Abietti, Bruno - Ninjutsu: l'arte dell'invisibilità

yamatologica

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Un libro per stomaci forti ma non privo di spunti interessanti. Tempo fa su suggerimento di conoscenti mi sono avventurato a ritroso nel mondo delle arti marziali italiane.

Il costante aumento di interesse verso le arti marziali negli ultimi decenni ha visto svilupparsi da una parte l'impegno di pionieri che hanno introdotto in Italia alcuni filoni della cultura marziale giapponese, fondando associazioni capaci di mettere in contatto il grande pubblico con tradizioni vive e tangibili di quel paese; dall’altra ha visto nascere un gran numero di gruppi, sedicenti maestri ed esperti di discipline esotiche che si sono pubblicizzati principalmente attraverso editoria o riviste.
In generale le conoscenze di costoro non vanno oltre l'adattamento o la manipolazione di nozioni già riportate in manuali stranieri, magari accompagnate da un'esperienza maturata in arti marziali considerate più convenzionali (judo, karate) e per questo non di rado sminuite. In anni meno globalizzati di oggi, complice un'evidente assenza di rapporti diretti con i paesi e le culture d'origine, ha prosperato nella letteratura popolare sulle arti marziali un mondo immaginario e autoreferenziale in cui le poche informazioni originali, datate o deformate in una sorta di inefficiente telefono senza fili, costituiscono il labile nesso con la realtà in un panorama asiatico mitico e stereotipato.
Bisogna dire che il fenomeno non è affatto limitato all'Italia e non si presenta sempre in modo eclatante. In Italia però, soprattutto a partire dagli anni settanta, alcuni testi contribuiscono a formare un vero e proprio folklore (con il suo repertorio di leggende) anche in ragione del discreto successo commerciale che riscuotono presso gli appassionati del settore. Il libro “ninjutsu: l'arte dell'invisibilità” e le altre opere della stessa serie mi sembrano esempi ideali per comprendere taluni aspetti di questo meccanismo, non solo per la singolarità dei loro contenuti ma anche perché l'autore, grazie a creatività ed un talento narrativo non comuni, riesce a presentare una mistificazione sotto forma di lettura affascinate e – almeno nelle sue intenzioni – istruttiva.

Attraverso una moltitudine di digressioni e aneddoti, presentati il più delle volte come esperienze personali, l'autore intende far luce sulla misteriosa arte giapponese del ninja, ritenuta oggi (o meglio all'epoca della pubblicazione) ingiustamente dimenticata o nel migliore dei casi strumentalizzata. Al contrario il ninjutsu sarebbe non solo un aspetto importante della cultura giapponese, ma le sue antichissime origini ci porterebbero in Cina e addirittura in India, secondo un diffuso preconcetto che vede ogni arte tradizionale giapponese necessariamente indebitata con un antecedente continentale di venerabile antichità.
Questo approccio in realtà permette all'autore di introdurre altri argomenti pescati nel calderone del sapere orientale più a portata di mano: dai meridiani agopunturali alla parapsicologia, dal daoismo allo yoga. Tutti questi ingredienti sarebbero confluiti per vie misteriose nelle conoscenze (estesissime) dei ninja giapponesi e dei pochi eletti che a tutt'oggi ne tramanderebbero l'eredità più autentica.

