Beatty, Paul - Lo schiavista

qweedy

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"Siamo a Dickens, un ghetto nella periferia di Los Angeles destinato a scomparire. Un uomo di colore di cui non sappiamo il nome (la sua ex fidanzata lo chiamava “Bonbon”) ci racconta la sua storia, di come il padre lo sottopone sin da piccolo a discutibili esperimenti per portare avanti i suoi studi psicologici sulla razza. Alla morte del padre, ucciso dalla polizia, segue la cancellazione del ghetto dalle mappe: scomparso, sparito, nessun cartello, nessuna indicazione. “Bonbon” si mette quindi in testa che Dickens e tutta la comunità devono riconquistare l’identità perduta e si fa carico dell’impresa. Ad affiancarlo c’è un vecchietto, anche lui di colore, che si auto-proclama il suo schiavo, che ama farsi dare ordini senza, tuttavia, eseguirli, convintissimo e contentissimo di perdere la sua libertà: è Hominy Jenkins, interprete ormai invecchiato e caduto in disgrazia di una delle Simpatiche canaglie.
Il loro piano per riportare in vita Dickens prevede l’impensabile: ripristinare la schiavitù e la segregazione razziale.
Il suo caso arriva alla Corte Suprema con il nome "Me Vs. The United States of America."

E' un romanzo sorprendente, non è come mi aspettavo. È una satira tagliente, cinica e feroce del razzismo e le pagine sono piene di rimandi alla cultura americana molto lontani per noi europei.
Vincitore discusso del Man Booker Prize 2016, premio per la prima volta assegnato a un autore statunitense, e anche del National Book Critics Circle Award 2016, "Lo schiavista" va ben oltre la denuncia sociale contro il razzismo e la schiavitù e nella sua originalità si allontana da molti romanzi sullo stesso tema. Geniale la paradossale scelta del protagonista di ripristinare la segregazione razziale e la schiavitù per ottenere proprio il risultato opposto, generando situazioni comiche per la sua assurdità.

Romanzo davvero strano e destabilizzante, libero dal politicamente corretto (la parola impronunciabile che inizia con N viene usata a profusione). Il protagonista nero BonBon, cresciuto a Dickens, un ghetto di Los Angeles, intende ripristinare la segregazione razziale nel ghetto per restituire identità alla comunità allo sbando. Deciso a ripristinare il razzismo in un mondo post razziale, esprime il sogno infranto di un’integrazione mai davvero realizzata.
La satira di Beatty, feroce, dissacrante, destabilizzante perché verosimile, ci ricorda che il razzismo è così profondamente radicato da rendere difficile qualche volta immaginare un tempo in cui davvero integrazione ed uguaglianza non saranno solo un’utopia.

Titolo originale The Sellout (letteralmente “il venduto”).

Un romanzo feroce, di non facile lettura, ma geniale per la sua originalità. Consigliato a chi ama la letteratura americana.

«Una volta, mentre guardavo mio padre alla scrivania che batteva furiosamente sulla tastiera, gli chiesi da dove venissero le sue idee. Lui si voltò e con la bocca impastata di whisky rispose: “La vera domanda non è da dove vengono le idee, ma dove vanno»

«Come l’intera città di Dickens, ero il figlio di mio padre, un prodotto dell’ambiente e nient’altro. Dickens era me. E io ero mio padre. Il problema è che entrambi sono scomparsi dalla mia vita, prima mio padre e poi la mia città natale, e all’improvviso non ho più avuto la minima idea di chi fossi, né di come fare a diventare me stesso »

"Ma io non piansi. Pensai che la sua morte fosse un trucco. L’ennesimo piano complicato per farmi prendere coscienza delle tribolazioni della razza nera e spingermi a realizzare qualcosa nella vita. Quasi mi aspettavo si alzasse in piedi, si scuotesse la polvere di dosso e dicesse: «Lo vedi, negro, se una cosa del genere può capitare al nero più intelligente del mondo, immagina cosa potrebbe succedere a un deficiente come te. Solo perché il razzismo è morto, non significa che non sparino più ai negri a vista».

“So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato. Eppure eccomi qui, nelle cupe sale della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America”.
“È questa l’assurdità della situazione: essere sotto processo, rischiare la galera e per la prima volta in vita mia non sentirmi colpevole”.

"Ora capisco che l’unico momento in cui noi neri non ci sentiamo in colpa è quando abbiamo davvero fatto qualcosa di male, perché questo ci libera dalla dissonanza cognitiva di essere nero e innocente, e in un certo senso la prospettiva di finire in galera diventa un sollievo."

"E questo paese, questo omosessuale latente delle scuole superiori, questo mulatto che cerca di farsi passare per bianco, questo uomo di Neanderthal che non fa altro che tormentarsi il monociglione, ha bisogno di gente come lui. Ha bisogno di un bersaglio contro cui tirare palle da baseball, di un frocio da pestare, di un negro da calpestare, di un paese da invadere o contro cui dichiarare l’embargo."

“Non mi importa se sei nero, bianco, marrone, giallo, rosso, verde o viola”. L’abbiamo detto tutti. In teoria questa affermazione doveva dimostrare che la nostra visione delle cose era priva di pregiudizi, eppure chiunque di noi, se venisse dipinto di viola o di verde, sarebbe fuori di sé dalla rabbia. Ed è questo ciò che sta facendo l’imputato. Ci sta dipingendo tutti, sta dipingendo questa comunità di viola e di verde, per vedere chi ancora crede nell’uguaglianza.

“L’apartheid aveva unito i sudafricani: per quale motivo non avrebbe potuto ottenere lo stesso effetto su di noi?”
 
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