche perché, qualche volta, a loro si univa la figlia dei vicini.
Così decisero di andarvi sopra, anziché dentro. Ci si arrivava attraverso una via particolare, era stata Carlotta a idearla sperimentandola per prima: occorreva salire sulla maniglia della porta per raggiungere il comò; così si conquistava il primo livello. Ma c’era di nuovo bisogno della porta per arrivare di fianco al mobile. Allora si metteva per la seconda volta un pie¬de sulla maniglia e si faceva ruotare l’anta sino a raggiungere i piccoli rilievi dell’armadio; erano ornamenti floreali: piccole sculture in legno, peraltro abbastanza fragili. I ragazzini inve¬ce li utilizzavano come gli appigli naturali della roccia durante una scalata. In questo modo, se l’armadio non si ribaltava e l’appiglio non cedeva, si guadagnava finalmente la piatta estre¬mità del guardaroba. Uno per volta i piccoli raggiungevano senza troppa difficoltà la destinazione. Anche lassù però si stava stretti, nemmeno ci si poteva muovere, se si voleva evi¬tare il classico ribaltamento da carico di punta. Allora i tre, capeggiati dalla più grande, decisero di andare in cantina. L’idea era quella di ricavare la sede del club nel vano dell’ascensore che ancora non c’era, e che non avrebbero fatto mai. A ripulire e abbellire vano e dintorni i piccoli Campo ci misero un paio di giorni. Il terzo giorno ad Antonella venne in mente di fare il tè. Così fu mandata ai giardinetti della piazza antistante a cercare legna da ardere. Detto fatto. I bambini accesero il fuoco e fecero bollire l’acqua in un pentolino. Preparato il tè, dopo aver accuratamente spento anche la brace, lo bevvero.425
Com’erano contenti! Nel frattempo qualcuno – usciva del fumo da un tombino nei pressi del palazzo – chiamò i Vigili del Fuoco, a quel tempo il 115 ancora non esisteva.
I pompieri vennero con tanto di attrezzature e scalette, ma già alla prima ispezione i bravi agenti scoprirono solo tre ra¬gazzini attorno a un fuocherello spento.
Caterina e Alessandro non vennero mai a sapere dell’accaduto. Negli anni Cinquanta i casi di incendio doloso a Tori¬no erano rari, inoltre l’opinione pubblica non rispondeva in modo drammatico a un’allerta. Nessuno si prese la briga di redarguire i tre monelli e non partì nemmeno la classica de¬nuncia per genitori irresponsabili. All’epoca non erano pochi i bambini lasciati a se stessi, e spesso combinavano di peggio.
Carlotta dimenticò presto perché quel gioco in cantina non ebbe seguito; forse fu proprio lei a rendersi conto che non era il caso di giocare col fuoco.
Quello che la ragazzina non avrebbe mai più dimenticato fu altro, qualcosa che in famiglia ebbe un nome: la strage.
Fu la distruzione di tutti i giocattoli.
Succedeva che il papà passasse da casa. Non lo faceva spesso, ma succedeva. Può sembrare strano, ma Alessandro Campo, quando arrivava all’ improvviso, non intendeva controllare le malefatte in corso d’opera dei figli. La sua era, per così dire, pura evasione. Carlotta avrebbe ricordato con nostalgia quelle visite improvvise, anche dopo la morte di suo padre.
Un pomeriggio arrivò a casa con un pacchettino, l’ultimo disco di Perry Como. Chiuse la porta alle sue spalle ed entrò in tinello. I piccoli lo seguirono incuriositi.
«Che hai comprato papà?», chiese Carlotta.
«Ora lo vedi», le rispose laconico.
Campo alzò il coperchio della radio attrezzata – Carlotta nel ricordo avrebbe rivisto sempre quel parallelepipedo ingombrante in legno che occupava buona parte della piccola stanza – aprì il pacchetto che aveva ancora tra le mani e ne estrasse un quarantacinque giri che sistemò con cura sul piatto del gi¬radischi. Quando la puntina venne collocata al posto giusto, la musica invase la stanza e lui iniziò la sua performance scivolando sul pavimento del tinello in un passo di danza. Provava 426
il cha cha cha e i suoi bambini gli facevano da pubblico: Carlotta molto interessata, Antonella perplessa, Ludovico con la medesima espressione di quando a scuola lo costringevano a stare nel suo banco. Suo padre stava imparando, oltre al liscio, anche i moderni. Prendeva lezioni presso la scuola di ballo di piazza Castello; con un gruppo di principianti la sera visitava le sale del centro e il sabato anche sua moglie lo accompagna¬va.
