Alcune riflessioni sul Marchese De Sade e sulla Nouvelle Justine

cirillo

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Ho aperto questo post non per consigliare un libro od un autore (De Sade non appartiene all’elenco degli autori “consigliabili”) ma semplicemente per condividere le mie personalissime riflessioni su un personaggio la cui opera mi ha profondamente colpito in un periodo particolare della vita. E che continua ancora, a distanza di anni, ad affascinarmi.

Sono ben consapevole di iniziare un “pistolotto” paragonabile a quelli mitici del nostro Marchese quindi, se qualcuno volesse commentarne l’eccessiva prolissità, si risparmi la fatica: mi sono già (ipocritamente) autoaccusato! (e quindi anche autoassolto)

Inizio quindi con la frase più banale del mondo: in letteratura esistono libri facili (e tra questi vi sono alcuni tra i più belli) e libri difficili, che ci chiedono uno sforzo ben superiore alla loro semplice lettura. I libri di De Sade sono (quasi) tutti difficilissimi: perché per comprenderli ci obbligano ad affezionarci ad un autore che fa ogni cosa per allontanarci da lui. Ritengo infatti sia impossibile affrontare l’opera di De Sade senza figurarsi continuamente la sua figura straripante e (perennemente) contraddittoria. Mentre lo leggiamo, il suo fantasma (e il fantasma della sua vita disperata) ci stanno perennemente davanti agli occhi. A tal proposito vorrei subito dire che, se anche il ritratto monumentale di Man Ray continua a primeggiare nella fantasia dei lettori, ritengo che quel faccione severo sia troppo tronfio e sicuro per descrivere questo filosofo scriteriato. Che, oggettivamente, nella vita non ne imbroccò una, e rimbalzò di capitombolo in capitombolo, cavalcando gli anni più tumultuosi della storia di Francia come un Don Chisciotte ubriaco (e molto sfortunato).

Meglio gli si addice l’immagine del carcerato pieno di acciacchi, confinato nella solitudine di una cella, che minaccia i topi che potrebbero causar danni al suo ultimo tesoro: i seicento libri della biblioteca personale. E’ una cella squallida, ma arredata con mobili di pregio. E lui è seduto alla scrivania, con pantaloni eleganti e un panciotto sdrucito. Tra i pochi averi rimastigli, i più necessari sono sparsi su quel tavolo: fogli bianchi che son specchi senza riflesso dove, quando vuole fuggire alle frustrazioni della prigionia, può tuffare lo sguardo per raggiungere i monasteri romiti e i castelli inaccessibili che aveva tanto sognato. E, negli spazi dei saloni e delle profondissime segrete, può ripetere, per l’ennesima volta, la sua (intimissima) rappresentazione di un mondo senza speranza.

Perché dovremmo leggere (e pure sforzarci nel leggerla) l’opera di De Sade? Le trame dei suoi romanzi, anche se ricche di spunti originali e di qualche profonda suggestione, difettano di struttura e (soprattutto) di credibilità. Anche chi lo volesse approcciare per il gusto di leggere un autore estremo finirà per restare deluso: la sua lettura all’inizio spiazza, poi nausea e, alla fine, annoia. E la sua (tanto decantata) filosofia è pessima, in quanto assolutamente “irrigorosa” e, soprattutto, in malafede. Infatti, i suoi “filosofi libertini”, apparentemente incaricati di spiegarci le sue teorie, rispettano le regole della logica solo quando fa loro comodo. E non disdegnano di deragliare i ragionamenti in palesi contraddizioni (spesso arrivando a “sragionare”) al solo fine di giungere alle conclusioni volute dall’autore. De Sade, infatti, afferma le sue verità come fossero un dogma. E’ incapace di dimostrarle ma, con ossessiva pervicacia, le afferma assolutamente ed indiscutibilmente. E in questo si macchia dello stesso crimine che imputava alla religione: disprezzava la religione come concetto, perché afferma la visione del mondo basandosi su regole inverificabili (e “inverificate”), impedendo quindi ogni confronto filosofico. E, se sicuramente odiò quella Cristiana in quanto libertino, arrivò a disprezzarla come pensatore perché il suo messaggio propone l’illusione che lui volle combattere in tutta la vita di scrittore: che l’uomo, per chissà quale arcano motivo, dovrebbe avere per natura un ruolo centrale nel Creato.

Ma, allora, cosa possiamo trarre dall’impegno di leggere De Sade?

Sicuramente l’occasione particolare di confrontarci con uno dei pensieri più duri e crudeli che siano mai stati scritti: che l’Umanità ha avuto in dono la maledizione di percepire l’immensa solitudine del Cosmo, e che la vita degli esseri umani non ha differente significato di quella degli altri elementi che ci circondano: solo un movimento colossale in cui tutto nasce al solo fine di essere consumato (è per questo che i suoi personaggi non fanno che divorare i propri simili e auto divorarsi nel pasto delle loro stesse brame)

Ma anche questo, secondo me, non sarebbe un premio sufficiente (troppo deprimente e, forse, neanche particolarmente originale).

