Le belle recensioni

Pathurnia

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"La sposa giovane" di Baricco, un romanzo più "cool" che bello​

Recensione colta al volo da https://www.wired.it/play/libri/2015/04/13/sposa-giovane-baricco-romanzo/
Il ragazzo Baricco di suo sarebbe anche molto bravo, peccato che si applichi. Cioè che usi un di più di calcolo e costruzione, che sciupi una quasi spudorata facilità affabulatoria infarcendo i suoi romanzi di spunti, cataloghi, elenchi, doppifondi ed escrescenze varie che alla fine si rivelano vicoli chiusi e danno una sensazione finale, posato il libro, di entropia, di mancanza di centro narrativo. Di inconsistenza, sarei tentato di dire, come un bello spettacolo di fuochi d'artificio del quale resta solo il fumo.
Qui i protagonisti non hanno nome: sono il Padre, la Madre, il Figlio, la Figlia, lo Zio. E la Sposa giovane. Il luogo in cui vivono è del pari indeterminato, come lo è l'epoca storica: tra fine '800 e inizio '900, si deduce dal resoconto di due prodezze seduttive della Madre giovane. Il Figlio, che ha vent'anni, e la Sposa giovane, che ne ha diciotto, devono sposarsi, sono già fidanzati da tre anni ma lei è stata in Argentina al seguito del padre, lui è in Inghilterra a sorvegliare le fortune tessili dell'azienda di famiglia. Tornerà, dovrebbe tornare, lo aspettano come si attende Godot.
Se non hanno nome i protagonisti, lo hanno comprimari e comparse, a partire dal sapienziale maggiordomo Modesto che sale le scale come Cortazar insegnava si debbano salire le scale (la Famiglia ricorda in qualche modo i Cronopios e i Famas dell'argentino, con la crudeltà smussata in eccentricità più o meno blanda, più o meno innocua).
Nella Famiglia si temono la notte (tutti i membri sono morti al buio), i libri (c'è già tutto nella vita), le tristezze e tutto ciò che sfugga a un cerimoniale minuzioso quanto insignificante che “tiene in ordine il mondo”. Come le colazioni in pigiama che durano fino al pomeriggio, con o senza ospiti. Come il male necessario delle vacanze in montagna che vengono apparecchiate con settimane di anticipo smontando la casa. Come le rare visite del padre in città (al Bordello, luogo fondativo e scaturigine affabulatoria degna di Sheherazade).
In questa atmosfera da Alice senza meraviglie, la Sposa giovane è iniziata alla vita e all'arte della seduzione. Perché scrivi di sesso? chiede una donna che un tempo ha amato l'autore del libro. Perché è difficile, risponde l'autore del libro. È una risposta rivelatrice: Baricco, appunto, si applica.
C'è anche questo nella Sposa giovane: una voce narrante in perpetuo smottamento dalla terza alla prima persona (dell'autore, ma anche dei personaggi che spesso dicono al narratore onnisciente fatti più in là che continuo io) e dalla prima alla terza: le discese ardite e le risalite. Niente di sgradevole, anzi tutto abile e oliato: ma non è un po' virtuosistico? chiede un lettore all'autore (dentro il romanzo, non fuori). Forse, ma è così che si scrive, ribatte l'autore. Che si lancia in una digressione e previene l'obiezione del lettore: sto facendo una digressione ma me lo posso permettere, sono bravo e so quando posso arenare la barca sulla spiaggia, conosco il gioco delle maree.
Le conosce, non c'è dubbio. E ha una tale ansia di controllo totale della sua opera tutt'altro che aperta (il meccanismo, come accade nelle macchine celibi, è perfetto), da immaginarsi e “scegliersi” persino i lettori. In più, sa scrivere molto meglio dell'autrice delle 50 sfumature di tutti i colori a piacere. Così c'è sesso, lesbico e masturbatorio come in una fotografia alla Richard Avedon, molto patinato e per niente eccitante (ma la letteratura erotica di rado è anche erogena), molto spicciativo nell'unica copula (“lo presi dentro di me”, può bastare).
Ci sono i segreti dei personaggi: ognuno ha il suo, come una matrioska. E le invenzioni-digressioni. Che ogni tanto precipitano dal trovarobato surrealista alla battuta da oratorio: nei preparativi per la villeggiatura, oltre a coprire i mobili e riporre vestiti e stoviglie, si mettono via anche suoni e colori che verranno recuperati in seguito: e così l'avvocato Squinzi ritroverà in un cassetto un rutto che aveva emesso l'anno prima, buona questa! Oppure la Madre torna in casa a recuperare qualcosa e mormora tra sé “ma che vadano tutti a cagare” (“o forse a cantare”, aggiunge il narratore: è la stessa semantica dell'eufemismo che trasforma cristo in cribbio).
Ci sono le frasi tornite, quelle forbite e quelle superficialmente profonde o profondamente superficiali, buone come cartigli per i post-baci perugina senz'altro artigianali e senz'altro cool che prima o poi si venderanno da eataly.
In tanta munificenza, c'è una costruzione del sublime in odore di kitsch: i personaggi senza nome suonano più profondi, possiedono un'aura maggiore di quelli con un nome e un luogo, così come un manichino senza volto rende “metafisica” una piazza di De Chirico. Volete mettere se questa stramba Famiglia di industriali tessili si chiamasse, mettiamo, Loro Piana, e il luogo Biella? È lo stesso procedimento con cui negli spot si fa correre una fuoriserie tra ghiacciai, foreste e meravigliose corniches e non sulla Tiburtina, per cui nelle canzoni si scrive “uscir nella brughiera la mattina dove non si vede un passo” (nel prato? ma andiamo, che banalità), si fanno volare gli aironi e non i passeri; per cui i cantautori intonano il sublime, si fa per dire, “Hilde nel buio suonava la cetra” o “Alice guarda i gatti e i gatti muoiono nel sole” (Giaime Pintor, figlio di Luigi e critico musicale arguto e feroce, postillava: non è nobel, è solo rimmel).
Lo stile di Baricco (che ha un suo tono inconfondibile, un suo fraseggio riconoscibile), pure ammirevole, non riesce a sedurmi, è senz'altro un mio difetto. Trovo che il suo postmodern abbia un gusto di vecchio: di cascami surrealisti, di realismo magico, di prevertismi e sudamericanismi; che il suo virtuosismo ricordi più Lelouch che Salinger; che il suo immaginario ottonovecentesco sappia di rebus e di vecchia settimana enigmistica. Ciò detto, spesso si impiegano un paio d'ore a leggere di molto peggio.
(by Roberto Casalini)
 

