Autodifesa femminile

Pathurnia

if you have to ask what jazz is you'll never know
Per trovare una risposta operativa e concreta al problema della violenza contro le donne, ovvero consigli su arti marziali per donne e ragazze, cerco libri e/o articoli che spieghino come acquisire maggiore sicurezza in prima persona.
Per il momento ho trovato solo questo libro, che spiega soprattutto un diverso approccio mentale al problema, un modo per conquistare determinazione e fiducia in se stesse.
Il libro è "Psicologia per l'autodifesa femminile di: Diana Nardacchione, Editore: Il Dito e la Luna.
Ne copio-incollo uno stralcio.
<<L'Autodifesa Femminile.
I “corsi di autodifesa femminile” sono nati negli anni ‘70 come contromisura alla molestia ed alla violenza contro le donne ma si sono sviluppati in seguito anche sulla scorta dell’esperienza dei “gruppi di autocoscienza femminile” centrati, soprattutto, sulle condizioni di disagio femminile, principalmente in relazione al rapporto tra i sessi.
Gruppi di studio di giuriste, psicologhe, sociologhe, poliziotte e istruttrici di arti marziali e militanti del movimento delle donne che negli anni ’70 affrontarono il problema dell’autodifesa femminile finirono con lo sviluppare un approccio all’autodifesa che se da un lato attingeva al patrimonio tecnico tradizionale della arti marziali e degli sport di combattimento, dall’altro era assolutamente rivoluzionario.
Questa nuova filosofia a cui si ispirava l’autodifesa studiata ed insegnata dalle donne alle donne introduceva elementi innovativi quali l’esposizione di temi della psicologia e della sociologia differenziali dei sessi, della antropologia, della psicologia e della biologia della aggressività, della dinamica delle situazioni conflittuali, della psicologia della comunicazione verbale, della mimica, degli atteggiamenti e della gestualità, alternando l’esposizione dei contenuti teorici e la discussione di gruppo, anche con l’eventuale apporto di testimonianze personali. Anche la drammatizzazione teatrale trovava ampio spazio nella forma originale dei corsi di autodifesa femminile, al fine di studiare nella maniera più realistica le situazioni di conflitto e di aggressione, contestualmente ad uno specifico addestramento gestuale e tecnico sportivo. L’intero processo didattico ha come obiettivo la modifica gli atteggiamenti mentali utilizzando anche il supporto di una gestualità che, tecnicamente, è atletica.

L’autodifesa femminile ha come punto di partenza la consapevolezza della asimmetria presente nel confronto con l’aggressore che è più forte della vittima ed è incline alla violenza. E’ l’aggressore che ha scelto la vittima, ha valutato l’attacco come conveniente per lui, ha scelto il luogo ed il tempo a lui più favorevoli. La vittima potenziale può solo cercare di sottrarsi ad un attacco che non può evitare.
L’esecuzione di tecniche di combattimento fisico deve avvenire nella consapevolezza che ogni donna, per quanto fisicamente inferiore, è potenzialmente pericolosa per l’aggressore. La donne sono il sesso più debole ma non il sesso debole in assoluto. Le donne che vogliono difendersi sono in grado di farlo. L’esercito degli Stati Uniti ha dimostrato che la donna media adeguatamente addestrata può correre per 4 Km in un bosco portando un equipaggiamento di 35 Kg e che la pregressa maternità non preclude queste prestazioni.
Le donne sono più piccole e più deboli degli uomini, meno avvezze ad esprimere la loro aggressività ma no sono né deboli in assoluto ne prive di aggressività. Sono meno forti e più vulnerabili degli uomini ma dispongono di risorse aggressive sufficienti a scoraggiare e demotivare un potenziale aggressore. Tecnicamente, qualunque essere umano adulto è in grado di ucciderne un altro a mani nude. Il limite sta nelle intenzioni e nelle motivazioni, non nello strumento. E la sorpresa generata da gesti di difesa tecnicamente competenti ed esplosivi nell’esecuzione può essere determinante e risolutiva.
Una revisione statistica della casistica pubblicata negli Stati Uniti nel 1981 dalla Commissione Nazionale per la Prevenzione della Violenza Sessuale ha rivelato che l’80 % delle donne che avevano reagito all’aggressione era riuscito a sottrarsene.

