Vado oltre ciò che dice Minerva, non solo vi dico quale è stato il racconto preferito, ma data la brevità, ve lo posto:
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Illustrissimo signor Presidente,
oggi ci sarà l’ultima seduta del processo che mi vede imputato d’omicidio e quindi lei, prima che
la giuria si ritiri in camera di consiglio, mi rivolgerà la consueta domanda se ho qualcosa da dire.
E io, rispondendole di no, continuerò ai suoi occhi a mantenere quella posizione di “ostinata
non collaborazione”, come lei l’ha stigmatizzata in una delle prime sedute. Non posso darle
torto. In effetti io non ho mai voluto chiamare un avvocato a mia difesa e mi sono contentato
sempre d’avvocati d’ufficio pochissimo informati sul caso. Non solo: ho fatto costantemente
scena muta nel corso di qualsiasi interrogatorio, a cominciare da quello, ormai lontano nel
tempo, cui mi sottopose il commissario che mi mise le manette. Sento perciò il dovere, a
questo punto, di chiarire che il mio atteggiamento non è dettato da disprezzo verso la Giustizia
(come ha scritto qualche giornale), e men che mai da una, come dire, dostoevskiana volontà
d’espiazione (come ha detto in tv un eminente psicologo). Ma, del resto, quante supposizioni
errate sono state fatte sulla carta stampata e sulle tv! C’è chi ha sostenuto che io avrei ucciso
per gelosia, perché la mia fidanzata m’aveva lasciato per mettersi con il mio amico e mia futura
vittima. Per altri invece la gelosia sarebbe scaturita dal fatto che il mio amico aveva vinto la
cattedra universitaria e io no. Vede, signor Presidente, io non ho nulla da espiare, in quanto non
sono stato io ad ammazzare il mio fraterno amico Saverio Libonati. No, si fermi, non si indigni,
non butti la lettera nel cestino come certamente è tentato di fare. “Ma con che faccia sostieni
di non essere stato tu” mi direbbe indignato se le fossi di fronte, “con tutte le prove a tuo
carico? Nell’appartamento c’eravate solo voi due, la tua ex fidanzata sostiene che quando ha
lasciato l’appartamento tu e Libonati stavate ferocemente discutendo, non ha saputo dire su
che cosa, Libonati è morto per una coltellata che gli ha spaccato il cuore, tu, quando sei stato
arrestato, impugnavi ancora il coltello...” È tutto vero, signor Presidente, ma io, mi creda, non la
sto prendendo in giro.
Cercherò di esporre con la maggiore chiarezza possibile come sono andati i fatti. Con Saverio
siamo stati compagni di scuola e amici indivisibili dalle elementari all’università. Tutti e due ci
siamo laureati in Filosofia con la stessa votazione, 110 e lode. Così come avevamo fatto negli
anni universitari, anche dopo la laurea abbiamo continuato a condividere lo stesso
appartamentino. Abbiamo contemporaneamente ottenuto la cattedra in due diversi licei della
città. Del suo primo libro sono stato io a correggere le bozze. Lo stesso ha fatto lui per me.
Quando mi sono fidanzato con Laura, Saverio si è trasferito nell’appartamento accanto al
nostro, che si era fortunatamente reso libero. La convivenza è continuata. E quando Laura,
dopo due anni, m’ha confidato d’essersi innamorata di Saverio, tutto quello che ha dovuto fare
è stato spostare le sue cose nell’appartamento a fianco, senza che il ritmo della nostra vita in
comune ne venisse minimamente alterato.
Forse lei non sa, signor Presidente, che le discussioni tra filosofi spesso e volentieri scadono al
livello di quelle che in genere hanno i tifosi rivali di due squadre di calcio locali nel giorno del
derby. Volano parole grosse, si viene alle mani. Le potrei portare esempi famosi. Il mite David
Hume accusò Rousseau d’essere uno squilibrato, associandosi a Diderot che lo giudicava
addirittura un mostro. E che dire di Wittgenstein, che arrivò a minacciare Popper con un
attizzatoio? Saverio e io, da sempre, ci siamo trovati su posizioni diametralmente opposte.
