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Il presente libro sulla storia e interpretazione del suicidio è opera del prof. Barbagli della facoltà di Sociologia di Bologna; è un testo specialistico ma alla portata di chiunque, con una gradevole veste editoriale; il prof. Barbagli utilizza un'ampia scelta di documenti e di fonti, indicate in appendice; non vengono dati giudizi di valore sul suicidio ma vengono analizzati documenti e statistiche su questo evento.
Nel primo capitolo si enuclea il paradigma dominante del cristianesimo sul suicidio e la sua condanna; l'origine della concezione è di Agostino di Ippona che per primo affermò il suicidio essere il peccato mortale per eccellenza, in quanto l'unico in cui il reo non potesse chiedere il perdono in tempo. Tale paradigma si rinforzerà fino al '600, grazie alla persecuzione sistematica del potere secolare ed ecclesiastico verso i suicidi: i cadaveri di questi infelici venivano processati e poi orribilmente straziati sotto gli occhi di tutti, favorendo il disprezzo e la condanna pubblica e affliggendo le famiglie dei suicidi con il ravage, cioè il saccheggio di tutti i loro beni.
Nel secondo capitolo viene mostrato la crisi del paradigma dominante, con la presa di coscienza da parte di autori del calibro di Montaigne, di Donne e di Moro che il suicidio non può essere peccato mortale, nemmeno, sostiene Donne, seguendo i Padri della Chiesa e la Bibbia... lo stesso Cristo a detta di Donne ha scelto deliberatamente di porre fine alla sua vita, potendo egli in qualunque momento far cessare il proprio martirio.
Il terzo capitolo è meno interessante in quanto abbandona il tema del suicidio per operare un confronto statistico tra omicidio e suicidio: alla diminuzione degli omicidi vi è stata, dal 1600 a oggi, un aumento dei suicidi, in quanto la cultura dominante dal 1600 a oggi ha “sdoganato” la gravità del fatto stesso, aumentando invece grazie alla centralizzazione dell'apparato burocratico, la repressione degli omicidi.
Il quarto capitolo è quello maggiormente impegnativo; affronta innanzitutto il tema della popolazione di stirpe ebraica e la loro tendenza al suicidio: tale tendenza era bassa fino alla sopravvivenza di società con forti legami tra gli appartenenti e divenne molto alta con l'avvento del nazismo. L'autore sottolinea che i suicidi degli ebrei non aumentarono nei campi di concentramento ma tra i cittadini che stavano per essere deportati, che riuscivano così a sottrarsi alla cattura. Una volta nei campi infatti il suicidio veniva rifiutato sia perché chi rischia di morire di fame difficilmente si uccide sia per non aiutare i propri persecutori.
Al di là degli ebrei la presenza dei nazifascisti in Europa fece aumentare in modo significativo il tasso del suicidio, che aumentò anche in Germania nel 1942 allorquando si iniziò a profilare con chiarezza la possibilità della sconfitta e la distruzione totale che ad essa avrebbe fatto seguito.
In seguito viene analizzato il tema del suicidio in relazione alle due guerre mondiali, sostenendo che durante le guerre il numero dei suicidi in media cala, in quanto tutta l'ansia e le problematiche individuale vengono scaricate su un nemico comune, mentre in media al termine della guerra stessa vi è un nuovo aumento.
Con l'avvento del benessere negli stati occidentali vi è un netto calo dei suicidi, grazie specialmente alla medicalizzazione di chi soffre di depressione e malattia psichiche, il che permette alla lunga di cambiare il proprio rapporto con il suicidio, che non viene più visto come “possessione diabolica” come nel medioevo ma come malattia curabile e da curare; opposta tendenza si riscontra nel blocco dei paesi orientali in tutto il periodo del dopoguerra con il culmine del 1989, a causa del crollo dell'unione sovietica, che sottrae le certezze che la struttura rigida e onnipervadente assicurava a propri cittadini.
Per quanto concerne i migranti nel mondo, le percentuali di suicidio restano di solito le stesse del paese di origine e quindi se un italiano emigra negli stati uniti in media manterrà la stessa propensione numerica al suicidio presente nella patria d'origine, mentre nei casi di una forte integrazione nella nuova patria il migrante seguirà la tendenza della nuova patria; nel caso specifico degli afro-americani negli stati uniti la tendenza al suicidio è significativamente bassa, in quanto quest'atto viene visto come elemento fondante della cultura dei bianchi e va quindi con essa combattuto.