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A PROPOSITO DEL LIBRO

La maschera dell'Africa : immagini della religiosità africana

di V.S.Naipaul​

Fonte: https://www.avvenire.it/agora/pagine/la-maschera-nera-dellafrica-di-naipaul_201009300859195100000
articolo di Chiara Zappa, giovedì 30 settembre 2010


Che cosa si nasconde dietro la «maschera dell’Africa»? Che volto hanno le tradizioni religiose ancestrali, quale ruolo hanno svolto nel corso della storia del continente e, soprattutto, quanto peso continuano ad avere nella sua vita quotidiana? Sono domande, queste, che in molti si sono posti negli ultimi decenni e che hanno costituito la base di consistenti riflessioni di antropologi e filosofi, dentro e fuori i confini africani. Il recente libro dello scrittore anglo-caraibico Vidiadhar S. Naipaul, La maschera dell’Africa (Adelphi), in cui il Nobel per la letteratura 2001 rende conto di un anno e mezzo di viaggio-inchiesta in vari Paesi del continente alla ricerca di «immagini della religiosità africana» (come recita il sottotitolo) disorienta perché lascia la sensazione che l’autore, nel presente lavoro, abbia voluto prescindere da questi contributi. Se è vero che Naipaul porta avanti una ricerca rivolta al grande pubblico, viene comunque da chiedersi se intraprendere un «viaggio di osservazione» sia il modo migliore per cercare di penetrare le categorie di pensiero e il sistema di credenze ancestrali africane: un universo il cui disvelamento agli «esterni» resta tuttora un tabù.Il tentativo stesso di alzare il velo su questo universo, tuttavia, costituisce per alcuni un motivo di merito da non trascurare. «L’Africa nera torna ogni tanto alla ribalta dell’attualità, purtroppo quasi sempre per avvenimenti negativi: carestie, guerre tribali, dittature», premette il missionario del Pime e giornalista padre Piero Gheddo. «Si dice che bisogna dare a quei popoli più finanziamenti, aiutarli "a casa loro", smetterla di rapinare il continente delle sue ricchezze: da mezzo secolo siamo abituati a questi ritornelli e molti non capiscono come mai l’Africa nera non si sviluppa. Ora, Naipaul capovolge le nostre conoscenze e credenze». Per Gheddo, lo scrittore «ha scoperto quanto gli studiosi dell’Africa già sanno, ma con una differenza». Infatti – sostiene –, «chi studia l’Africa legge di riti e magie in un modo in un certo senso distaccato, pensando che la vita oggi sia molto cambiata e tutto si riferisca a un lontano passato: Naipaul, invece, incontra scrittori, uomini politici, professori universitari, giornalisti e molta gente comune, e documenta come proprio quelle credenze siano radicate nella cultura e mentalità di molti e rappresentino, in fondo, un forte ostacolo allo sviluppo».Di avviso diverso è Mario Giro, responsabile per le relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio. «Non considererei affatto le culture tradizionali africane una sorta di tara originaria!», afferma Giro. «La colonizzazione, per l’Africa, rappresentò una forma di globalizzazione ante litteram, basata però su un rapporto diseguale. I colonizzatori utilizzarono le strutture istituzionali tradizionali per i propri scopi, modificandole e rendendole fisse, con i problemi del caso». Giro cita «la "cartina delle etnie", o la scelta di istituire tribù e capi di "serie a" e di "serie b", che avrebbe causato gravi distorsioni». Fu quindi l’impatto dell’Occidente a fare "impazzire" le strutture tradizionali? «Non è così. In ogni contesto, l’incontro-scontro con situazioni sociali nuove e complesse spesso porta a conseguenze critiche: le accuse di stregoneria verso i bambini di strada o gli anziani, in Paesi dove la vita media si è allungata, rappresentano la spiegazione irrazionale scelta per motivare uno stigma sociale: un meccanismo che tra l’altro non è certo alieno all’Europa di oggi!». Giro nega tuttavia che «questi elementi abbiano