Guimaraes Rosa, Joao - Il Grande Sertao
Confesso di aver preso tra le mani questo ponderoso libro un po’ per caso, dopo un acquisto di qualche tempo fa dettato da un equivoco, ovvero l’idea di trovarmi davanti ad uno dei soliti romanzi del “realismo magico” sudamericano. E invece che sorpresa! Poco conosciuto in occidente, questo romanzo non sfigurerebbe affatto accanto ai capolavori della letteratura epica di tutti i tempi, ma con caratteristiche tutte sue che ne fanno, a che io sappia, un caso unico, difficilmente classificabile. E’ un romanzo, innanzitutto; ma definirlo prosa sarebbe sbagliato, talmente lirica ed evocativa è la lingua, che il traduttore (nell’edizione da me consultata Edoardo Bizarri) rende costringendo la lingua italiana a flessioni sintattiche ardite eppure plausibili (“Dico che andai, dico che mi piacque. Dopo le lunghe tappe, il vitto pronto, i buoni riposi, il cameratismo. Ci si distraeva bene. Ci si svegliava in un posto, s’entrava nella notte in un altro, tutto quello che ci poteva essere di rancido o in discordia con noi, restava alle nostre spalle. Era l’infine, Era”, sono le parole con cui il protagonista, Riobaldo, descrive al suo anonimo interlocutore l’atmosfera di tempo sospeso della sua vita da jagunço). C’è un eroe, che a tratti diventa però anche un anti-eroe, capace di un personalissimo modo di venire a patti con il male: un eroe suo malgrado: Riobaldo, l’orfano, nella sua parabola da maestro di scuola a bandito dalla mira infallibile, Tatarana, a capo di una schiera di banditi, l’Urutu Bianco, all’inseguimento di una vendetta che è in realtà una prova ordalica, la rivelazione visibile delle forze in campo nell’esistenza umana, dello scontro tra il bene e il male. C’è una voce collettiva, quella dei compagni e dei nemici, senza che il confine tra gli uni e gli altri sia fissato una volta per tutte. C’è l’amore, ma anche questo mobile, mutevole nel suo profilo.
Ma c’è soprattutto il paesaggio, non sfondo ma vero protagonista del romanzo: il sertão, lo sconfinato altopiano battuto dal sole spietato e dalle notti gelide (“Lì non c’è nessuna acqua – solo quella che uno si porta con sé. …. Picchia il sole, in onda forte, picchia a tutt’andare, tanta luce che ammacca. …. Di notte, se è sereno, il cielo è tutto un lucore di sfere luminose ... Com’è bello vistoso, il cielo stellato, verso la metà di febbraio! Ma, a luna spenta, quando è buio fatto, c’è un’oscurità che impastoia e prende. E’ notte di molto volume”), che sfocia nelle veredas, le strette vallate dalla vegetazione rigogliosa e dai melodiosissimi uccelli.
La vicenda è ricostruita a ritroso, con numerosi salti temporali, da un Riobaldo ormai anziano, ritiratosi al vivere civile di proprietario terriero dopo il matrimonio con la fidanzata di sempre, Otacilia, a beneficio di un anonimo quanto colto uditore. Dopo la morte della madre e una fallita convivenza con il suo padrino che probabilmente è il vero padre, viene arruolato come maestro da un ricco possidente, Ze Bebelo, che mette su la propria banda di jagunços in nome di un personale senso della legalità. Ne fugge per unirsi ad un altro movimento di jagunços capeggiata dal leggendario Joca Ramiro: qui ritrova un giovane che era stato un tempo suo compagno di giochi, Diadorim. Tra i due rifiorisce l’amicizia, un legame esclusivo che sempre di più somiglia all’amore: un amore impossibile, causa di frustrazione, dubbi e gelosie, che fa fiorire in Riobaldo il sospetto che il diavolo in persona si sia insinuato nella sua vita.
Quando Joca Ramiro viene vigliaccamente ucciso da un ex compagno d’armi, Riobaldo decide di venire a patti con il diavolo, perché gli conceda la forza di uccidere l’Ermogene e così sbloccare lo stallo in cui è rimasto intrappolato. Il diavolo risponde a questo patto? O meglio, esiste poi il diavolo (“E poi, se uno si mette a fare la vita del jagunço, è già per qualche entrante competenza del demonio”)? Di fatto, da quel momento il comportamento di Riobaldo cambia, diventa il nuovo, spietato o ciecamente determinato capo della banda, torturato dal dubbio di ospitare il diavolo in sé, ansioso di portare a termine la sua missione per sfuggire a quell’indeterminatezza, a quell’assenza di punti saldi che è la vita del sertão.
E la vendetta avrà, o meglio la avrà Diadorim sull’assassino di colui che era in realtà suo padre: ma nell’uccidere in duello Ermogene, viene ferito mortalmente. La morte dell’amico sarà per Riobaldo la rivelazione di un inatteso segreto e anche lo scioglimento delle sue angosce e dei suoi dubbi: “il diavolo vige dentro l’uomo, nelle increspature dell’uomo – o è l’uomo rovinato, o l’uomo degli occulti. Sciolto, di per sé, libero cittadino, è che non esiste diavolo nessuno”. E’ semplicemente che, come Riobaldo ripeterà spesso, “vivere è una faccenda molto pericolosa”.