Ah, i vecchi positivisti di una volta! Credevo fossero estinti, e invece - tecchete! - spuntano come le scolopendre da sotto le pietre umide!
aura:
Pensando ad una ipotetica dissoluzione del problema morte (sempre che lo sia, e non sia piuttosto una benedizione), la prima riflessione, e parecchio banale, è che di fatto nulla se ne possa dire: così come i vaneggiamenti delle sinistre al potere, loro non sono abituate a comandare, noi non lo siamo ad essere immortali. La morte è - più banalmente ancora - il fenomeno biologico più comune e diffuso, nessun altro fenomeno di fatto copre una percentuale statistica del 100% in efficienza, le anomalie genetiche, le patologie innate o acquisite, le variazioni, la stessa divisione in generi maschile e femminile, zodiaci e nature, tutto si arrende all'unica certezza universale, tanto estesa e infallibile e implacabile quanto la vita stessa.
Com'è noto, negli esseri umani non può intendersi e non si intende quale compimento meccanico di un mero processo biologico; tutte le culture note vi hanno attribuito un'aura simbolica, in quanto avvenimento in sé insignificante ma rinviante ad altro, e la qualità superiore di esperienza produttrice di senso. Ben lo dice Heidegger, con la sua solita macchinosità geniale: siamo innanzi tutto essere-per-la-morte, il primo momento degli umani non è il presente, ma l'avvenire. Se fossimo vincolati al presente come le altre fiere prive di una coscienza autoreferenziale, saremmo immortali (Borges docet), mentre è il nostro vivere nell'istante che sta per seguire la mortalità. Essere-per-la-morte dicevo, la possibilità dell'impossibile che agisce reatroattivamente informando di senso tutto il segmento dell'esistenza presa nel suo esserci: dato un parametro certo e assoluto, la funzione si diparte secondo la dinamica A->B e successivamente da B<-A. In parole molto più spicciole, sei vivo, questo è un parametro sufficiente affinché tu possa essere tutto ciò che vuoi o sei, ma spicciati che si crepa, e non ci saranno altre occasioni. La vita degli esseri umani è concentrata tacitamente sul momento estremo, è in relazione ad esso che si dipana e realizza. Noi siamo progetti in quanto mortali.
Dall'altra parte, come dimenticare Eschilo e il suo senso del tragico, la sua caleidoscopica ed annientante lucidità sulle umane cose? Altro che specie eletta, dal dio o dall'evoluzione non importa, siamo esseri tra gli esseri, parti una natura indifferenti alle sue parti singolari e determinate, anzi, dirò di più, parte di un sistema che bada solo all'equilibrio della vita. L'essere coscienti della sua immensa contraddizione non ci rende privilegiati, è un caso ed una inezia. E come il Greco insegna, sciocco ed inutile macchiarsi della somma colpa della hybris ribellandosi all'ordine delle cose, l'Attico non chiede una vita eterna, piuttosto una buona vita. Scevra dalla malattia, dalla decadenza, dalla vecchiaia e dalla povertà. Abbiamo forse dimenticato le fiere e truci parole di Sileno, interrogato dal re Mida?
«Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto.»
Ed ho escluso finora, attenendomi alla visione globale della natura, in cui l'uomo è relegato al suo ruolo di essere accidentale in un'economia che lo sovrasta. Ma vogliamo contare i sentimenti eroici propri della nostra razza? Gli altari innalzati alla danza e alla lotta, il gusto esasperato del pericolo e della minaccia, ciò che origina la qualità fondamentale e più importante: il coraggio. In alcune culture, specialmente locali, la morte è vista addirittura come uno scandalo, un'indivia degli dei, dal momento che per noi tutto ha il suo gusto vissuto, rapace e irripetibile. Per noi ogni momento potrebbe essere l'ultimo, ed è grandiosità distillata e pronta ad esplodere, nel racconto di quest'essere effimero e caduco, conduttore di immanente bellezza proprio perché non dura. Se la morte nell'istante della sua esperienza incute il più sacro e profondo dei timori, la forza e la vita che cronologicamente la precedono fanno sì di valorizzare l'esistenza e di compierla nel più completo dei modi. L'alea in cui siamo avvolti e le infinite possibilità che un giorno si esauriranno insieme a noi, funzionano da catalizzatori, non da deterrenti.
E come dimenticare, spostandoci altrove, le parole di Borges sul suo immortale?
«Essi sapevano che in un tempo infinito ad ogni uomo accadono tutte le cose. Per le sue passate o future virtù, ogni uomo è creditore d'ogni bontà, ma anche di ogni tradimento, per le sue infamie del passato e del futuro.[...] Visti in tal modo tutti i nostri atti sono giusti, ma sono anche indifferenti. Non esistono meriti morali o intellettuali.»
E ancora:
«Nessuno è qualcuno, un solo uomo immortale è tutti gli uomini. Come Cornelio Agrippa, sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono demonio e sono mondo, il che è un modo complicato per dire che non sono.»
Dato un tempo infinito, ogni uomo finirebbe con l'esaurire il campo di tutte le esperienze possibili. Ciò che rende individui gli individui, il loro unico e irripetibile passato, finirebbe col venire meno: tutti esperirebbero tutto, per arrivare ad una grigia conformità, diverremmo esseri indistinti e indistinguibili, saremmo tutti gli uomini, e per quella splendida formula della coincidentia oppositorum, nessuno. Morire non è, com'è stato detto, il dissolversi di un'io accidentale ed inutile, quanto invece il marchio di garanzia di un'identità inviolabile ed irriproducibile: divorandolo, ne custodisce l'unicum.
«La morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini.[...] Tutto, tra i mortali, ha il valore dell'irrecuperabile e del casuale. Tra gl'Immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l'eco d'altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine. Non c'è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi.»