Alla formula tradizionale della pratica di una specifica arte marziale si preferisce nell’apprendimento dell’autodifesa femminile un collage armonico di poche tecniche, sicure ed efficaci ma apprese alla perfezione, tratte da varie discipline. In caso di aggressione la risposta deve essere fulminea, esplosiva, istintuale. La reazione deve scaturire dal corpo non dalla mente. Questa deve prenderne atto e seguite il corpo sinchè essa non è in grado di prendere a sua volta la situazione sotto il suo controllo.
Una volta che la vittima abbia deciso di contrattaccare, deve proseguire nell’azione senza esitazioni e senza scrupoli sino al conseguimento del risultato auspicato. Le tecniche utilizzate devono essere eseguite con la fiducia che se sono state effettuate con la massima determinazione saranno comunque almeno in parte efficaci.
Ogni cambiamento di strategia deve essere dettato da considerazioni di opportunità, mai da impulsi emotivi. Ogni comportamento di pura manifestazione emotiva deve essere evitato, a meno che si tratti di una manovra diversiva o sia esso stesso una strategia dissuasiva.

La strategia portante dei corsi di autodifesa femminile, tuttavia, non è la neutralizzazione fisica dell’aggressore ma bensì la dissuasione preventiva. L’apprendimento di tecniche di colluttazione fisica ha un significato strumentale al fine della acquisizione da parte della partecipanti di quella sicurezza interiore che deve portare alla interdizione del potenziale aggressore prima che abbia avuto l’opportunità di compromettersi. In una prospettiva apparentemente paradossale il fine dell’apprendimento e della conoscenza delle tecniche di colluttazione fisica è il non doverne mai far uso. La loro utilizzazione deve avvenire solo in conseguenza dell’insuccesso delle tecniche di dissuasione relazionali. Il passaggio dall’ambito della comunicazione a quello della colluttazione, che vede le donne comunque svantaggiate, è da considerarsi come un preliminare insuccesso della strategia autodifensiva.

Principio fondamentale dell’autodifesa è l’acquisizione della consapevolezza che il ruolo di vittima e quello di aggressore sono complementari. L’aggressore si manifesta come tale solo in presenza di una vittima adeguata e conveniente. La presunzione che ella non reagirà all’aggressione concorre pesantemente a configurare la condizione di vulnerabilità della vittima potenziale. Per tanto, obiettivo della potenziale vittima deve essere la disconferma del potenziale aggressore nel suo ruolo.
L’aggressore deve essere reso immediatamente consapevole del fatto che il raggiungimento dei suoi obiettivi è troppo rischioso o troppo faticoso. L’aggressore generalmente si serve della minaccia, che di per se non lascia traccia alcuna, anziché della violenza, come strumento di coercizione. L’obiettivo dell’autodifesa femminile è convincerlo in tempo utile che dovrà, invece, lasciare delle tracce, che in seguito potrebbero trasformarsi in prove a suo carico.

Egli deve percepire immediatamente che la candidata vittima non è passivamente alla sua mercè e che la prevaricazione nei suoi confronti ha un costo non solo in chiave giudiziaria ma anche in termini di ritorsione fisica immediata che può non valer la pena di pagare. L’autodifesa femminile si propone di configurare un rischio per un aggressore che è convinto di non correre alcun pericolo.
L’obiettivo didattico centrale dei corsi di autodifesa femminile è l’acquisizione della consapevolezza di quei confini, non solo fisici ma soprattutto psicologici, valicati i quali un intruso può considerarsi implicitamente autorizzato ad accampare delle pretese. Ciascuna donna deve imparare a riconoscere, dentro di sé e nello spazio che immediatamente la circonda, quali sono quei limiti che non è disposta a lasciar superare. Con l’espressione verbale esplicita ed inequivocabile, sostenuta da atteggiamento, mimica e gestualità coerenti, deve imparare a testimoniare convincentemente l’esistenza di quei limiti, ad indicarne l’ubicazione e dichiararli invalicabili.

