Ho idea che mi collegherò/scriverò molto poco adesso che sono in vacanza al mare dai miei :boh:, ma intanto rispondo brevemente a questa interessante discussione sollevata da Zingaro in un momento in cui entrambi, grazie al libro di Yalom, abbiamo affrontato questi temi...
Allora, come risposta "oggettiva", ovvero riferita non alla mia personale concezione della felicità, ma ad alcuni filosofi del passato che poi di fatto hanno cambiato la storia, userò parole simili a quelle usate dal personaggio Spinoza (che a sua volta faceva riferimento ad Epicuro, fervido sostenitore - come ricorda Zingaro - dell'
ataraxia, ovvero della felicità come liberazione dalle passioni) nel libro sopra citato: la felicità non può dipendere da qualcosa di esterno, di "terreno" perchè tutto ciò che esiste in natura è limitato e finito.
La vera felicità può dipendere solo da qualcosa di immutabile e imperituro, di eterno. Fin qui la cosa credo che sia abbastanza condivisibile.
Spinoza (sulla scia di Epicuro) faceva come esempi negativi la ricchezza, il potere e la fama, intesa come la stima dei propri simili (quindi non necessariamente una fama "negativa"): queste cose non possono costituire la base della felicità non perchè di per sè siano sbagliate, ma perchè appunto non sono stabili, per cui raggiunte queste, se le cose vanno bene ne vogliamo sempre di più (e quindi diventiamo schiavi di qualcosa che ci dovrebbe far star bene), mentre se vanno male ripiombiamo nella disperazione. E che felicità è una cosa così soggetta a mutamenti che oltretutto non dipendono da noi?
Per questo spesso si fa riferimento alla felicità come a un'
assenza piuttosto che una
presenza: questo non vuol dire che meno cose abbiamo più siamo felici (è vero fino a un certo punto, e comunque dipende da ciò a cui si aspira), ma che la nostra felicità non dovrebbe dipendere da qualcosa di "aggiunto" (quindi una presenza) che come tale potrebbe esserci tolta da un momento all'altro, ma da noi stessi, nel momento in cui impariamo ad essere felici anche
senza mille cose che magari giustamente ci danno piacere, ma dalle quali non dovrebbe
dipendere il nostro stato d'animo. Spero di essere stata chiara. In effetti molte filosofie si basano su questi concetti, in alcuni casi portati anche alle estreme conseguenze (vedi buddhismo, che io ammiro ma non condivido).
Se poi dovessi dire la mia concezione di felicità alla luce di tutto questo... be', la cosa diventa più complicata, perchè, per quanto condivida tutto ciò che ho riportato, io - per mia natura - sono ostinatamente legata all' irrazionalità dell'uomo come qualcosa a cui trovo difficilissimo rinunciare... Per cui va da sè che ritengo che la sola razionalità (che ad esempio Spinoza esaltava come il massimo obiettivo possibile) da sola non possa bastare, non solo perchè credo sia impossibile da raggiungere, ma anche perchè, ammesso che lo fosse, ci farebbe perdere comunque una componente fondamentale di noi stessi, della nostra identità, che va sicuramente gestita, ma comunque custodita e protetta.
Ecco... spero di non essere stata troppo confusionaria!
Aver scritto queste mi ricorda che mi piacerebbe scrivere la recensione del libro prima che passi troppo tempo da quando l'ho finito, ma ho idea che per un po' non riuscirò!!! Comunque approfitto di questo thread (ci va a pennello) per consigliarvelo
:
Il problema Spinoza di Yalom a cui far seguire, dello stesso autore, quello che secondo me resta il più riuscito,
Le lacrime di Nietsche, dove appunto si affronta la questione del peso della componente "irrazionale" dell'uomo, delle passioni, nella ricerca della propria felicità!