Al di là delle nostre retine? Prescindendo da esse? Cosa vi sarebbe? Soprattutto, perchè vi sarebbe qualcosa 'oltre' e...perchè vi dovrebbe essere?
Che vi sia
essere dietro le nostre retine non dovrebbe esservi alcun dubbio, oggi. Al più possiamo chiederci che cosa, eccedendo la nostra limitata dotazione sensibile, conservi il reale nella sua totalità; domande simili si pose chi per primo scorse la nostra visione per il tramite dell'occhio, posta a rigido controllo del limite dello spettro: cosa vedrebbe il bulbo oculare, se il cristallino potesse accogliere i raggi gamma? Che cosa si udrebbe, possendo la dote meravigliosa della ricezione degli ultrasuoni?
In metafora matematica, non siamo che misere epsilon, sospese come in analisi tra lo zero e l'uno gnoseologici (in questo caso e contesto): né del tutto incapaci di conoscenza, né del tutto pronti e (strumentalmente) dotati per la piena comprensione dell'universale.
Instauriamo le nostre identità tra pensiero e reale mediante leggi assolte dal nostro metodo; orgogliosi sfidiamo un limite che è lì, presente in ogni momento. Ecco, domanda interessante sarebbe: è possibile
spostare tale limite, contrarre la cosa in sé fin quasi al suo disvelamento? Le nostre scienze ed il nostro metodo lasciano supporre risposte in tutto affermative; i successi ottenuti dall'uomo posivitivista hanno posto l'onnipotenza del procedere secondo leggi matematiche, il nuomeno pare arrivabile se non attraverso il nostro apparato sensibile, sicuramente per lo strumento, prolungamento (per definizione) dell'arto dell'uomo nell'atto di sfidare il suo circostante.
Eppure, hegelianamente, mi trovo entro la schiera dei pessimisti, giacché - direbbe Hegel, appunto - è impossibile cogliere conoscere una
cosa, prescindendo dalla cognizione dell'universo intero; ciascun oggetto di conoscenza è tale e totale se e solo se appartiene alla conoscenza del Tutto. Russell si infervorò non poco, non riuscendo tuttavia a screditare tale (esatta, per altro) argomentazione, si limitò invece a trovare una via di mezzo, una mediazione gnoseologica soddisfacente.
Nessuno, ad oggi, può negare la lezione hegeliana.
Ma in sig. Zefiro scrive
Ecco. Credo le cose stiano così. La realtà ha un suo nocciolo duro di essenza sua a prescindere, non funzionale alla percezione. Nel momento in cui pratichiamo l’atto della conoscenza, essa sfoca un po’, il nocciolo dissolve poco o tanto, in un alone, questo si funzionale all’osservatore, alle sue idee, al suo momento storico, alla sua cultura e così via. L’alone stesso ha a volte la capacità di interagire col nocciolo, finanche, poco o tanto a modificarlo senza però cambiarne radicalmente la struttura. Un processo dinamico appunto.
E se questo è vero, come del resto ritengo sia, è vera anche l'assurzione di tale processo come massima apertura cognitiva.
E infine la verifica, che molto ci piace perderci in iperuranici mondi e proiezioni di noi. I fatti di contro - cioè la realtà - sono sempre creature molto ostinate. Una questione di metodo insomma
Vale la pena spendere due parole intorno al metodo.
Modus venerato come via verso la sapienza, sempre più spesso ci si dimentica del suo carattere derivato; figlio dell'assoluto solipsismo cartesiano, assurge ad unico strumento di conoscenza, in ciò avanzando nel giusto - inesatto è però porlo come autoassolto, indipendente, come non rinviante a cause anteriori costrette alla necessità di porlo. In sostanza, la methode cartesiana è effetto di pensiero
precedente il metodo stesso. E' posto, non auto-ponentesi. Questo, oggi, val la pena ricordarlo.
Restano fuori per fare un esempio le grandi domande e la ricerca di una risposta generale (non per segmenti parziali) ad esse: cosa è vero e cosa non lo è? Cosa è giusto? Cosa è la felicità? Esiste Dio? Come si conosce? Quando un pensiero un ragionamento, è (almeno formalmente) corretto? Etc. etc… Mi piace notare che il fatto che le grandi domande non abbiano (o non abbiano ancora, chissà, “never say never” diceva James Bond) risposte in forma chiusa e/o evidente e/o dimostrata, non significa che non siano buone domande, anzi, forse anche per questo sono ottime domande… non fosse altro per lo spin off, la ricaduta, i frutti che gli sforzi fatti nei secoli per tentare di dare ad esse una risposta hanno prodotto. La logica Aristotelica per fare un esempio clamoroso. Senza la quale il nostro modo di affrontare la realtà, di studiarla, sarebbe ancora legata, come un masso che ci porta a fondo, al più mero empirismo. Volendo quindi, per farla semplice, giudicare soltanto dai risultati senza addentrarsi in complesse questioni etico-morali-religiose, questo solo contributo è di per sé già di portata immensa.
Amen.
Qualcuno direbbe della filosofia il luogo del non-luogo, come capiente gli interstizi più angusti lasciati come sacrificabili od inutili dalla altre scienze e dai loro oggetti di studio; io la vedo più come la disciplina superiore ad ogni altra, allorché di ognuna trama le fila, ricongiunge alle altre, mediante le tessere apportate dalle scoperte delle sue nate, tesse il grande mosaico del reale. Costruisce totalità da ogni parzialità, conferisce senso se non alle scoperte, almeno al domandarsi. Scrivono in tanti - e a ragione -, di come esistano (e siano i più importanti) problemi non esauribili, giacché la loro inesauribilità costituisce il nostro status autentico di uomini; cosa saremmo se non ci chiedessimo i curassimo della morte? Macchina, bestie. Non uomini. Scienze raccolte nelle loro sicure e ferme -logie, non troveranno soluzione, o di nuovo troveremo colpevole confusione tra il metodo e le ragioni che l'hanno posto.
Molto azzeccata la parentesi sugli spin-off.
Si direbbe di ogni scienza, di tutte e davvero, non siano che spin-off dell'unica madre.
Figlie adulte, per così dire.
Che poi, per scherzare un po', se c'è una scienza che può spiegarci esaustivamente la mente umana, quella non sarà mai la (brrrrr:??) psichiatria.
Si può comprendere qualcosa anche senza spiegarlo
La psichiatria nasce per
com-prendere, non per spiegare. Jaspers docet.