un peso così importante nella vita quotidiana degli africani: molto di più ne hanno gli effetti della globalizzazione, con i giovani che affollano gli internet point e passano ore in chat».L’Africa, insomma, ha molti volti nuovi, e «ignorarli è colpevole»: ne è convinta Lidia Procesi, docente di Storia delle filosofie extraoccidentali all’Università Roma Tre. «Da tempo, filosofi e intellettuali africani hanno messo al centro della riflessione il portato delle proprie tradizioni e il loro rapporto con la modernità e con il pensiero occidentale», spiega la professoressa Procesi. «Un autore come Kwasi Wiredu ha chiaramente espresso la necessità di una "decolonizzazione concettuale" nella filosofia africana, necessità impostasi innanzitutto a causa della sovrapposizione storica di categorie mentali straniere sui sistemi di pensiero africani, attraverso il linguaggio, la religione e la politica». Parallelamente, secondo Procesi, «gli intellettuali occidentali dovrebbero riconoscere l’esistenza di una "colonizzazione mentale" che impedisce di considerare su un livello paritario pensatori e accademici africani». Un meccanismo insidioso e duro a morire: «Io stessa – chiarisce Procesi – in alcune occasioni mi sono resa conto di dare per scontato il concetto di etnofilosofia, proveniente da una cultura di cui sono imbevuta».D’altro canto, tentare analisi sociali, economiche, politiche sull’Africa senza tenere conto della rilevanza del sistema di credenze ancestrali nella vita quotidiana sarebbe, secondo Anna Bono, altrettanto superficiale. Docente (tra i vari incarichi), di Storia e istituzioni dell’Africa a Torino, Bono ha trascorso lunghi periodi di ricerca sul continente per dodici anni: «In quell’occasione – spiega – ho compreso quanto la stregoneria e il culto degli antenati abbiano giocato, e continuino a giocare, un ruolo di blocco per il cambiamento e lo sviluppo, in forza della loro funzione di "garanti" della fedeltà al passato. In questo contesto, l’intraprendenza e i tentativi di innovare usi e abitudini sono socialmente frenati, come ben sanno missionari e cooperanti». Esiste poi, secondo Bono, un elemento ancora più determinante: «Il sistema delle credenze tradizionali rappresenta anche la risposta che l’Africa ha dato alle domande comuni a tutta la storia dell’umanità riguardo le cause del male, delle disgrazie, del dolore: secondo tale sistema nessuna tragedia è casuale ma è conseguenza di una colpa, una regola non rispettata, il malocchio di un vicino invidioso. Il che comporta anche l’atteggiamento di stigma che la società incoraggia, per esempio, verso chi è malato». Ma come potrà, allora, l’Africa, scrollarsi di dosso l’inesorabile macchia del "cuore di tenebra"? «La comunicazione con il resto del mondo è importantissima. Le giovani generazioni che, attraverso le opportunità delle nuove tecnologie, si mettono a confronto con opzioni e idee diverse costituiscono un importante motivo di speranza».
 

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RECENSIONE DEL FILM "E' STATO IL FIGLIO" - Italia, Anno di Produzione 2012
Fonte: https://www.spietati.it/e-stato-il-figlio/
Interpreti
  • Toni Servillo
  • Giselda Volodi
  • Alfredo Castro
  • Aurora Quattrocchi
  • Fabrizio Falco
  • Benedetto Ranelli
  • Giacomo Civiletti
  • Manuela Lo Sicco

    TRAMA​

    Palermo, oggi. In un ufficio postale un uomo dimesso e triste racconta la storia dei Ciraulo che in un passato indeterminato, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, si barcamenano per la sopravvivenza nel capoluogo siciliano, gli uomini della famiglia occupati a recuperare ferrame nei cantieri navali in disarmo. Una tragedia improvvisa, la morte della figlia colpita da una pallottola nel bel mezzo di un regolamento di conti tra mafiosetti del quartiere, si trasformerà in un’inatteso colpo di fortuna. O almeno così credono i familiari.