Lo stereotipo della donna debole e non aggressiva viene coltivato soprattutto nelle classi sociali medio alte, nelle quali sono più forti gli effetti delle inibizioni sociali ed educative. Questo stereotipo viene poi amplificato e generalizzato dai mass media. Il mito della donna debole e vulnerabile è un prodotto culturale, non un fatto naturale. L’inferiorità fisica delle donne è un mito coltivato dagli uomini per legittimare la discriminazione tra i sessi e del quale non poche donne si sono compiaciute per trarne indulgenza sociale e protezione. La negazione da parte delle donne delle proprie potenzialità aggressive le condanna rifugiarsi nel vittimismo ed a rinchiudersi nella paura più paralizzante e nella rassegnazione.>>

Fonte: https://www.cpdonna.it/spazio-aperto/libri/psicologia-per-l-autodifesa-femminile.html
N.b.: il grassetto e il colore rosso sono mie iniziative.
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Questo libro mi sembra interessante come cornice generale, ma cercavo anche qualcosa di più concreto, magari sulle arti marziali.
Grazie a chi risponderà.
 
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Pathurnia

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Ho trovato un altro libro sull'argomento:
di Diego Barzaghi "Mi difendo da sola - Manuale di sicurezza urbana per tutte le donne"
edizione L'Onda
 

malafi

Well-known member
Mia moglie e le sue amiche alcune decine di anni fa (forse erano intorno ai 40) fecero un corso di autodifesa.
Fu un flop, lo mollarono quasi subito perchè lo consideravano emotivamente troppo tosto.

Forse hai ragione tu, l'inferiorità fisica (che è oggettiva in relazione alla massa muscolare e solitamente anche alle dimensioni) è però più un fatto culturale e di approccio.
 

Pathurnia

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Alcune persone ritengono che sia sufficiente prendere lezioni di pugilato o di krav maga; ma la posta in gioco non è solo imparare tecniche di combattimento che, per quanto vengano ritenute efficaci, restano tecniche sportive, insegnate da persone esperte.
Il punto non è alimentare il vantaggioso mercato dell’autodifesa femminile: cosa c’è di più “reale” del vissuto quotidiano? Non siamo già esperte di violenza perché bene o male l’abbiamo vissuta in così tante situazioni? Le donne non devono imparare a combattere, ma disimparare a non combattere.
Ciò rimanda a un’etica dell’autodifesa, a un femminismo connesso al corpo – ai corpi che sanno perfettamente cosa significa essere picchiati, o anche semplicemente trattati con rudezza o mancanza di rispetto.
Forse allora è tempo di abitare i propri muscoli altrimenti, di ricordarsi a se stesse, di rifare corpo con se stesse. Questa consapevolezza corporea alla quale è possibile lavorare nel quotidiano, è una forma di cura di sé, di etica femminista in cui la restaurata fiducia nel proprio sentire, nelle proprie emozioni, renderà possibile salvarsi, assieme alla consapevolezza che il colpo che mi permetterà di proteggermi non richiede più forza dell’energia spesa a sostenere la paura di darlo.
É una forma di esercizio corporeo di sé che può modulare la voce, cambiare l’intonazione di un “no”, modificare un’espressione facciale, cambiare uno sguardo, o anche consolidare una pratica…
Piuttosto che rinchiudersi in un’estenuante doppia coscienza: “Ho capito bene? Ho interpretato correttamente? Ho ragione? Ne ho il diritto? Sono capace di farlo? È possibile, permesso, legittimo?”
Rifare corpo con sé stesse (o, detto in un altro modo, "riappropriarsi del proprio corpo") è un femminismo di ogni giorno, attraverso il quale è possibile lavorare sulla propria pelle liberando questa rabbia legittima e sacrosanta, perché solo la rabbia che è diventata un’etica del sé, una coscienza muscolare, sarà in grado di liberare le donne da una vita sulla difensiva.