Al momento in cui si rese artefice della strage era giovane, aveva appena trentasei anni. Rappresentante di bigiotterie e chincaglierie si concedeva, tra un cliente e un altro, prima di tornare in magazzino a mordere il freno a causa del cognato, un momento ricreativo. Sapeva che avrebbe trovato i suoi bambini e ufficialmente le pause vestivano la funzione di ispezione. Di solito andava tutto liscio poiché i ragazzini, quando sentivano girare le chiavi nella toppa, si precipitavano al tavolo del tinello dove già i libri aperti ad arte facevano bella mo¬stra. Non così quel disgraziato pomeriggio. A scatenare tutto quel putiferio fu il fatto che il pater familias colse in flagrante, ovvero sfaccendata, soprattutto Carlotta. Il corpo del reato fu la scena che si trovò dinanzi: un ospedale secondo l’immaginario infantile e, sia pure con le necessarie approssimazioni, credibile. Nel corridoio, a rappresentare la corsia, c’erano una decina di scatole da scarpe regolarmente distanziate l’una dall’altra e ciascuna, in sostituzione delle legittime calzature eclissate altrove in un mucchio promiscuo, conteneva una bambola: la degente. Carlotta e Antonella erano le infermiere; sulla fronte di ciascuna, assicurato da due mollette per capelli, stava un foglio di carta velina sul quale, con il rossetto della mamma, la grande aveva fatto una croce. Ludovico natural¬mente era il dottore che, proprio in quel fatidico momento, visitava una paziente.
Non ci voleva una grande immaginazione per prevedere che tre bambini, lasciati soli per l’intero pomeriggio, giocassero invece che studiare. Invece sia l’espressione, sia i gesti del loro genitore rivelarono un sentimento differente dall’indulgenza: quello di un capo tribù offeso nella sua autorevolezza.
«Come?!», disse con sdegno l’uomo alla figlia maggiore, «a 427
dodici anni suonati, invece di studiare o aiutare la mamma non solo perdi il tuo tempo, ma sei un cattivo esempio e i tuoi fratelli ti stanno dietro!».
Fu come se, nella realtà infantile dei tre, fosse passato Attila: non un giocattolo sopravvisse alla strage. Alessandro Campo fracassò bambole, bambolotti, macchinine, pistole ad acqua, navi e soldatini, servizi di tazze e piattini, bottigliette e piccoli corredi. A perire nell’olocausto fu perfino Aida, la bambola nera di Antonella che la sua madrina le aveva regalato per la cresima.
«Hai dodici anni ormai, che cosa aspetti a mettere la testa a posto?», tuonava terrorizzando Carlotta. Lei sapeva che cosa intendeva suo padre e anche come avrebbe continuato, poi¬ché quelle parole le aveva già dette e le avrebbe ripetute tante volte ancora e sempre con l’accanimento di chi, come soleva sempre dire, non ci viene di sopra: «Sei una donna, non te lo dimenticare, e le donne lavorano più degli uomini. Sei pregata dunque di lasciar perdere il ballo, il disegno, i romanzi e com¬pagnia bella. Non voglio più vedere un giornalino per casa».
Le cose tra Carlotta e Alessandro stavano cambiando; i poli del loro rapporto avevano subìto una brusca inversione. Tutto quello che prima, quando lei era una bambina, aveva rappre¬sentato oggetto di lode, ora era riprovevole e creava allarme. Era la fantasia della ragazza, tanto lodata in passato, a essere riportata nei ranghi adesso; poiché, per come la vedeva Campo, rappresentava da sola la peggiore minaccia dello status quo; ma questo sua figlia ancora non poteva comprenderlo.
Da “Tracce invisibili di universi paralleli”.
