Ho letto quasi uno di seguito all’altro due romanzi che mi hanno aperto gli occhi su una porzione di mondo fino a questo momento per me quasi sconosciuta (se non qualche ricordo delle guerre in corso quando ero bambina): i Balcani.
Ebbene, credo che uno dei più bei regali che i libri possano farci sia quello di rappresentare delle “porte aperte sulla Storia”: un’occasione per scoprire paesi, culture, eventi che non conoscevamo e che attraverso le pagine di un libro si impongono finalmente alla nostra attenzione. Credo che in alcuni casi un romanzo possa essere molto più incisivo e comunicativo di un saggio, o magari, semplicemente, diventa lo stimolo che ci spinge a iniziare una ricerca più seria e approfondita. Penso che questo sarà il mio caso, perchè trovo che la storia di questi popoli abbia molto da insegnarci: la più profonda tolleranza e la violenza più cruda si sono susseguite e persino hanno coesistito in questa parte di mondo, come forse in nessun altro luogo.
E adesso arriviamo a noi: questo libro mi ha affascinato moltissimo. Ammetto che ha dei limiti, se così vogliamo chiamarli (e sono quelli già individuati da chi ha commentato prima di me): è un romanzo piuttosto lungo, dal ritmo lento, cadenzato, a volte ripetitivo. Ho impiegato tre settimane a finirlo, ma mi rendevo conto che era giusto che fosse così: Il ponte sulla Drina è un poema epico il cui protagonista è... il ponte stesso. Non il suo ideatore, il “giovane e valoroso dignitario alla corte del sultano, poi kapudan pascià, quindi genero dell’imperatore, condottiero e statista di fama mondiale, Mehmend Pascià Sokoli”, colui che decise la costruzione del ponte per porre fine a quel “malessere” che provò per la prima volta da ragazzo, quando, nel viaggio dalla Bosnia alla corte del sultano, a cui era destinato come “tributo umano”, attraversò la Drina “a caro prezzo e con grande rischio” nel punto in cui “la strada si spezzava” e “le disperazioni e gli sconforti della miseria si addensavano per depositarsi sulle rocciose sponde del fiume”; nemmeno la volontà divina, di cui “l’uomo è solo un cieco e umile strumento”, e nemmeno le decine di personaggi – uomini e donne, laici e sacerdoti, turchi e serbi, musulmeni, cristiani ed ebrei, imperialisti e nazionalisti – che popolano le pagine di questo libro... Il vero e unico protagonista è il ponte, “bianco, duro e invulnerabile”, simbolo di unione e di discordia, opera pia e causa di tante morti, punto strategico politicamente e militarmente, origine di miti e leggende, ponte metaforico fra Oriente e Occidente, punto di riferimento indiscusso per quasi quattro secoli.
“In ogni caso, una cosa è certa: tra la vita della gente della cittadina e questo ponte sussiste un intimo, secolare legame. I loro destini sono talmente intrecciati gli uni agli altri, che non si possono nè pensare nè raccontare separatamente.”
Ciò che ho più apprezzato in questo libro e in questo autore è stata la capacità di attraversare secoli di storia in una doppia prospettiva: a volo d’uccello e all’interno delle umane vicende di singoli individui, nessuno dei quali prevale sull’altro, ognuno dei quali assurge alla dignità di “eroe” nello spazio narrativo dell’avventura della sua vita. Tuttavia le pagine che più mi hanno più colpito sono quelle in cui l’autore si sofferma non sui singoli episodi (sebbene alcuni siano vere perle), ma ci racconta le impercettibili trasformazioni avvenute nel corso degli anni e determinate dagli avvicendamenti politici (in particolare il passaggio dal dominio ottomano a quello austro-ungarico) e dai cambiamenti culturali, sociali, economici che li hanno accompagnati.
La svolta determinante avviene nel 1908, con l’annessione della Bosnia ed Erzegovina all’Impero austro-ungarico: ci si rende conto che lo “straniero” non è solo “forza occupante”, ma anche portatore di una mentalità nuova, sconosciuta al popolo turco e a quello slavo: la cultura occidentale.
Bellissime, a mio parere, le pagine dedicate a questa “rivoluzione senza armi”: “Gli stranieri non riuscivano a rimanersene quieti e non consentivano a nessuno di stare in pace; sembravano decisi a impadronirsi, con la loro invisibile ma sempre più sensibile rete di leggi, di disposizioni e di prescrizioni, della vita stessa, con gli uomini, gli animali e gli oggetti inanimati, e a mutare e a spostare ogni cosa intorno a sè; l’aspetto esteriore della città così come le abitudini e le indoli delle persone, dalla culla fino alla tomba. E tutto questo facevano tranquillamente e senza dispendio di parole, senza ricorrere alla forza e senza eccitazione, così che uno non sapeva a che cosa opporsi”. La differenza rispetto al dominio ottomano è evidente: “la gente temeva il governo, ma allo stesso modo che si gaha paura della malattia e della morte, non già come si trepida per la malvagità, la miseria e la violenza” (e qui il pensiero non può non andare alla raccapricciante descrizione, nella prima parte del libro, dell’impalamento di un uomo accusato di aver tentato di sabotare la costruzione del ponte).
“Per nessuno dei cittadini la nuova vita significò l’attuazione di ciò che essi portavano nel sangue e che da sempre desideravano con tutta l’anima; al contrario, tutti loro, musulmani e cristiani, entrarono in essa con riserve assolute di vario genere, ma tali riserve erano segrete e nascoste, mentre la vita era visibile e possente, ricca di possibilità nuove ed apparentemente più grandi.”
E ancora questo passaggio profondamente significativo: “La popolazione trovò guadagni e sicurezza, e questo bastò perchè la vita, la vita esteriore, anche là procedesse “lungo il cammino del perfezionamento e del progresso”. Tutto il resto rimase compresso in quell’oscuro fondo della coscienza dove vivono e fermentano i sentimenti fondamentali e le indistruttibili persuasioni delle singole razze, fedi e caste, sentimenti e persuasioni che, apparentemente morti e seppelliti, preparano per successivi, lontani tempi, inaudite metamorfosi e catastrofi, senza le quali, a quanto pare, non possono esistere i popoli, e questa terra in particolare.”
Quando giungiamo al 1914, quindi, al famoso attentato all'arciduca Francesco Ferdinando e al conseguente scoppio della prima guerra mondiale (che qui non viene nemmeno nominata), comprendiamo benissimo che ciò che è accaduto non è altro che la manifestazione esteriore di un sentimento che si è formato ed è cresciuto nel corso dei secoli.
Andrić ha il sicuro merito di aver interpretato con grande sensibilità il dramma dei popoli slavi e aver svelato le radici profonde di questo dramma. Ho perciò la netta impressione che questo romanzo non sia solo una grandiosa epopea che si apre nel 1571, l’anno di completamento del ponte, e si chiude nel 1914, “l’ultimo anno della cronaca del ponte sulla Drina”, ma anche un’occasione – per me, per chiunque decida di accostarsi a questo libro – per provare a comprendere ciò è accaduto in quelle regioni ben dopo l’anno della sua pubblicazione.
Assolutamente consigliato, e imprescindibile per chiunque sia interessato alla storia dei popoli balcanici.