Nella vita quotidiana, per la maggior parte del tempo stiamo sul “chi vive”, siamo in allerta, stiamo attente a come ci vestiamo, a come parliamo, a come rispondiamo, a come sorridiamo, a come camminiamo, a qual è la strada più sicura da prendere, a che atteggiamento avere, a che tono, a che gesto, a che messaggio trasmettere. Accelerare il passo, non guardare negli occhi, fingere di parlare al telefono, non restare da sole, chiudersi in casa, chiudersi in bagno, chiedere aiuto, non fare rumore per non svegliare i bambini, urlare, non urlare… Chi, ragionevolmente, potrebbe mai vivere una vita che rischia a ogni momento di precipitare e trasformarsi in un incubo alla svolta di una strada, della linea della metro, di una riunione di lavoro, di una gara, di una visita medica, di un concerto, di una cena, di una domenica in famiglia o di una serata romantica?
A ben vedere, nessuno. Eppure è la sorte comune di molte donne, e, più in generale, è la sorte di tutte le “vite inferiorizzate” quella di sfinirsi in questa forma di autodifesa, nella quale si deve assumere su di sé il peso di un indefinito dispendio di energie, di una paziente resistenza, di una forza impercettibile distillata di continuo al prezzo di dimenticare sé stessa.
Le donne, come altri soggetti subalterni, passano la vita a difendersi mettendo il corpo in allerta costante.
Istintivamente sappiamo reagire, ma siamo educate a incassare i colpi, a”murare” la nostra rabbia. Sprechiamo la nostra forza a sopravvivere alla violenza banalizzata dalla società che non vede, piùttosto che a ribellarci agli abusi subiti.

E se rompessimo questi rapporti di forza? se trasformassimo la nostra rabbia in lotta, se ci mettessimo tutte a reagire contro la violenza subita al quotidiano? L’esperienza ce l’abbiamo, le conoscenze pure…basta mettersi all’azione!!!”Non liberateci, ce ne occupiamo!!”(« Ne nous libérez pas, on s’en charge »).

Fonte: l'articolo " https://abbattoimuri.wordpress.com/2019/06/27/manifesto-per-lautodifesa-femminista/" testo scritto da Elsa Dorlin, filosofa femminista. L’argomento è più approfondito nel libro della stessa Elsa Dorlin “Se défendre : une philosophie de la violence” La Découverte, 2017 ).
 
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Come diceva il maestro Miyagi:

Quando cammini su strada, se cammini su destra va bene. Se cammini su sinistra, va bene. Se cammini nel mezzo, prima o poi rimani schiacciato come grappolo d’uva. Ecco, Karate è stessa cosa. Se tu impari Karate va bene. Se non impari Karate va bene. Se tu impari Karate-Speriamo, ti schiacciano come uva.
 

Pathurnia

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Trovato un altro libro:
L'aggressività femminile di Marina Valcarenghi.
Recensione di: Marina Mariani dal libro di Marina Valcarenghi

