Mi è impossibile evitare il confronto fra le ultime due poesie, entrambe imperniate su un rivolgimento totale della prospettiva, quella caduta del cielo che assume significati e valenze emotive completamente diverse nelle due composizioni.
In quella di Ferlinghetti, l'ho già detto, sento incanto e contemplazione, uno sbizzarrirsi della fantasia che si apre in definitiva ad una accettazione del reale potenziato, amplificato, distorto e stravolto, descritto con un tono visionario e innamorato.
Invece la poesia di Alberto Feltrin è dall'inizio alla fine un grido di rabbia, e quel cielo forse dovrebbe davvero cadere su tutte le storture e le nefandezze che il giovane autore denuncia e respinge con sdegno.
Infine quell'addio, che mi fa pensare ad un amore finito (e mi viene in mente Cesare Pavese con la sua eterna delusione sentimentale, Cesare Pavese anche lui morto suicida come Alberto Feltrin).
Allora quel cielo, nel desiderio del poeta, forse dovrebbe davvero precipitare, forse per purificare il mondo, per punirlo dei suoi misfatti, o magari per sancire un nuovo inizio.
<<Fatto sta, che il cielo non cade e mai cadrà>>
dice il giovane autore, e secondo me gli dispiace. Se il cielo cadesse, seppellirebbe il dolore.
Ma non cade. Il poeta è svuotato anche della rabbia, e resta solo con la sua disperazione.
Piccola chiosa di una commentatrice che ha qualche anno in più:
bisognava saperlo da giovani, che tutta quella intensità si sarebbe attenuata e che tutto sarebbe diventato sopportabile e perfino bello... ma i giovani non lo sanno mai.
Il cielo non cade però diventa meno crudele.
Ciao
Pathurnia