“A un corso di Horowitz, a Salisburgo, si incontrano tre giovani pianisti. Due sono brillanti, promettenti. Ma il terzo è Glenn Gould: qualcuno che non brilla, non promette, perché è. Una magistrale variazione romanzesca sul tema della grazia e dell’invidia, di Mozart e Salieri, ma ancor più sul tema terribile del non riuscire a essere.” (dalla quarta di copertina)
Cos’è stato a tenermi incollata a queste pagine? Il romanzo in sè e per sè o lo stile di questo autore, che fin dalla lettura di Perturbamento mi ha letteralmente folgorato? Prosa ossessiva, continue ripetizioni, l’assoluta impossibilità di tirare il fiato se non a fine libro: questo è Bernhard. Prego tenersi alla larga, se è non si è disposti a “soccombere” alla potenza di una scrittura che ha la natura di un vaneggiamento.
Un lungo, claustrofobico e martellante soliloquio (che dopo solo due romanzi ho imparato a riconoscere come il “marchio di fabbrica” di questo scrittore singolarissimo) che ruota intorno a tre personaggi: l’io narrante (alter ego dello stesso Bernhard), Glenn Gould – il “genio”, l’inarrivabile – e Wertheimer, il “soccombente”. Tutti e tre sembrano destinati ad essere “virtuosi del pianoforte”, ma l’incontro in gioventù con Glenn brucia qualsiasi prospettiva di carriera e di realizzazione negli altri due, determinando il loro fallimento: “se incontriamo il primo di tutti, dobbiamo rinunciare”, o ancora: “incontriamo un uomo come Glenn e questo incontro ci annienta, oppure ci salva” e, nel caso del narratore e del suo amico Wertheimer, li ha annientati.
Ma come suggerisce il titolo “il soccombente” è uno solo, Wertheimer, colui che (nessuno spoiler: lo scopriamo fin dalle prime righe) si è tolto la vita perché non riusciva ad accettare di non essere il migliore, non riusciva ad accettarsi non essendo il migliore. A differenza del suo amico, Wertheimer non è “capace di vedere se stesso come un essere unico al mondo, mentre in effetti è così che ciascuno di noi può e deve concedersi di vedere se stesso se non vuole cadere in balìa della disperazione”.
La differenza fra i tre è sostanziale: Wertheimer è colui che vuole primeggiare a tutti i costi, benchè la sua stessa natura non glielo consenta; Glenn non ha mai avuto bisogno di primeggiare “perché sempre e dovunque e in ogni circostanza è risultato il primo”; il narratore, pur rendendosi conto che la sua ambizione (nata però non tanto da un bisogno connaturato alla sua indole, quanto da una forma di ribellione nei confronti della famiglia) è destinata a morire, trasforma la propria condanna in una scelta. Diventando artefice consapevole della propria fine, egli si salva: la sua decisione di interrompere in modo drastico non solo la propria carriera, ma qualsiasi rapporto con il proprio strumento, lo ha reso più forte, ed infatti è l'unico dei tre a sopravvivere. “É il nostro grande capitale poter dire (...), e poi invece non dirlo”, poter fare – aggiungo io – e poi invece non farlo.
Nonostante questa pretesa libertà e nonostante la natura “vincente” di Glenn Gould, tutti e tre i personaggi di questo romanzo, però, sono dei disperati, degli infelici. Anche in questo caso, lo sono in modo diverso: il narratore, come ci aspetteremmo, lo è in modo consapevole (non per niente lui è lo “scrittore”); Wertheimer è innamorato della propria infelicità e in essa sprofonda sempre di più, fino al suicidio; Glenn Gould è solo apparentemente “felice”: egli pretende di esserlo ma non può, perché anzichè combattere contro gli altri, come Wertheimer, egli combatte contro se stesso.
“La nostra esistenza consiste nell’essere e nel lottare perennemente contro la natura, diceva Glenn, lottiamo contro la natura perché la natura è più forte di noi (...). Noi siamo quelli che vogliono sottrarsi alla natura, ma com’è ovvio non ci riusciamo, così diceva, e restiamo a metà strada.” Il suo sogno sarebbe quello di rinunciare a se stesso, di rendersi “superfluo”, per diventare tutt’uno col proprio strumento, ed è questa spirale di autodistruzione che lo porterà alla morte. Non una morte autoinflitta, come quella del soccombente, ma una morte naturale, l’ovvia conclusione di una vita trascorsa, negli ultimi anni, a suonare senza posa giorno e notte, in perpetua solitudine.
L’intero romanzo è intriso di pessimismo e questo, dopo aver letto Perturbamento, non mi sorprende affatto. Bernhard farcisce il suo scritto di riflessioni sull’insensatezza della vita, la mediocrità dell’uomo (“il mondo è pieno zeppo di mutilati, esteriormente o interiormente”), l’ostilità della natura – in special modo la campagna, che già in Perturbamento era vista come un luogo solo apparentemente “salutare”, mentre in realtà è qui che “le porcherie e le atrocità ci vengono sbattute direttamente sulla faccia e non possiamo eluderle, (...) e ci mandano sicuramente in malora in brevissimo tempo” – , l’incombere della morte.
Eppure è strano che io, di natura così solare, sia attratta da uno scrittore tanto cupo... Forse perché ci sono autori capaci di ammaliarci anche attraverso ciò che non condividiamo, facendo presa magari su pochi aspetti che però ci toccano profondamente (nel mio caso e in questo libro, il tema della “volontà di essere”, del “fallimento”, dell’ambizione inappagata), o semplicemente su una scrittura magnetica, com’è quella di Bernhard per me. Il risultato in ogni caso è ancora una volta un romanzo totalmente fuori dagli schemi, seducente, di grande densità e potenza.
Consigliatissimo... a pochi!
PS ammetto la mia ignoranza in campo musicale: solo a fine libro mi è sorto il dubbio che Glenn Gould potesse essere un personaggio reale e... sì, lo è! “La sua tecnica eccezionale, la sua sensibilità, l'assoluta modernità nella rilettura ed interpretazione dei classici ne fanno a pieno titolo uno dei più grandi pianisti di ogni tempo” e, inutile dirlo, sono proprio le Variazioni Goldberg (su cui il romanzo torna in modo ossessivo, come su tutto) una delle interpretazioni che lo hanno reso più celebre.