No, decisamente questo libro non mi è piaciuto.
Ho avuto diverse riserve, fin da inizio lettura, ma la riserva più grande è stata la poca, pochissima voglia che avevo di andare avanti: nessun coinvolgimento, nessuna curiosità... una fatica immane arrivare alla fine.
Fin dalle prime battute mi è sorto spontaneo un paragone, ma non con il più volte citato (anche dai critici)
Cent'anni di solitudine, bensì con
Il tamburo di latta. Perché il paragone? Perché è evidente (e le pagine di Wikipedia mi hanno solo confermato un'impressione talmente forte da non poterla attribuire al caso) che Rushdie aveva ben presente il capolavoro di Grass quando ha scritto il suo romanzo, talmente presente - aggiungo io - che ha voluto usare la stessa formula in un contesto completamente diverso e mescolandola ad altri elementi, ognuno dei quali avrebbe meritato un suo spazio e che invece, così, finiscono mescolati in modo confuso: il realismo magico (da qui il riferimento a Marquez), l'ambientazione indiana.
Il tamburino Oskar e Saalem Sinai, il figlio prediletto della Mezzanotte: entrambi raccontano in prima persona le proprie mirabolanti avventure, in entrambi i casi misteriosamente connesse alle vicende storiche del proprio Paese... ma quale incolmabile abisso! L'eroe di Grass è un ribelle, non si autocelebra, il suo protagonismo è frutto di scelte coraggiose, a volte egoiste, comunque anticonvenzionali. Tutt'altra cosa "l'eroe" di Rushdie, che si trova sempre nel posto giusto al momento giusto (anche nella sfortuna), che deve "far colpo" a tutti i costi, che - in un vano e a mio avviso patetico tentativo di creare suspence attorno a sé stesso - farcisce i propri racconti di anticipazioni incomprensibili (che senso ha introdurre un personaggio senza che si abbia la minima idea di chi sia? dovrebbe per questo incuriosirmi a conoscerlo? :boh

, di frase lasciate a metà come "
fino al momento in cui..." "
sarebbe andata a finire che..." (sic!) per poi concludere "ma non posso anticipare nulla, dovete avere pazienza!".
Che rabbia questo misto di arroganza e condiscendenza nei confronti del lettore, che rabbia questo continuo auto-referenziarsi!
Lo spunto (un bambino nato il giorno dell'Indipendenza allo scoccare della Mezzanotte, e per questa ragione dotato di poteri straordinari, oltre a rappresentare lo "specchio" della nuova India) è buono, l'occasione di un capolavoro c'è... ma perché sprecarli? Perché uno stile così didascalico e autocelebrativo, perché i parallelismi fra la vita di Saalem e quella dell'India così banali, con l'aggravante di essere anche minuziosamente spiegati? A volte il simbolismo di Grass risulta fin troppo criptico (si intuisce che tutto ciò che leggiamo è "segno" di qualcos'altro, ma non sempre riusciamo a capire di
cosa...), ma è nello sforzo di raggiungere il cuore del messaggio che è racchiusa la poesia! Invece l'estenuante sottolineare da parte di Rushdie/Saalem la propria straordinarietà, i propri sensazionali poteri, le proprie strabilianti avventure, non fa che togliere la magia, svelando il trucco. Fatto questo, l'inverosimiglianza su cui si regge tutto il racconto non è più giustificabile.
La bellezza, per essere tale, specie quando è ammantata di mistero, va evocata, non svenduta.
Alcuni passaggi interessanti (così come l'idea di partenza) ci sono: il suggerire in alcuni punti che questo continuo lodarsi altro non è che il tentativo di un bambino di superare la paura di essere rifiutato, trovando un suo posto nel mondo, nella Storia (questo sì, avrebbe un senso!); o il celebre passaggio "
chi sono io? la risposta: sono la somma di tutto ciò che è accaduto prima di me, di tutto ciò che mi si è visto fare, di tutto ciò che mi è stato fatto... ecc ecc"... ma per quanto validi non bastano, da soli, a salvarlo.
2,5 (e sono stata buona)