Un critico illustre, introducendo “Le Centoventi Giornate di Sodoma”, affermò che “De Sade era indispensabile alla cultura occidentale… “. Era senz’altro la conclusione di un pensiero molto articolato ma, risparmiando la briga di riprenderlo tutto, dichiaro subito di non essere assolutamente d’accordo: la cultura occidentale poteva fare beatamente a meno del nostro Marchese. E rifiuto anche le ipotesi di chi ha visto nei suoi scritti “i germi dei campi di sterminio”, o addirittura delle ideologie alla base delle dittature novecentesche, dove il valore del singolo individuo è ridotto a quello di un “sacrificabilissimo” ingranaggio del superiore apparato dello Stato (se non addirittura suo carburante). Gli scritti politici di Sade non prefigurano questo e, soprattutto, la sua filosofia “deviata” non ha nessun interesse reale a regimi e ordinamenti: essa è esclusivamente rivolta alla natura dell’uomo come essere nell’Universo.

Personalmente, ciò che mi ha affascinato di De Sade non è tanto il suo pensiero, ma il modo in cui ha provato a trasmettercelo: non è stato capace di dimostrare la sua verità, e allora ha provato a farcela intuire.

Le sue opere sono opere visive, e la sua scrittura non va letta, ma osservata. Immersi nelle infinite pagine dei suoi romanzi più forti (i più importanti) possiamo, a un certo punto, chiudere gli occhi … e vedere in un enorme tumulto l’umanità accapigliata in un’orgia bestiale: strazi, soprusi, abomini di ogni genere. E, sopra tutto ciò, il Cosmo indifferente (indifferente come, a un certo punto, è anche l’animo del lettore). Possiamo distruggerci a vicenda e a piacimento: le urla di vittime e carnefici echeggiano nel nulla senza nessuno che le ascolti. E, in questa scrittura monotona e sconfortante, vi è un valore particolarissimo e importante: l’anima dell’autore, che si è lasciato avvincere dalla sua stessa visione sacrificando ad essa tutto. Una visione che, come pensatore, ha percepito come assoluta e incontestabile. Ma che, come uomo, non ha potuto accettare.

Pasolini, nel bellissimo film ambientato a Salò, sovrappone la geometria infernale dei gironi danteschi allo schema di raccolta delle passioni descritte nelle “Centoventi giornate di Sodoma”. “Mi sono accorto che De Sade, scrivendo, pensava a Dante”, dichiarò. A me piacerebbe affermare che De Sade, scrivendo, pensasse a Leopardi. Ma sarebbe un’affermazione anagraficamente impossibile (né mai potrei essere tanto blasfemo da capovolgere la frase invertendo i soggetti!!). Eppure, è un fatto: qualche decennio prima che il poeta di Recanati costruisse la sua malinconica teoria del “Pessimismo Cosmico”, e della “Natura indifferente”, il nostro Marchese ipotizzava una Natura criminale, che non si interessa all’uomo se non per ispirargli l’istinto di divorare i suoi simili e, infine, autodistruggersi. Il pessimismo sadiano è feroce (talmente feroce che potrebbe ingoiare Leopardi e il suo islandese in un sol boccone) e non conosce malinconia (d’altronde la malinconia, come qualsiasi sentimento “delicato”, nella scrittura di Sade sarebbe destinata a finire come “una lumaca costretta a strisciare sulla lama di un rasoio”). E, soprattutto, non è mai un pessimismo rassegnato. Non perché lasci spazio a qualche speranza di salvezza, ma semplicemente perché l’orgogliosissimo Marchese non avrebbe mai potuto rassegnarsi al semplice ruolo di vittima (fosse anche vittima del carnefice più illustre, il Destino).

Non so se sia stato veramente “lo spirito più libero che sia mai esistito”, come lo definì Apollinaire, ma me piace pensare che, in alcuni momenti della vita, egli si sia sentito come l’uomo più solo e disperato che abbia mai calcato la terra. Ma, attenzione: il Marchese non accetta la comprensione di nessuno. E, proprio quando saremmo in procinto di fornirgliene un poco, afferra le ultime armi che gli sono rimaste, i propri stessi escrementi, e imbratta tutto ciò che ci è più caro. Perché, per un irriducibile arrogante come lui, essere odiato e disprezzato è molto meglio che essere compatito.
 

cirillo

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Perché avrà scelto la sessualità, anzi, la versione deviata della sessualità, come ambientazione costante e ossessiva di questa rappresentazione? Se è infatti vero che gli “eroi” sadici non sono semplicemente dei “pervertiti” (si costituiscono infatti in una variegata congrega di ladri, strozzini, falsari, e assassini non per lussuria ma anche solo per interesse) tale caratteristica è sempre quella che li accomuna e che li definisce (ad eccezione, forse, di una tragicomica coppia di avari che ospita Justine in una breve parentesi delle sue avventure). Il Marchese avrà forse voluto fare qualche soldo profittando della morbosità “pelosa” dei lettori dell’epoca? Sicuramente, almeno per un certo periodo della sua vita. Ma anche solo ipotizzare che tale fine abbia avuto un peso rilevante nella sua scrittura è puerile e offensivo (non della sua memoria, ovviamente, in quanto essa è da sempre impermeabile ad ogni insulto. Ma di chi lo ha letto, o addirittura studiato, continuando, a qualche secolo dalla morte, ad interessarsi a lui)