Nel quarto capitolo viene affrontata la pratica indiana del Sati, cioè l'autoimmolazione di una donna che si brucia viva dopo la morte del marito; questa pratica viene condotta alle sue origini culturali mostrando come, nei casi in cui questa immolazione non veniva effettuata la donna diventava vedova a tutti gli effetti e subiva la morte sociale; non era quindi solo una scelta l'autoimmolazione ma anche una sorta di obbligo; inoltre se la donna cercava di cambiare idea in prossimità della pira veniva ricacciata nel fuoco tramite bastoni dai suoi parenti.
Nel quinto capitolo viene descritto il suicidio contro agli altri diffuso nell'antica Cina: le donne che subivano un'offesa per lo più di carattere sessuale si uccidevano pubblicamente in modo che i propri parenti si decidessero a vendicarla; questo tipo di suicidio era quindi fatto per far “tremare i potenti”.
Nel sesto capitolo si ripercorre la storia dei movimenti terroristici, mostrando le caratteristiche degli attentati kamikaze. Vengono svolti sia nei paesi a maggioranza islamica contro ai governi filo-occidentali, sia nei paesi a maggioranza non islamica da parte di organizzazioni islamiche (Hamas, Hezbollah), sia nei paesi a maggioranza Buddista da parte di induisti (movimento delle tigri nere in Sri Lanka) sia da parte di organizzazioni sovranazionali molto parcellizzati come Al Qaeda; la caratteristica degli attentatori è di essere persone non gravate da problemi psichici e affidabili da un punto di vista della capacità e delle competenze.
Trasversalmente in tutto il libro si opera una critica della teoria di Durkheim del suicidio, in quanto tende a comprendere solo un aspetto del problema (il suicido commesso allorquando si presenta una diminuzione della coesione sociale) e non nella sua globalità (il suicidio come prodotto della cultura in cui si sviluppa, con forte differenze tra una cultura e l'altra).
E' un capolavoro di storiografia e di sociologia questo testo del prof. Barbagli, consigliato a tutti.
Voto: 10/10.
Nel primo capitolo si enuclea il paradigma dominante del cristianesimo sul suicidio e la sua condanna; l'origine della concezione è di Agostino di Ippona che per primo affermò il suicidio essere il peccato mortale per eccellenza, in quanto l'unico in cui il reo non potesse chiedere il perdono in tempo. Tale paradigma si rinforzerà fino al '600, grazie alla persecuzione sistematica del potere secolare ed ecclesiastico verso i suicidi: i cadaveri di questi infelici venivano processati e poi orribilmente straziati sotto gli occhi di tutti, favorendo il disprezzo e la condanna pubblica e affliggendo le famiglie dei suicidi con il ravage, cioè il saccheggio di tutti i loro beni.
Nel secondo capitolo viene mostrato la crisi del paradigma dominante, con la presa di coscienza da parte di autori del calibro di Montaigne, di Donne e di Moro che il suicidio non può essere peccato mortale, nemmeno, sostiene Donne, seguendo i Padri della Chiesa e la Bibbia... lo stesso Cristo a detta di Donne ha scelto deliberatamente di porre fine alla sua vita, potendo egli in qualunque momento far cessare il proprio martirio.
Il terzo capitolo è meno interessante in quanto abbandona il tema del suicidio per operare un confronto statistico tra omicidio e suicidio: alla diminuzione degli omicidi vi è stata, dal 1600 a oggi, un aumento dei suicidi, in quanto la cultura dominante dal 1600 a oggi ha “sdoganato” la gravità del fatto stesso, aumentando invece grazie alla centralizzazione dell'apparato burocratico, la repressione degli omicidi.