POST MORTEM​

Il lutto non si addice ai Ciraulo, famiglia palermitana di poveri disgraziati (con tutte le sfumature semantiche che il termine disgraziato può comportare, etiche, fisiche, spirituali), storditi proletari post-pasoliniani che dei figli possono fare solo e soltanto merce di scambio, marionette ridicole di un impietoso teatrino della crudeltà. Non c’è lutto possibile, né tempo per elaborarlo, perché i Ciraulo sono già tutti morti. L’improvvisa scomparsa della figlia, uccisa per sbaglio, è solo un evento più vistoso di altri che sancisce il loro status di zombi, vaganti in periferie di un paese smantellato, affamati dal mito antropofago del benessere, ipnotizzati dal moloch del denaro.
Parabola morale intinta nel vetriolo di un grottesco rivelatore, fiaba nerissima e ghignante, calvario barocco e tragicomico, l’esordio in solitaria alla regia di Daniele Ciprì non è una ripartenza ma un assestamento. L’estetica radicale di CinicoTv (e dei lungometraggi realizzati in coppia con Franco Maresco, nei quali l’irriverente violenza dei frammenti televisivi trovava una plumbea e potente coagulazione) viene riformulata frenandone il furore dissacrante e riperimetrandone la programmatica sgradevolezza ma non snaturandola nella sostanza e nelle ragioni. Il disgusto nei confronti di un’Italia imbarbarita e marcescente, orba di qualsiasi immaginario poetico o politico, totalmente alienata, rimane fermo, inalterato, irrinunciabile. È il cinismo originario a subire la mutazione più evidente: nel rapporto col pubblico non si mira più alla provocazione e allo shock ma al dialogo, sia pur formulato in termini aspri e caustici. E nell’omonimo romanzo di Roberto Alajmo Ciprì trova il materiale che gli permette di dare una forma più narrativa, una dimensione più "popolare" al suo cinema, quasi alla disperata ricerca di un umanesimo smarrito.
Ecco allora che il bianco e nero livido e sepolcrale dei lavori ciprimareschiani in È stato il figlio si accende in una velenosa tavolozza di colori ferrosi e guasti; che la comicità sconcertante e cacofonica di Paviglianiti & C., esito terminale di un’iconoclasta poetica dello scatologico, lascia il posto a un umorismo acre e feroce ma “digeribile”, residuo e ricordo della commedia italiana più corrosiva (Germi, Scola, Monicelli, Risi; il topos dei poveri che si arricchiscono), riecheggiante anche certo teatro isolano (Franco Scaldati, Emma Dante); che il mutilato, deforme e demente campionario subumano viene rimodellato con sfumature a tratti pietose in una mostruosità quotidiana, abbordabile, più facilmente decodificabile dove finalmente anche la donna, assente in tutta la precedente opera della coppia di registi palermitani, trova il suo posto. Se la terra desolata e post-apocalittica di CinicoTv era anche il cimitero-discarica di ogni ipotesi di narrazione, putrefatta in un'oscena tessitura di rutti, peti, borborigmi, in È stato il figlio si coltiva con lucida amarezza l’illusione che si possano ancora raccontare delle storie e al contempo la disillusione che non rimanga forse più nessuno ad ascoltarle (la cornice dell’ufficio postale, dove l’affabulazione s’impone come una disperata necessità, uno stratagemma di sopravvivenza di fronte a una platea sempre più esigua; i racconti fatti da nonno Fonzio al nipote che non ne afferra il senso; la tv che Tancredi cerca continuamente di sintonizzare ma che non restituisce nessun segnale).
Palermo è un’allucinazione iperrealista, un luogo disastrato dell’anima, cancrena astratta di un Sud mentale, città invisibile/invivibile dove il mare chiude lo sguardo e annulla l’orizzonte (Ciprì ha girato il suo film in Puglia in aperta polemica con le lentezze logoranti dell’apparato burocratico siciliano, ennesimo capitolo del rapporto tormentato del regista con la propria terra): un pantano di palazzoni opprimenti, cortili da sceneggiata in disfacimento, interni sovraccarichi, muri ciechi, navi alla deriva corrose dalla ruggine, spiagge tossiche violentate da minacciosi complessi industriali, sale cinematografiche autoreferenziali (Vite perdute è il film in cartellone) dove l’unica visione è uno squallido e poco soddisfacente coito prezzolato. Il formalismo visionario finisce però per trasformarsi in arma a doppio taglio: il grottesco cesellato con polso fin troppo fermo da Ciprì al tempo stesso narra e ingabbia, indaga e paralizza. La storia dei Ciraulo dopo l’avvio comincia ad avvitarsi su se stessa, ad incepparsi nel suo meccanismo a tesi, una delle sue falle rivelandosi anche la maschera rigida e irrisolta del capofamiglia Servillo, un Eduardo involgarito e untuoso, il cui talento sopra le righe e l’accento (studiatamente?) fuori posto non riescono a entrare in sintonia col resto del lodevole cast (menzione per il debuttante Fabrizio Falco, onorato a Venezia del premio Mastroianni per il miglior attore esordiente, e per un'attrice sottoutilizzata come Giselda Volodi) che invece trova la chiave giusta per far intuire il dramma lacerante sotto la caricatura.
A sciogliere quest’impasse espressiva è la svolta finale quando il sentimento del tragico irrompe senza più filtri, esacerbando le inquadrature in un’orgia luciferina di primi piani (d'impatto la teatralità insostenibile di Aurora Quattrocchi), ponendo l’accento sul volto come presa di coscienza sgomenta di una terra dove morte per mafia, risarcimento statale, burocrazia kafkiana, mellifluo strozzinaggio, sclerotizzate dinamiche familiari partecipano dello stesso meccanismo autofagocitante. Del bozzetto antropologico affiora definitivamente la pulsione di morte, senso dell’onore e cieco ossequio ai vincoli di sangue imponendosi come balsami mummificanti. Busu, il narratore trasandato e catatonico (il cileno Alfredo Castro, attore feticcio di Pablo Larraìn), svela la sua condizione di sepolto vivo, condannato all’inferno sulla terra e a raccontare in loop l’estinzione della (sua) specie. Della Mercedes nera, oscuro e ottuso oggetto del desiderio, gli stolti Ciraulo, vittime consenzienti del Potere in tutte le sue emanazioni più o meno legali, non avevano colto l’autentica funzione: dietro il prestigioso status symbol si nascondeva un luccicante, istituzionale, benedetto carro funebre.