Prima ancora che di divergenze filosofiche si trattava di diversità caratteriali. Era forse questo il
segreto della nostra amicizia. Perciò le discussioni tra me e Saverio spesso e volentieri
degeneravano presto in vie di fatto. Ci prendevamo a cazzotti o ci rotolavamo per terra,
avvinghiati. In quei momenti ci odiavamo, ma l’odio durava poco. Tornavamo più amici di
prima. Era quasi una consuetudine, facevamo così già alle elementari. I primi tempi Laura ne
rimaneva atterrita, anche perché era totalmente incapace di capire l’oggetto dei nostri diverbi.
Come avrà avuto modo di notare, Laura, che ha fatto solo la scuola dell’obbligo e si nutre di
romanzetti rosa, è uno splendido corpo senza cervello.
Quella sera avevamo cenato a casa mia. A tavola, il discorso tra me e Saverio cadde sul
problema della doppia verità. E cominciammo ad accalorarci, bevendo più del solito. A un certo
punto Laura, che voleva vedere non ricordo cosa in tv, ci cacciò via e noi due proseguimmo la
discussione, che si era fatta più che accesa, in cucina. Poi Laura venne a dirci che se ne andava a
letto, naturalmente nell’appartamento attiguo, quello di Saverio.
Sono costretto ad aprire una parentesi. Le devo chiarire, per sommi capi, che gli Scolastici latini
chiamarono della “doppia verità” la dottrina di Averroè che distingue le verità di fede dalle
verità di ragione. Per gli Scolastici, se una proposizione non poteva essere dimostrata con la
ragione, doveva essere accettata lo stesso per fede. Lei può intuire quali e quante reazioni
abbia potuto suscitare un’affermazione simile. Giovanni di Jandun arrivò a dichiarare che si può
credere il contrario di ciò che è stato ampiamente dimostrato se così vuole la fede. Per cui lo
stesso Giovanni di Jandun si permetteva di fare affermazioni assolutamente indimostrabili,
impossibili a essere spiegate con la ragione, concludendo con una frase ironica: “E se tu invece
lo sai dimostrare, me ne rallegro”.
A un certo punto del nostro duello, perché di questo si trattava, di un duello feroce e senza
esclusione di colpi, ci accorgemmo che il vino era finito. Neanche Saverio ne aveva. Era da poco
trascorsa l’una, sarebbe stato impossibile andare a comprarlo. Forse commisi l’errore d’aprire
una bottiglia di whisky.
Il duello riprese, più accanito di prima. Dopo un’ora e passa Saverio non reagì più alle mie
argomentazioni, sembrava inseguisse un altro pensiero, balbettava. Mi convinsi che avesse
bevuto troppo. Approfittai di quella tregua e andai in bagno. Quando tornai, trovai Saverio in
piedi, rinfrancato, si era lavato la faccia nel lavandino, sorrideva.
«Prendi un coltello grosso» mi disse, «e tienilo forte a due mani.»
Io, volendo vedere dove andava a parare, feci come desiderava.
«Appòggiati con le spalle al muro» mi ordinò.
Ubbidii. Fu un attimo. Fece un balzo in avanti e m’abbracciò con violenza. Atterrito, sentii la
lama penetrare nella sua carne. Poi, mentre cadeva, mi sussurrò, beffardo:
«Mi rallegrerò se tu invece lo saprai dimostrare.»
In quel momento Laura, che aveva le chiavi del mio appartamento, entrò.
La mia verità è questa, ed è indimostrabile. Io me ne rallegrerei se ci riuscisse, ma lei, come me,
è nell’impossibilità di dimostrarla. E oltretutto non penso sia disposto a credere alle mie parole
per pura fede. Perciò, meglio il silenzio.
Mi creda di lei devotissimo
Michele Stefani