In questo libro Marina Valcarenghi si interroga sul significato della parola aggressività in ambito antropologico, etologico e psicoanalitico, ponendo molta attenzione nel definire le differenze con il linguaggio comune.
La distinzione che introduce la porterà a chiedersi come mai nel linguaggio comune questi due concetti sono confusi. Marina Valcarenghi definisce aggressività: “quella predisposizione istintiva che orienta a conquistare e a difendere un proprio territorio fisico, psichico e sociale nelle sue forme più diverse; o in altri termini quell'istinto che guida a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità”; mentre l'accezione di aggressione è: “ l'aggressione di uno spazio altrui..”.
Questa puntualizzazione di senso e significato permette all'autrice di interrogarsi sull'origine della confusione terminologica e sull'omissione della differenza culturale tra violenza e autodifesa. Il libro esplora e porta alla luce quale il senso e la funzione di questa omissione culturale e come questa abbia una stretta connessione il deficit aggressivo, che, è inteso come la difficoltà che molte donne elaborano. Deficit inteso come la difficoltà a riconoscere e a proteggere la propria identità e il proprio progetto di vita.
Come mai il deficit aggressivo espresso dal genere femminile viene considerato del tutto naturale sia in ambito scientifico sia dalle donne? Come è dunque possibile considerare naturale un modo di essere che genera sofferenza e produce sintomi sia per le donne che esprimono ipoaggressività (mancanza) sia per quelle che esprimono iperaggressività (comportamento aggressivo)?
Nel primo capitolo del libro con l'aiuto e supporto di elaborazioni teoriche provenienti dal mondo dell'etologia e dell'antropologia si indagano le motivazioni e si tracciano ipotesi che consentono di trovare risposte agli interrogativi sopra esposti.
Il secondo capitolo attraverso la cultura mediterranea (sumera, greca, ebraica) e i miti femminili si traccia il percorso “storico” della repressione dell'aggressività e del complesso femminile. Emerge attraverso i miti femminili come sia stato modificato il contesto e la struttura del rapporto fra uomo e donna.
Nel terzo capitolo, si affronta l'origine della rimozione dell'aggressività attivando una vera e propria indagine psicosociale; mentre nel quarto capitolo, la repressione del desiderio, si esplora come mai il deficit aggressivo femminile non è stato riconosciuto e studiato dai padri fondatori della psicoanalisi e le questioni aperte dalla repressione del desiderio e dell'aggressività femminile. Gli ultimi due capitoli, quinto e sesto, affrontano la problematica deficit aggressivo in relazione ai sintomi maniacali e in rapporto con i sintomi depressivi.
Marina Valcarenghi attraverso l'elaborazione teorica ed esperienziale viene affermando che nella cultura occidentale esiste una questione dell'aggressività femminile poiché essa non riguarda il problema di alcune donne, ma un modo di essere di tutte le donne, radicato nell'inconscio collettivo. In altre parole la questione dell'aggressività sembra essere al centro di un processo in cui le donne non possono avviare un percorso di liberazione personale senza spezzare le catene di un condizionamento collettivo e viceversa.
E' stato prima di tutto il modo di essere, di pensare e quindi di agire delle donne. Nel porsi queste domande parte da una forte convinzione: il peso che può acquisire nel terreno di ricerca analitica, della teoria e prassi psicoterapeutica indagare la differenza di genere come diversa struttura e come funzionamento psichico.

Fonte:https://www.cpdonna.it/spazio-aperto/libri/l-aggressivita-femminile.html
 
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Roberto89

MODerato
Membro dello Staff
Mi sento di aggiungere le mie due parole, anche se non sono una donna e non posso capire certe cose come chi le vive. Ho studiato da autodidatta arti marziali perché mi piacciono le discipline orientali, e so che fuori dal contesto dell'allenamento non sarei capace di prendere una persona a pugni, o magari anche solo di difendermi se ce ne fosse la necessità. Perché una cosa è l'arte marziale come stile di vita, un'altra è la pratica, altra ancora è la realtà della paura, della capacità di ferire un altro, della sicurezza di poter riuscire a difendersi.
Tutto questo per dire che credo che una donna che impara a difendersi dovrebbe anche essere aiutata a superare questi ostacoli, ad accettare la realtà che potrebbe essere necessario ferire chi ti vuole fare del male, e non sentirti cattiva o sbagliata per questo, oltre a credere in te stessa e nella tua capacità di farcela superando quello che può essere un punto di vista sulla vita e sul tuo ruolo di donna che dipende purtroppo dalla nostra società, ci viene inculcato dalla nascita, e potrebbe fare sentire una persona, uomo o donna che sia, inferiore a un'altra, e quindi incapace di lottare perché tanto si ha la certezza che sarebbe inutile.
 
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