1957: Torino, piazza IV marzo; giochi proibiti
A dodici anni Carlotta già faceva i mestieri. Caterina le la¬sciava la biancheria in ammollo e i piselli da sgranare e, se alla figliola veniva il ghiribizzo di stirare, la mamma non diceva di no. Carlotta sbrigava tutto un’ora prima del pranzo o della cena, in base al rientro dei genitori, e per il resto del giorno giocava con i suoi fratelli. Avevano fondato un club. Prima la sede era nel guardaroba in camera dei genitori, l’interno di un armadio della fine dell’Ottocento a due ante. I tre si chiude¬vano dentro facendosi luce con una torcia elettrica, ma c’era poco spazio: non riuscivano nemmeno a muovere le braccia anche perché, qualche volta, a loro si univa la figlia dei vicini.
Così decisero di andarvi sopra, anziché dentro. Ci si arrivava attraverso una via particolare, era stata Carlotta a idearla sperimentandola per prima: occorreva salire sulla maniglia della porta per raggiungere il comò; così si conquistava il primo livello. Ma c’era di nuovo bisogno della porta per arrivare di fianco al mobile. Allora si metteva per la seconda volta un pie¬de sulla maniglia e si faceva ruotare l’anta sino a raggiungere i piccoli rilievi dell’armadio; erano ornamenti floreali: piccole sculture in legno, peraltro abbastanza fragili. I ragazzini inve¬ce li utilizzavano come gli appigli naturali della roccia durante una scalata. In questo modo, se l’armadio non si ribaltava e l’appiglio non cedeva, si guadagnava finalmente la piatta estre¬mità del guardaroba. Uno per volta i piccoli raggiungevano senza troppa difficoltà la destinazione. Anche lassù però si stava stretti, nemmeno ci si poteva muovere, se si voleva evi¬tare il classico ribaltamento da carico di punta. Allora i tre, capeggiati dalla più grande, decisero di andare in cantina. L’idea era quella di ricavare la sede del club nel vano dell’ascensore che ancora non c’era, e che non avrebbero fatto mai. A ripulire e abbellire vano e dintorni i piccoli Campo ci misero un paio di giorni. Il terzo giorno ad Antonella venne in mente di fare il tè. Così fu mandata ai giardinetti della piazza antistante a cercare legna da ardere. Detto fatto. I bambini accesero il fuoco e fecero bollire l’acqua in un pentolino. Preparato il tè, dopo aver accuratamente spento anche la brace, lo bevvero.425
Com’erano contenti! Nel frattempo qualcuno – usciva del fumo da un tombino nei pressi del palazzo – chiamò i Vigili del Fuoco, a quel tempo il 115 ancora non esisteva.
I pompieri vennero con tanto di attrezzature e scalette, ma già alla prima ispezione i bravi agenti scoprirono solo tre ra¬gazzini attorno a un fuocherello spento.
Caterina e Alessandro non vennero mai a sapere dell’accaduto. Negli anni Cinquanta i casi di incendio doloso a Tori¬no erano rari, inoltre l’opinione pubblica non rispondeva in modo drammatico a un’allerta. Nessuno si prese la briga di redarguire i tre monelli e non partì nemmeno la classica de¬nuncia per genitori irresponsabili. All’epoca non erano pochi i bambini lasciati a se stessi, e spesso combinavano di peggio.
Carlotta dimenticò presto perché quel gioco in cantina non ebbe seguito; forse fu proprio lei a rendersi conto che non era il caso di giocare col fuoco.
Quello che la ragazzina non avrebbe mai più dimenticato fu altro, qualcosa che in famiglia ebbe un nome: la strage.
Fu la distruzione di tutti i giocattoli.
Succedeva che il papà passasse da casa. Non lo faceva spesso, ma succedeva. Può sembrare strano, ma Alessandro Campo, quando arrivava all’ improvviso, non intendeva controllare le malefatte in corso d’opera dei figli. La sua era, per così dire, pura evasione. Carlotta avrebbe ricordato con nostalgia quelle visite improvvise, anche dopo la morte di suo padre.
Un pomeriggio arrivò a casa con un pacchettino, l’ultimo disco di Perry Como. Chiuse la porta alle sue spalle ed entrò in tinello. I piccoli lo seguirono incuriositi.
«Che hai comprato papà?», chiese Carlotta.
«Ora lo vedi», le rispose laconico.