La sua vita di libertino avrà condizionato questa scelta? Sicuramente sì, d’altronde ciascuno di noi interpreta il mondo sulla base delle personali esperienze. Ma attenzione, però: Sade non fu per nulla simile ai criminali che descriveva. E, soprattutto, fu un libertino convinto e impenitente (iniziò ad avere “rimorsi” solo quando i soldi iniziarono a finire). La degenerazione che, ingiustificatamente, attribuisce all’atto sessuale (nei suoi scritti sempre indirizzato al male e alla distruzione) e, soprattutto, il pessimismo infinito che ne fa derivare, poco c’entrano con la sua reale (e soddisfatta) esperienza di gaudente.

Avrà allora voluto attribuire un particolare valore all’eccitazione che provava davanti alla rappresentazione della sofferenza e della morte dei suoi simili? Non credo. Per lui la morte di un uomo valeva pochissimo, come pochissimo valeva la sua vita. E, soprattutto, non gli interessava la sofferenza in quanto tale, ma l’atto di infliggerla…

Era quindi affascinato dall’esercizio del potere, e quindi dal suo esercizio estremo che si manifesta nel disporre arbitrariamente della vita di qualcuno? Non credo neppure in questo. I mostruosi libertini che descrive sono, anch’essi, degli impotenti ubriacati di violenza. Cercano continuamente (e ossessivamente) un appagamento che non riescono mai a raggiungere, e nel momento stesso dell’orgasmo sono come costretti a ricominciare orge e baccanali in uno stato di perenne insoddisfazione. Ripetono i loro gesti come automi, senza indugi o esitazioni, coerenti come esseri meccanici. Sono tutti fantocci al servizio dell’autore, che tutti li sacrifica, carnefici e vittime, al fine della sua cruenta rappresentazione.

Vi è un momento nella scrittura di De Sade (Le centoventi giornate di Sodoma, La Nouvelle Justine, La storia di Juliette) dove le orge sanguinarie e le visioni macabre dilagano a dismisura, fino ad allungarsi in un orizzonte piatto, monolitico: Sade è giunto all’apice del suo pessimismo. Come pensatore è appagato, dimostrando l’impossibilità dell’uomo di accettare un mondo che non è a sua misura. Ma appunto, come uomo, violentissimamente protesta (e lo fa nella sua particolarissima maniera). Protesta per la condizione di un’umanità ormai orfana di tutto (la ragione ha dissipato l’illusione di un dio giusto, ma non ha saputo prenderne il posto). E provoca il lettore attaccando con esempi estremi i pilastri del vivere civile (e della nostra stessa natura umana): il contratto sociale diviene una truffa atroce, la famiglia è la culla dell’incesto e dei peggiori abusi. La fiducia nel prossimo è la peggiore delle colpe, e l’atto sessuale, motore della vita sulla terra, diviene solo ispiratore di morte e distruzione.

E’ l’atto di un ribelle che lancia un sasso contro ciò che non può combattere! E, nel suo particolarissimo stile, insieme a quel sasso lancia anche palle di sterco. L’allegoria senza speranza che ci lascia in eredità non è solo cruenta, ma è anche sporca e triviale: tutti ci rappresenta, lui compreso, allacciati in posizioni oscene e, a volte, ridicole. Tra liquidi corporei e molteplici sozzure, insieme abbracciati, affondiamo nella melma di uno squallido porcile. “Questa cloaca è tutta intrisa d’azzurro”, ha scritto George Bataille commentando le “Centoventi giornate”. Io l’azzurro non l’ho ancora visto, ma forse un giorno cambierò opinione.

Con questa lunghissima premessa volevo solo intendere che, per leggere La Nouvelle Justine, e la storia di sua sorella Juliette, è necessario (purtroppo) entrare in sintonia con uno degli autori più scomodi e disperati della storia della letteratura. D’altronde, chi ha letto la sua opera, non potrà non convenire che, nell’affollatissima schiera degli anonimi personaggi di tutti i suoi romanzi, solo due gigantesche figure hanno titolo per assurgere al ruolo di protagoniste: l’autobiografica Justine, vittima e esempio supremo dell’ingiustizia del Cosmo, e Juliette, l’eroina sadica per eccellenza. Ed è a queste due protagoniste che l’autore ha consegnato non solo la sua eredità filosofica, ma anche la testimonianza della sua vicenda umana.
Proverò quindi a scrivere, nella maniera più sintetica possibile, quello che mi hanno trasmesso questi due romanzi ( che in realtà vanno letti insieme, essendo lo sviluppo di un’unica storia).
 
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