Michele Favara
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(9 Gennaio 2012)
 
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La descrizione impossibile. Città della pianura, di C. McCarthy​

Con Città della pianura (Cities of the Plain, 1998) volge al termine la trilogia della frontiera di Cormac McCarthy. Rispetto alle precedenti, quest’ultima opera è forse la più enigmatica e la più impegnativa, e tutta la trama sembra in costante accelerazione verso il racconto finale. La caratteristica di Città della pianura è, infatti, la separazione tra le vicende narrate lungo tutto il romanzo e il discorso finale del vagabondo. Fino alla fine, tutta la trama scorre a velocità altissima, con stile quasi fotografico, senza però essere accompagnata da lunghe riflessioni come accade invece nei precedenti romanzi della trilogia. Tuttavia, giunti alla fine, l’epilogo è dedicato a un difficile e criptico racconto, carico di allusioni, messaggi e simbologie.
Billy Parham e John Grady Cole, i protagonisti dei precedenti romanzi, lavorano assieme nel ranch di Mac McGovern, in Texas, di poco distante dal confine con il Messico. Con i colleghi e amici Troy e JC, passano le serate tra un bordello e l’altro, finché John Grady non si innamora di una prostituta malata di epilessia, dando così il via a una tragica storia dove le uniche possibilità contemplate sono la vendetta e l’omicidio, in uno scenario in cui l’idea di un futuro di gioia si scontra con la coercizione di un cinico pappone, unico e vero “custode” della ragazza che fa prostituire.
La trama che ci regala McCarthy è forse meno originale rispetto a quella di Cavalli selvaggi e di Oltre il confine, eppure sembra che questo sia dovuto all’epilogo. È come se tutta la trilogia, specialmente Città della pianura, fosse una preparazione al racconto finale, che è un recupero e un’estremizzazione delle tematiche e delle riflessioni che abbiamo incontrato precedentemente.
Innanzitutto, lo spazio e il tempo in cui avviene l’epilogo sono interessanti. Billy Parham, in seguito alla drammatica conclusione della storia di John Grady Cole, abbandona il ranch di Mac McGovern e si mette in viaggio, “consumando i giorni del mondo. Gli anni del mondo. Finché non fu vecchio”.
In pochissime battute McCarthy fa trascorrere tutta la vita di Billy Parham. Non sappiamo nulla: né cosa ha visto, né cosa ha fatto, né chi ha incontrato. Fino a quando, lungo i margini di un’autostrada nell’Arizona, non fa la conoscenza di un vagabondo. Questo salto spazio-temporale all’interno della narrazione sembrerebbe evidenziare ancora di più la necessità di arrivare a questo punto, compimento dell’intera trilogia. E questo termine consiste nel racconto di un sogno dentro al sogno, dove prendono vita le esperienze di un viaggiatore che, addormentandosi su una roccia dedita ad antichi sacrifici, sogna di incontrare un’antica tribù che finirà per assassinarlo nei pressi della pietra sulla quale aveva deciso di bivaccare.
L’intricatissima narrazione permette al lettore di comprendere le tematiche che stanno più a cuore a McCarthy, qui rese esplicite ed evidenti seppur gravate da una dimensione metafisica e, a tratti, mitica, anche se forse è scorretto definire l’opera di McCarthy “gravata” da un senso metafisico, perché la ricchezza del suo mondo risiede nel costante tentativo di spingersi oltre i confini, siano essi geografici o umani. Ma tra tutti i confini che i protagonisti della trilogia hanno dovuto varcare – confini tra gli Stati, confini con la legge, confini esistenziali – ce ne sono alcuni che incatenano l’uomo alla trama infinita della storia. Noi siamo confinati in uno strettissimo spazio d’azione, dove il passato, assieme al mondo circostante, delimita la libertà dell’uomo a tal punto da renderla impotente. La realtà è una; è inevitabile. Ogni nostra azione è già priva delle numerose possibilità che immaginiamo: l’unica azione possibile è quella che è già accaduta, perché il peso assoluto della storia e del tempo schiaccia ogni uomo nell’impossibilità di crearsi un mondo: “questa tua vita alla quale dai tanta importanza”, afferma il senzatetto, “non è opera tua, qualunque sia il nome che decidi di darle. La sua forma è stata imposta al vuoto fin dall’inizio del mondo, e tutto ciò che si può dire di come sarebbero potute andare altrimenti le cose è senza senso, perché non si dà nessun altrimenti.”
Non esiste libertà che possa salvare l’uomo dall’evidente coercizione del mondo. Tutto si stringe in un’unica, infinita dimensione presente, dove il tempo congela ogni realtà alternativa, ogni azione probabile e differente; c’è spazio solo per ciò che accade; “il fatto che possiamo immaginare storie alternative non significa nulla”.
Quello che McCarthy ci propone non è tanto una negazione del libero arbitrio, quanto l’idea che la vita e il mondo sfuggano costantemente alla nostra capacità di creazione e controllo. Da un lato, infatti, tutto ciò che viviamo diventa già ricordo, e il pensiero può comprendere la realtà soltanto quando questa è già passata. Dall’altro lato, il mondo si è talmente deformato da rendere inefficace la nostra capacità di descriverlo. Durante il racconto del suo sogno, il narratore domanda a Billy Parham:

Cos’è la vita? Puoi vederla? Svanisce nel momento stesso in cui appare. Momento per momento. E alla fine svanisce e non riappare più. Quando guardi il mondo, c’è un punto nel tempo in cui ciò che è visto diventa ciò che è ricordato? Come separare l’istante vissuto dal suo ricordo? È questo, ciò che non abbiamo modo di mostrare a noi stessi.​

Noi non possiamo conoscere il mondo nel suo presente: ciò che abbiamo è l’istantaneo ritirarsi del presente nel passato, l’immediato cristallizzarsi della vita nel ricordo. Tutto è figura, immagine (proprio come in Oltre il confine, quando si afferma che il mondo è immagine visiva). Il vagabondo confida a Parham di aver provato a disegnare la propria vita su una mappa. C’è una bellissima descrizione in cui viene paragonata la vita presente, l’esistenza nel suo svolgimento, con la trascrizione fisica e figurativa di questo movimento. Eppure, tracciare la propria vita è l’impossibilità per eccellenza: essa non è mai compiuta, non riusciamo a contemplarla nel suo insieme. In un certo senso, l’esistenza è un discontinuo susseguirsi di frammenti: anche mettendoli assieme, il quadro che si crea è incompleto, disgregato; la vita non è mai rappresentabile.
McCarthy eredita così una delle tematiche principali dell’arte novecentesca, anzi, forse il perno attorno al quale ruota il pensiero dell’uomo lungo tutto il XX secolo: e cioè che il mondo si è infranto, e il legame che ci univa ad esso si è sciolto. Non c’è più descrizione possibile, non c’è più rappresentazione adeguata, la realtà sfugge ad ogni tentativo di comprensione; il rapporto uomo-mondo è distrutto:

La trama delle cose rivelava un intoppo. Quei cieli, nelle cui forme gli uomini scorgono ragionevoli destini affini al proprio, ora sembravano pulsare di un’energia senza freni. Come se, nel loro svolgersi, le cose avessero smarrito le proprie connessioni, il proprio calendario.​

Con la trilogia di McCarthy scopriamo che quella dissoluzione del mondo che ha caratterizzato tutto il novecento è ancora evidente, ancora soffocante. La realtà che ci circonda va strutturandosi secondo una lingua sconosciuta che il pensiero non può decifrare. Ma sarebbe meglio dire che la realtà non ha nemmeno più una struttura, che è senza forma, senza scopo, incomprensibile, “irraggiungibile a ogni possibile descrizione”. Le parole del senzatetto sono definitive:

Credo che egli abbia visto il mondo disfarsi ai suoi piedi. Le procedure che aveva adottato per compiere il suo viaggio ora gli sembravano un’eco della morte delle cose. Credo che egli abbia visto l’avvento di una terribile oscurità.​

È difficile non riconoscere in queste parole una somiglianza con il finale di Cuore di tenebra. Quasi un secolo separa il capolavoro di Conrad da Città della pianura, un secolo dominato dall’oscurità di un mondo disgregato e dall’impossibilità per il nostro linguaggio di descriverlo e spiegarlo. Con La strada, McCarthy darà ancora più spazio alla rappresentazione letteraria di un mondo veramente tenebroso. L’abissale distanza che separa l’uomo dalla realtà che lo circonda è più concreta che mai; pensiero e realtà non combaciano più; tutta la letteratura del novecento cerca di esprimere questa tragedia, che è la tragedia dell’ultimo secolo, e l’opera di McCarthy dimostra che essa è più attuale che mai. Nonostante molti credano ancora che il novecento letterario sia volto al termine.