Campo alzò il coperchio della radio attrezzata – Carlotta nel ricordo avrebbe rivisto sempre quel parallelepipedo ingombrante in legno che occupava buona parte della piccola stanza – aprì il pacchetto che aveva ancora tra le mani e ne estrasse un quarantacinque giri che sistemò con cura sul piatto del gi¬radischi. Quando la puntina venne collocata al posto giusto, la musica invase la stanza e lui iniziò la sua performance scivolando sul pavimento del tinello in un passo di danza. Provava 426
il cha cha cha e i suoi bambini gli facevano da pubblico: Carlotta molto interessata, Antonella perplessa, Ludovico con la medesima espressione di quando a scuola lo costringevano a stare nel suo banco. Suo padre stava imparando, oltre al liscio, anche i moderni. Prendeva lezioni presso la scuola di ballo di piazza Castello; con un gruppo di principianti la sera visitava le sale del centro e il sabato anche sua moglie lo accompagna¬va.
Al momento in cui si rese artefice della strage era giovane, aveva appena trentasei anni. Rappresentante di bigiotterie e chincaglierie si concedeva, tra un cliente e un altro, prima di tornare in magazzino a mordere il freno a causa del cognato, un momento ricreativo. Sapeva che avrebbe trovato i suoi bambini e ufficialmente le pause vestivano la funzione di ispezione. Di solito andava tutto liscio poiché i ragazzini, quando sentivano girare le chiavi nella toppa, si precipitavano al tavolo del tinello dove già i libri aperti ad arte facevano bella mo¬stra. Non così quel disgraziato pomeriggio. A scatenare tutto quel putiferio fu il fatto che il pater familias colse in flagrante, ovvero sfaccendata, soprattutto Carlotta. Il corpo del reato fu la scena che si trovò dinanzi: un ospedale secondo l’immaginario infantile e, sia pure con le necessarie approssimazioni, credibile. Nel corridoio, a rappresentare la corsia, c’erano una decina di scatole da scarpe regolarmente distanziate l’una dall’altra e ciascuna, in sostituzione delle legittime calzature eclissate altrove in un mucchio promiscuo, conteneva una bambola: la degente. Carlotta e Antonella erano le infermiere; sulla fronte di ciascuna, assicurato da due mollette per capelli, stava un foglio di carta velina sul quale, con il rossetto della mamma, la grande aveva fatto una croce. Ludovico natural¬mente era il dottore che, proprio in quel fatidico momento, visitava una paziente.
Non ci voleva una grande immaginazione per prevedere che tre bambini, lasciati soli per l’intero pomeriggio, giocassero invece che studiare. Invece sia l’espressione, sia i gesti del loro genitore rivelarono un sentimento differente dall’indulgenza: quello di un capo tribù offeso nella sua autorevolezza.
«Come?!», disse con sdegno l’uomo alla figlia maggiore, «a 427
dodici anni suonati, invece di studiare o aiutare la mamma non solo perdi il tuo tempo, ma sei un cattivo esempio e i tuoi fratelli ti stanno dietro!».
Fu come se, nella realtà infantile dei tre, fosse passato Attila: non un giocattolo sopravvisse alla strage. Alessandro Campo fracassò bambole, bambolotti, macchinine, pistole ad acqua, navi e soldatini, servizi di tazze e piattini, bottigliette e piccoli corredi. A perire nell’olocausto fu perfino Aida, la bambola nera di Antonella che la sua madrina le aveva regalato per la cresima.
«Hai dodici anni ormai, che cosa aspetti a mettere la testa a posto?», tuonava terrorizzando Carlotta. Lei sapeva che cosa intendeva suo padre e anche come avrebbe continuato, poi¬ché quelle parole le aveva già dette e le avrebbe ripetute tante volte ancora e sempre con l’accanimento di chi, come soleva sempre dire, non ci viene di sopra: «Sei una donna, non te lo dimenticare, e le donne lavorano più degli uomini. Sei pregata dunque di lasciar perdere il ballo, il disegno, i romanzi e com¬pagnia bella. Non voglio più vedere un giornalino per casa».
Le cose tra Carlotta e Alessandro stavano cambiando; i poli del loro rapporto avevano subìto una brusca inversione. Tutto quello che prima, quando lei era una bambina, aveva rappre¬sentato oggetto di lode, ora era riprovevole e creava allarme. Era la fantasia della ragazza, tanto lodata in passato, a essere riportata nei ranghi adesso; poiché, per come la vedeva Campo, rappresentava da sola la peggiore minaccia dello status quo; ma questo sua figlia ancora non poteva comprenderlo.