Il quarto capitolo è quello maggiormente impegnativo; affronta innanzitutto il tema della popolazione di stirpe ebraica e la loro tendenza al suicidio: tale tendenza era bassa fino alla sopravvivenza di società con forti legami tra gli appartenenti e divenne molto alta con l'avvento del nazismo. L'autore sottolinea che i suicidi degli ebrei non aumentarono nei campi di concentramento ma tra i cittadini che stavano per essere deportati, che riuscivano così a sottrarsi alla cattura. Una volta nei campi infatti il suicidio veniva rifiutato sia perché chi rischia di morire di fame difficilmente si uccide sia per non aiutare i propri persecutori.
Al di là degli ebrei la presenza dei nazifascisti in Europa fece aumentare in modo significativo il tasso del suicidio, che aumentò anche in Germania nel 1942 allorquando si iniziò a profilare con chiarezza la possibilità della sconfitta e la distruzione totale che ad essa avrebbe fatto seguito.
In seguito viene analizzato il tema del suicidio in relazione alle due guerre mondiali, sostenendo che durante le guerre il numero dei suicidi in media cala, in quanto tutta l'ansia e le problematiche individuale vengono scaricate su un nemico comune, mentre in media al termine della guerra stessa vi è un nuovo aumento.
Con l'avvento del benessere negli stati occidentali vi è un netto calo dei suicidi, grazie specialmente alla medicalizzazione di chi soffre di depressione e malattia psichiche, il che permette alla lunga di cambiare il proprio rapporto con il suicidio, che non viene più visto come “possessione diabolica” come nel medioevo ma come malattia curabile e da curare; opposta tendenza si riscontra nel blocco dei paesi orientali in tutto il periodo del dopoguerra con il culmine del 1989, a causa del crollo dell'unione sovietica, che sottrae le certezze che la struttura rigida e onnipervadente assicurava a propri cittadini.
Per quanto concerne i migranti nel mondo, le percentuali di suicidio restano di solito le stesse del paese di origine e quindi se un italiano emigra negli stati uniti in media manterrà la stessa propensione numerica al suicidio presente nella patria d'origine, mentre nei casi di una forte integrazione nella nuova patria il migrante seguirà la tendenza della nuova patria; nel caso specifico degli afro-americani negli stati uniti la tendenza al suicidio è significativamente bassa, in quanto quest'atto viene visto come elemento fondante della cultura dei bianchi e va quindi con essa combattuto.
Nel quarto capitolo viene affrontata la pratica indiana del Sati, cioè l'autoimmolazione di una donna che si brucia viva dopo la morte del marito; questa pratica viene condotta alle sue origini culturali mostrando come, nei casi in cui questa immolazione non veniva effettuata la donna diventava vedova a tutti gli effetti e subiva la morte sociale; non era quindi solo una scelta l'autoimmolazione ma anche una sorta di obbligo; inoltre se la donna cercava di cambiare idea in prossimità della pira veniva ricacciata nel fuoco tramite bastoni dai suoi parenti.
Nel quinto capitolo viene descritto il suicidio contro agli altri diffuso nell'antica Cina: le donne che subivano un'offesa per lo più di carattere sessuale si uccidevano pubblicamente in modo che i propri parenti si decidessero a vendicarla; questo tipo di suicidio era quindi fatto per far “tremare i potenti”.
Nel sesto capitolo si ripercorre la storia dei movimenti terroristici, mostrando le caratteristiche degli attentati kamikaze. Vengono svolti sia nei paesi a maggioranza islamica contro ai governi filo-occidentali, sia nei paesi a maggioranza non islamica da parte di organizzazioni islamiche (Hamas, Hezbollah), sia nei paesi a maggioranza Buddista da parte di induisti (movimento delle tigri nere in Sri Lanka) sia da parte di organizzazioni sovranazionali molto parcellizzati come Al Qaeda; la caratteristica degli attentatori è di essere persone non gravate da problemi psichici e affidabili da un punto di vista della capacità e delle competenze.
Trasversalmente in tutto il libro si opera una critica della teoria di Durkheim del suicidio, in quanto tende a comprendere solo un aspetto del problema (il suicido commesso allorquando si presenta una diminuzione della coesione sociale) e non nella sua globalità (il suicidio come prodotto della cultura in cui si sviluppa, con forte differenze tra una cultura e l'altra).
E' un capolavoro di storiografia e di sociologia questo testo del prof. Barbagli, consigliato a tutti.
Voto: 10/10.