Fonte (By Marcello De Blasio): https://isoccombenti.wordpress.com/...mpossibile-citta-della-pianura-di-c-mccarthy/
 

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BELFAST​

regia di Kenneth Branagh

Belfast o è un film difficile, o è un film facile che prova a essere difficile. Difficile a dirsi, appunto.
Forse in ogni caso propenderemmo per la seconda ipotesi, a partire da una constatazione di fondo: il troppo stroppia. Già, perché se sono abbastanza evidenti i buoni propositi di Branagh, e anzi a tratti così evidenti da capitolare grossolanamente nella didascalia (le dediche finali – «For the ones who stayed / For the ones who left / And for all the ones who where lost» – di sapore pleonastico, ad esempio), sembra comunque troppo smaccata la pretesa di fare “il film di maniera”: e va bene il bianco e nero, che poi però ogni tanto compaiono i colori, in un rapporto peraltro invertito (la verità in scala di grigi, la finzione nella finzione cromata); e vanno bene il vedutismo e i pillow shot su una cittadina come la capitale nordirlandese, che quindi non ci mostra mirabili paesaggi ma le sue fumose ciminiere della fine degli anni ‘60; e ancora vanno bene le inquadrature angolate dal basso e un po’ sbilenche, la profondità di campo esageratamente ostentata, i surcadrage insistiti, l’allestimento dello spazio profilmico a mo’ di fotografia instagrammabile, e così via.
Va tutto bene, ma forse è proprio questa specie di pulsione additiva a rendere la Belfast di Belfast, ridotta a un singolo quartiere e anzi sostanzialmente a una singola strada, posticcia al limite del monodimensionale. Quel po’ in più che anche nell’ottica di un film-omaggio, autobiografico, sul ritorno alle radici che lo sono in quanto e memoriali e geografiche, filtrate attraverso lo sguardo di un bambino, stride leggermente.
Detto ciò, se si legge Belfast in questi termini, se si guarda cioè soltanto all’intentio operis, allora già forse non lo si è capito del tutto; al contrario sembra complicato slegare il film dal suo autore, pertanto il processo alle intenzioni deve confrontarsi con quella che, pur non apparendo tale, è probabilmente una forma di intimismo un po’ kitsch, in piena coerenza con il pittoresco ecosistema registico branaghiamo. Il bilancio però stenta a variare.
Branagh è peraltro qui anche sceneggiatore, e sarebbe ingeneroso non segnalare come i dialoghi presentino alcuni guizzi inaspettati, capaci forse più del resto di farci penetrare nella forma di vita belfastiana, sineddoche di una Irlanda del Nord vessata da una escalation di violenze ma ancora capace di rivendicare una propria maliosa identità, fatta di accenti peculiari e di un invidiabile, cinico umorismo. Se delle cose sono ben oliate in Belfast, queste sono i dialoghi e il modo in cui da potenza divengono atto tramite una recitazione in generale efficace. Basterà?
A conti fatti sembra di no. Fa forse più ridere (o ridacchiare) che commuovere questa versione dell’orrendo agosto 1969 belfastiano, preludio a un sanguinoso conflitto che purtroppo si protrarrà per decenni, e che qui è mediato dalla prospettiva di Buddy, simpatico fanciullino affascinato dal cinema (siamo di nuovo nella didascalia à la Branagh legge Branagh), che non può che ricordare altri bambini adoperati nel cinema come filtri per raccontare e spesso distorcere i drammi della Storia: senza ricostruire l’intera filologia di quello che è a tutti gli effetti un filone basti pensare, che ne so, al recente Jojo Rabbit di Waititi, caso in effetti di tutt’altro spessore. E però Branagh quell’orrore lo tiene sullo sfondo, letteralmente (il cambiamento nelle geometrie urbane del quartiere, con filo spinato e rottami), ma anche in termini di focus, raccontando più che la storia delle rivolte la storia di alcune vite fra tante, che si barcamenano come possono, e intanto fuori c’è la guerra civile. Ne risulta un’opera che aulisce di acerbità, strizzando l’occhio a una specie di neorealismo in salsa british ma faticando a non soffocare sotto i suoi stessi, troppo esibiti, meccanismi.
Rimane dunque il sentore di un’occasione mancata. Si sarebbe potuto raccontare, pur mantenendo il piccolo Buddy e compagnia cantante, in maniera più ficcante e icastica un pezzo di Storia che non tutti conoscono, e ancora meno conoscono bene. Sarà per la prossima volta.

by Bruno Surace
(8 Marzo 2022)
Fonte: https://www.spietati.it/belfast/
P.s.: ovviamente ci sono altre recensioni, e altrettanto ovviamente scelgo quella con cui mi trovo d'accordo al 100%

🙋‍♀️
 

Fabio

Altro
Membro dello Staff
Aver visto 5 recensioni copia-incollate da altri siti mi ha fatto venir voglia di leggere NESSUNA riga di questi testi.
Forumlibri è bello, originale e piacevole perchè è scritto da persone per le persone che lo frequentano. Le classiche recensioni patinate sappiamo tutti dove trovarle, o sbaglio? :D
 

Pathurnia

if you have to ask what jazz is you'll never know
Le classiche recensioni patinate sappiamo tutti dove trovarle, o sbaglio? :D
Ma no, quale sbaglio! Qui siamo nel campo delle opinioni, e ognuno ha diritto a pensarla a modo suo!
Se non è ammesso dal regolamento è un discorso diverso, ma se siamo nel campo del mi piace/non mi piace, allora a me piace essere quel piccolo dito rivolto alla luna.
Anche la luna sappiamo tutti dov'è, eppure ogni tanto qualcuno la indica per condividere ammirazione e meraviglia.
(Dimenticavo, piacere di conoscerti...finalmente!:giggle:)
🙋‍♀️
 

Fabio

Altro
Membro dello Staff
Anche la luna sappiamo tutti dov'è, eppure ogni tanto qualcuno la indica per condividere ammirazione e meraviglia.
In verità in verità ti dico, se anche solo uno degli utenti di FL leggerà i tuoi copia/incolla allora questa discussione vedrà la luce eterna.
(Dimenticavo, piacere di conoscerti...finalmente!:giggle:)
Non potrebbe essere altrimenti.
 