Al di là di errori e fantasie che informano tutta la trattazione e che scoraggiano commenti troppo circostanziati, quest'ultimo tema merita secondo me particolare attenzione. L'autore e i suoi collaboratori, sul solco tracciato da alcuni predecessori d'oltreoceano, non si pongono infatti come semplici studiosi dell'argomento e non resistono alla tentazione di impersonare essi stessi gli ultimi eredi del ninjutsu, allineandosi ai dettami del moderno ninja-lore e mettendo in pratica ciò che ha costituito una delle principali attrattive del ninjutsu per il pubblico occidentale, ovvero quella sorta di role play basato sul travestimento che prevede “allenamenti” in luoghi naturali, riproducendo situazioni di combattimento e inscenando di fatto le imprese dei ninja (vedi immagini nel testo). Ironicamente, questo genere di attività ha effettivamente una controparte giapponese degna di nota rappresentata dalle messe in scena pseudo-storiche (rekishi taiken, chanbara-gokko, ecc.) e in tempi recenti dal più spensierato kosupure, il cui ruolo nella “rinascita” giapponese del ninjutsu è di gran lunga più determinante di quanto i ninja nostrani sembrino rendersi conto ed ancora palpabile in opere precedenti, come i manuali dell'americano Hayes, che ha attinto a piene mani al lavoro di “ricostruzione” di un noto depositario giapponese dell'arte delle spie. A giudicare dal testo, i ninja italiani di “ninjutsu: l'arte dell'invisibilità” si prendono invece piuttosto sul serio, anche se per colmare le proprie lacune sullo stato dell'arte del ninjutsu l'autore ricorre a informazioni di origine dubbia anche per gli standard del genere, forse riconducibili al cinema di Hong Kong o ai romanzi di un narratore americano.

Proprio in questo paradosso risiede gran parte della singolarità dei libri di Abietti. Da una parte appare evidente - soprattutto ad anni di distanza dalla ninja-mania – come l'autore e i suoi aiutanti più che artefici di una mistificazione ne siano piuttosto le “vittime” entusiaste; dall'altra la ricerca di autorevolezza e le argomentazioni magniloquenti addotte mano a mano per la pratica del ninjutsu assumono proporzioni eccessive, finendo per guastare la lettura potenzialmente divertente dei primi volumi della serie. L'autore sembra volersi gradualmente affrancare dall'ingenuità dell'impostazione iniziale - forse rispondendo ad un aumento di spirito critico del suo stesso pubblico - non riuscendo però a superarne il limite intrinseco. Ci propone così una serie di elementi disparati a dimostrazione dell'autenticità e dell'ortodossia del sistema, mescolando nozioni di storia cinese, episodi in odore di paranormale e alcune fabbricazioni vere e proprie, che nel complesso dovrebbero giustificare l'esistenza di una antica scuola ninja nella città di Torino (si tratterebbe della scuola o delle scuole Ojino Jonin Ryu e Yoshin Ryu, sic, più volte citate nei ringraziamenti). In “ninjutsu: l'arte dell'invisibilità”, comunque, questi elementi sono ancora latenti mentre prevale un atteggiamento sibillino ma più generalista.
Se le fotografie di personaggi incappucciati intenti a maneggiare armi da taglio (alcune delle quali di aspetto oggettivamente minaccioso) in una qualche costruzione diroccata può destare seri sospetti di mitomania nel lettore non preparato al genere, il resto del volume è arricchito da schizzi di tipo fumettistico che ne attenuano in parte l'effetto, ma confermano l'impressione che l'autore e i protagonisti siano incappati in un grande equivoco tra realtà e fantasia.

In conclusione il contributo informativo di “ninjutsu: l'arte dell'invisibilità” è minimale se non fuorviante, visto che i suoi “contenuti tecnici” sono mutuati quasi integralmente da altri testi, si direbbe di bassa lega. Ciò che può rivestire un certo interesse è piuttosto l'elaborazione personale - per quanto parziale o apologetica - che l'autore fa di queste informazioni, che dimostra un'abilità non comune nel suo genere ed in parte giustifica il successo editoriale del libro, testimoniato da citazioni disseminate ancora oggi nella rete italiana e in pubblicazioni secondarie. In questo senso il libro di Abietti diventa addirittura una lettura consigliabile, a patto di averne ben chiaro il carattere folkloristico e di essere interessati alle declinazione italiana di un grande mito delle arti marziali.

(credo che il libro sia esaurito, io l'ho reperito in biblioteca)
 
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