Beckett, Samuel - Molloy

ayuthaya

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Non è facile parlare di questo libro, soprattutto rivolgendosi a chi non lo ha letto. Ma, se almeno di fama conoscete Beckett, saprete che, allievo di Joyce, è stato uno dei massimi esponenti del teatro dell’assurdo e che anche i suoi romanzi sono altamente sperimentali.

Che dire dunque? Molloy mi è stato consigliato da qualcuno che ha pensato potesse piacermi. Dopo poche decine di pagine ho pensato che fosse semplicemente illeggibile e volevo mollarlo, ma qualcosa (il consiglio?) mi ha fatto andare avanti.

Il racconto in prima di persona, senza capo nè coda, di questo personaggio decisamente anomalo, piuttosto anziano, menomato fisicamente e non solo, sicuramente colpisce per la sua eccentricità, ma basta poco per abituarsi al ritmo sconnesso dei suoi pensieri ed entrare in sintonia con lui. L’uomo vive attualmente nella casa che era di sua madre, morta da poco, e scrive il racconto del recente viaggio che ha fatto proprio per andarla a trovare. La situazione è decisamente grottesca, perchè da ciò che scrive si suppone che questa visita alla madre vecchia e cieca fosse abituale per lui, eppure Molloy, per una serie di ragioni, non riesce ad arrivare a destinazione se non alla fine (e non ci è detto come), mentre durante il tragitto egli vive come un vagabondo, incontrando personaggi bizzarri e vivendo avventure al limite dell’assurdo.

Mentre leggevo questa prima parte (il libro è diviso in due) provavo contemporaneamente un sentimento attrazione e di repulsione, entrambi dovuti sia allo stile (scarno e a tratti volgare, ma in alcuni punti lirico, quasi mistico, comunque complesso e non di facile lettura) sia alla storia, priva com’è di una trama logica e di un evidente significato. Parte dell’attrazione, comunque, era dovuta all’inspiegabile associazione che ho fatto con due autori da me molto amati: Bernhard (non so nemmeno io il perchè, una sensazione) e Walser. Per quanto riguarda quest’ultimo solo a fine libro ho capito il perchè.

Comunque sia, nella seconda parte il protagonista è un altro e anche lui parla in prima persona. Si tratta di Jacques Moran, una sorta di investigatore privato, che riceve l’ordine di partire con il figlio tredicenne e trovare Molloy, per non si sa poi farne cosa. Moran è un tipo particolare: severo, preciso, arrogante, puntiglioso; il suo atteggiamento nei confronti del mondo e soprattutto di suo figlio, ma anche di se stesso, dimostra la sua convinzione di poter tenere tutto sotto controllo, ma il viaggio e le disavventure che dovrà affrontare gli faranno scoprire che così non è.

I due personaggi hanno più di qualcosa in comune: per certi versi nascono agli antipodi e finiscono, in alcuni punti, quasi a confondersi l’uno con l’altro, al punto da farci chiedere se non si tratti delle due facce della stessa medaglia.

Ma quello che occorre capire è che questo romanzo non racconta una “storia”, ma piuttosto un’esperienza esistenziale, una metamorfosi. E questo, ad essere sincera, l’ho capito solo a fine libro, quando mi sono letteralmente fiondata alla ricerca di qualche commento critico che mi facesse luce su quanto avevo appena letto. Chi mi conosce sa che non ritengo che un libro abbia un solo di livello di lettura, quello emozionale, ma che possa essere capito e apprezzato anche in un secondo momento, magari dopo averlo approfondito, “studiato”. Il desiderio stesso di approfondirlo nasce da quanto il libro ha saputo darmi a primo impatto ed è per questo che Molloy sicuramente ha fatto centro, con me.

Ma tornando al suo significato, grazie a un bel saggio di Lorenzo Orlandini: “The relentless body”, di cui ho letto solo la parte che interessava questo libro, ho compreso che Molloy nel suo viaggio e nel suo racconto apparentemente assurdi esprime “la ricerca di uno stato di quiete nel non-essere”, che però è fortemente ostacolata da due fattori: da una parte la coscienza, che non può essere soppressa se non nella morte (di cui Molloy ha paura perchè non vuole soffrire), dall’altra la volontà di vivere del corpo, il “Wille” di Shopenhauer, che è irriducibile. Quindi da una parte Molloy accoglie come un dono il proprio decadimento fisico, dall’altro non può fare a meno di “resistere” a questo decadimento.

Per questo penso che in alcuni punti il libro mi abbia ricordato Walser: anche in lui il puro corpo, libero dalle sovrastrutture, è una componente fondamentale, anche se in chiave decisamente più ottimistica; il corpo è il mezzo per esperire il mondo ed è un’occasione di felicità.

Per quanto diverso da Molloy, anche la sua controparte Morgan effettua un percorso simile, durante il quale sarà costretto a riconoscersi assoggettato al proprio corpo e allo stesso tempo accetterà questo assoggettamento come liberatorio. In entrambi i casi tuttavia il conflitto esistenza/annullamento di sè resta irrisolto e irrisolvibile.

Mi rendo conto che, senza aver letto il libro e il saggio di Orlandini, è difficile seguire questo ragionamento, ma io spero, nel caso in cui decidiate voi stessi di leggere questo libro (che, beninteso, non è un’impresa impossibile, basta solo entrare nell’ottica giusta), vi venga lo stesso desiderio di capirne qualcosa. Vi assicuro che ne vale la pena.
 
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Minerva6

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A me hai fatto venire voglia di leggerlo. Devo solo aspettare il momento giusto.
 
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