Pathurnia

if you have to ask what jazz is you'll never know
Risposta "creativa": per lo stesso motivo che si mette un titolo del tipo "Gnocche calde a Manhattan" e poi è un libro di ricette vegane made in USA. Il titolo è tutto.
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Pathurnia

if you have to ask what jazz is you'll never know

Paterson di Jim Jarmusch? Un capolavoro, ma per pochi​

Ci sono due modi di vedere Paterson, l’ultimo film del regista americano Jim Jarmusch. Il primo è quello di chi gli va incontro, quello di chi, dal momento in cui appoggia le chiappe sulla poltroncina, apre un taccuino immaginario nella testa e, per tutta la durata del film, prende nota di ogni cosa. Il suo obiettivo è capire cosa diavolo gli sta passando davanti e, per farlo, cerca i puntini da unire, cerca il pattern o addirittura il frattale che gli spieghi, in piccolo, quello a cui sta assistendo, in grande, sullo schermo.


Il secondo è quello che, al contrario, lo aspetta. È il modo di chi, non appena appoggia le sue di chiappe sulla sua di poltroncina, chiude il taccuino che ha aperto durante la giornata in testa, spalanca gli occhi e aspetta. Aspetta che la corrente narrativa architettata dal regista sia abbastanza forte da potercisi abbandonare; spera che il film su cui ha investito i suoi euro lo prenda per mano e lo trascini via, almeno per un po’, senza pensare. Non è in cerca nessun puntino. Non per forza almeno.


Guardando Paterson gli occhi del primo sono veloci e attenti, si posano su ogni dettaglio, cercano di ricordarsi ogni frase, ogni inquadratura e da ogni cosa cercano di ricostruire un tragitto, una strada, anche solo per capire in che direzione Jarmusch lo sta portando. Gli occhi del secondo, invece, sono più lenti e dopo la prima mezz’ora perdono pian piano tenuta, cominciano a fare fatica, a metterci un secondo in più per aprirsi e ad accarezzare il sonno. Anche loro notano i dettagli, ma a differenza degli occhi del critico, quelli dello spettatore non sanno che farsene dei puntini: vogliono la soluzione, non un indovinello.



È agli occhi del primo, non certo a quelli del secondo, che Paterson sembrerà un capolavoro. Sono quelli del primo, infatti, gli unici che capiranno che la strada lungo cui ci accompagna Jarmusch è semplicemente quella della poesia, l’unica strada che non risponde alle normali regole del mondo. Nel mondo della poesia, infatti, come a Paterson, tutto ciò che esiste esiste per accumulo. Nella poesia i suoni esistono grazie alla loro ricorsività, le idee grazie alla loro giustapposizione e le cose prendono forma — come al cinema, d’altronde — grazie alla moltiplicazione. Esattamente come nella vita di Paterson, nella quale esiste solo ciò che si ripete: le strade del 23, sempre le stesse; la birra alla fine della passeggiata con il cane Marvin, sempre la solita, sempre nello stesso posto; l’amore tenero delle sveglie all’alba, sempre simili a se stesse; persino l’arte, che vive nelle mille versioni ripetitive delle attività, rigorosamente in bianco e nero, di Laura, moglie di Paterson.


È questo il centro del labirinto: è dalla ripetizione sempre uguale ma sempre leggermente diversa che può nascere, e nasce, la poesia. Esattamente come è in quel recinto di abitudini semplici e noia che è la vita semplice dell’autista Paterson e della moglie Laura, scandita giorno per giorno dalle stesse azioni, dall’andare a lavoro al sistemare la casella della posta, che sola può nascere la felicità.

Insomma, è un piccolo capolavoro questo ultimo di Jarmusch. Esattamente come la poesia che vuole rappresentare è lento, ripetitivo, discreto, sussurrato, ma, soprattutto, chiede qualcosa di decisivo agli occhi di chi lo guarda, ovvero la predisposizione all’attenzione, la voglia di cercare, nella ripetitività di una vita noiosa e ai margini del mondo come nel flusso di parole semplici e di suoni quotidiani che forma le poesie di Paterson, l’anello che non tiene, il minuscolo scarto che dà il senso a tutto il resto.


E questa è la sua forza, ma è anche il suo peggior difetto. È per questo che, in tutta sincerità, chi non ha quella curiosità, chi non è pronto a quello sforzo e chi non ha voglia di trovare il centro del labirinto, semplicemente, resti a casa, oppure si prepari, al cinema lo aspetta una sonora dormita.

Fonte: https://www.linkiesta.it/2017/01/paterson-di-jim-jarmusch-un-capolavoro-ma-per-pochi/
 
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